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 2005  dicembre 07 Mercoledì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 24 NOVEMBRE 2003

A Istanbul non c’è più il sultano ma è arrivato lo sceicco. Non hanno lasciato trascorrere neanche una settimana e Istanbul è tornata nel mirino dei terroristi islamici. Questa volta a saltare per aria sono stati la sede della Hsbc Bank e il consolato della Gran Bretagna. Anche il momento non è casuale vista la visita di Bush a Londra e il suo discorso centrato sulla «guerra giusta» contro il regime di Saddam Hussein per esportare la democrazia anche con la forza. [1]

Il conflitto mediorientale è alle porte dell’Europa. Bernardo Valli: «Anzi vi è già arrivato. Là è infatti l’ingresso al Mediterraneo. Non soltanto quello disegnato dalla geografia. La Turchia è la cerniera tra due mondi. A Istanbul in particolare, la metropoli più volte ferita, convivono due anime: una secolare, di stampo europeo, l’altra religiosa, rivolta all’Islam. un equilibrio tormentato, puntellato dalla tradizione laica dei militari e dalla orgogliosa volontà di una parte della società altrettanto laica. Il rischio che quell’equilibrio venga meno non è all’orizzonte. La diga turca non cede sotto la pressione di una forte corrente islamica, sia pure non obbligatoriamente integralista. Ma i cervelli che hanno organizzato gli attentati hanno colpito un Paese chiave, membro dell’Alleanza Atlantica, la cui stabilità è essenziale per l’Europa». [2]

La Turchia è al limite della zona di frattura creata dalle guerre in Afghanistan e in Iraq. Richard Verly (’Le Temps”): «La sua tradizione laica, la sua marcia forzata verso l’Europa, le sue relazioni normalizzate con Israele, le sue basi militari della Nato rappresentano tutto quello che bin Laden e i suoi sicari odiano di più al mondo. Chiunque siano gli istigatori dell’orrore è il ”ponte” turco che si vuole abbattere: ponte fra l’islam, l’occidente e la modernità, ponte fra religioni; ponte fra il nuovo ordine mondiale americano – per quanto problematico possa essere – e una regione ferita». [3]

Sanno che la Turchia è in bilico, per questo puntano a scardinarla. Siegmund Ginzberg: «I terroristi hanno scelto con cura, niente affatto a casaccio, i loro simboli. Prima le sinagoghe, poi una banca e il consolato britannici. Volevano farci sapere, ancora una volta, che ce l’hanno innanzitutto con i dragoman, gli interpreti tra le diverse culture, le soluzioni diplomatiche. Cerchiamo di spiegare l’immagine. Da quando Elisabetta I aveva nominato il primo ambasciatore di Londra alla Sublime Porta del sultano di Costantinopoli nel 1580, sino alla nascita della Turchia moderna dopo la Prima guerra mondiale, avevano fatto ricorso ad una figura particolare e decisiva, il dragoman, l’esperto di lingua, leggi, costumi, politica locale, quello che meglio poteva capire le sottigliezze degli interlocutori e della situazione con cui avevano a che fare, gestire i rapporti coi visir, i cadì, i capi dei giannizzeri e dell’esercito, gettare un ponte, impedire catastrofici errori o malintesi, insomma tenere aperte le comunicazioni. [...] Il senso più profondo delle bombe di Istanbul potrebbe essere proprio eliminare gli ”interpreti”, tagliare le comunicazioni, nella speranza che il caos faccia saltare le cerniere che ancora tengono, aprire un ”fronte turco”». [4]

La Turchia è il paese delle contraddizioni, sempre in bilico fra una naturale vocazione mediorientale-asiatica e una vocazione occidentale indotta. Maurizio Matteuzzi: «Paese musulmano al 99 per cento ma Stato ferocemente laico dai tempi di Kemal Atatürk e ora con un governo islamista, per quanto moderato dal 2002. Paese sempre in bilico fra Europa e Asia, fra Europa e Balcani, fra Europa e Medio oriente, fra Europa e Asia centrale ex-sovietica. Paese legato dal ’96 da un’alleanza militare e strategica con Israele. Paese eternamente candidato all’Unione europea ed eternamente rimandato (nel 1997 al 2002, nel 2002 al 2004, nel 2004 al 2007, c’è chi pronostica che forse nel 2012...) per un’infinità di ragioni ufficiali - Cipro, kurdi, diritti umani - e una non ufficiale ma altrettanto pesante - l’Islam. Unico paese islamico della Nato (fin dal ’52) per impedire la penetrazione sovietica sui Dardanelli. Unico paese islamico ad avere un contingente militare in Afghanistan. Paese legato da sempre mani e piedi agli Stati Uniti - che l’hanno sostenuto militarmente, economicamente e politicamente - ma da tempo attratto e tentato dall’Europa - che è di gran lunga il suo primo partner commerciale». [5]

Da 80 anni la Turchia è una Repubblica democratica, fondata e voluta da Mustafa Kemal, Atatürk. Marco Ansaldo: «Il padre dei turchi ha rivoluzionato il paese, togliendogli il fez e mettendolo in giacca e cravatta, imponendogli l’alfabeto latino e agganciandolo all’Occidente. Lo Stato, nonostante la presenza del 99 per cento di musulmani, è fermamente laico. Il velo è proibito nelle scuole e in tutti i luoghi pubblici. Il braccio di ferro fra militari e governo è una costante, sullo sfondo della battaglia per l’ingresso in Europa». [6]
’Costantinopoli” a pagina 3

In Turchia, sopra la legge e i governi in carica, ci sono tuttora i militari. Roberto Di Caro: «Baluardo della laicità dello Stato un po’ per storia un po’ per non fare la fine del vicino esercito iraniano, semisbaraccato dopo la rivoluzione khomeinista: l’ultima cosa che vogliono è una ventata di integralismo religioso portato sulle ali dell’antisemitismo, tanto più che loro hanno con Israele eccellenti relazioni, ci mandano gli aeroplani per le periodiche modernizzazioni, acquistano da Tel Aviv le più sofisticate tecnologie belliche spuntando il miglior prezzo». [7]

Recep Tayyip Erdogan, eletto primo ministro l’11 marzo di quest’anno, non ha fatto molto per attivare gli odi del fondamentalismo islamico. Mimmo Candito: «Infatti, di fronte al ripetuto tentativo americano di acquistare il permesso di passaggio delle proprie truppe attraverso il territorio turco nella preparazione dell’attacco a Saddam, tentativo accompagnato da ricche profferte di miliardi di dollari (e solo la sapienza infinita di Allah conosce quanto Erdogan abbia bisogno in questo momento di sostanziosi flussi di capitali stranieri), anche di fronte a tanta succosa tentazione Erdogan ha risposto negativamente». [8]

Un comportamento assai strano per quello che, fino a quel momento, era considerato il più fedele alleato dell’America e dell’Occidente. Alessandro Grossato: «Coerente, anzi coerentissimo invece, se si considera che a governare sia ormai un vero partito islamico, sia pure capace, come si è visto, diversamente dai suoi precursori, di mantenere un quasi perfetto no profile, quasi una sorta di democrazia cristiana turca, come qualcuno l’ha scherzosamente definita. Coerente, ancora, con la più elementare logica di tutela dei propri veri interessi geo-politici riguardo al pericolo del formarsi di un qualunque abbozzo di Stato curdo ai propri confini. Coerente, infine, con quella che ai più raffinati osservatori appare essere ormai la vera scelta strategica di fondo verso cui tutta la Turchia muove lentamente ma inesorabilmente, sulla base di un’assoluta vocazione ”nazionale” da tempo latente, ma ormai incoercibile, perché resa solo ora possibile da tutta una serie di grandi mutamenti geo-politici avvenuti in Asia Centrale. Una conferma di più, sia pure ancor solo come tendenza in nuce, di quei grandi vortici identitari su base culturale e religiosa che secondo Huntington caratterizzano il nuovo secolo». [9]

Vogliono punire la Turchia, perché non riescono a situarla. Nedim Gürsel, scrittore turco che da trent’anni vive a Parigi: «Giorni fa, degli uomini d’affari turchi sono stati invitati a Berlino da Gerhard Schröder, che ha detto: dite a Erdogan che sta facendo bene, che non ci aspettavamo riforme così radicali e così in fretta. Schröder ha evocato la possibilità di fissare una data per l’inzio dei negoziati di adesione della Turchia all’Unione europea, se il governo continua nelle riforme. Ma un governo emanazione di un movimento islamista che ha oggi questa immagine in Europa pone un problema all’islam radicale. Per i fondamentalisti, c’è un paese islamico che esprime un desiderio d’Europa, che va verso la democratizzazione. Non mi fraintendete: ho sempre pensato che la democrazia e l’islam non fossero conciliabili e lo penso ancora. Ma il governo turco sta cercando la strada della democratizzazione. Per i radicali, invece, è lo scontro che conta. Il fondo della questione è che il governo sta creando uno spazio politico dove vengono rimesse in causa le condizioni dello scontro». [10]

La Turchia è diventata una sorta di laboratorio politico. Alberto Negri: «I musulmani moderati governano infatti in coabitazione con l’altra Turchia, quella secolarista che si esprime nei partiti ma soprattutto nel potere dei militari. Si tratta di un esperimento importante per il Paese: è il tentativo di conciliare valori ritenuti occidentali con l’esigenza di una parte consistente della popolazione di esprimere altri valori, quelli tradizionali musulmani. Questa svolta ha rivelato fino in fondo le due facce della Turchia: laica e religiosa, moderna e tradizionale. Qui si gioca dunque una partita essenziale, strategica non soltanto per gli interessi in gioco ma anche per l’evoluzione dei regimi nel resto del Medio Oriente e del mondo musulmano. Forse il modello Turchia, quello della coabitazione della convivenza, non è facilmente esportabile ma sicuramente, se ha successo, diventa un caso importante, che sottrae terreno di propaganda e argomenti alle espressioni più radicali» [11]. Ihsan Dagi, professore di Relazioni Internazionali all’Università Tecnica del Medio Oriente di Ankara. «La Turchia sta emergendo come modello di Paese musulmano. I suoi leader vengono da un background islamico ma hanno abbracciato i valori occidentali e fatto buoni progressi nel portare avanti riforme economiche, politiche, riguardanti i diritti umani. Questa è chiaramente una minaccia per Al Qaida». Soli Ozel, professore di Relazioni Internazionali all’Università Bilgi di Istanbul: «Tutto quel che caratterizza la Turchia è l’antitesi di quel che vogliono questi gruppi: un partito con radici islamiche che prende il potere con strumenti democratici e porta avanti le riforme». Soner Cagaptay, analista al ”Washington Institute for Near East Policy”: «La Turchia è una minaccia ideologica cruciale per Al Qaida». [12]

La vittoria nel novembre 2002 del Partito della Giustizia e Libertà (Akp), di ispirazione islamico moderata, è dovuta alla lunga crisi che morde da anni l’economia del paese, inutilmente combattuta dai governi precedenti. Pierluigi Mennitti: « stata una scelta di democrazia da parte di un elettorato maturo che spera nel successo di una nuova classe dirigente: non è per mettere il velo sul volto delle donne che i turchi hanno mandato al governo Erdogan, ma per porre rimedio ai conti pubblici». [13]

L’Akp ha ottenuto alle legislative dell’anno scorso un forte consenso perché molti turchi si sentono irritati da un laicismo spinto all’estremo. Kenan Gürsoy, docente all’Università Galatasaray di Istanbul: «Il partito di Erdogan ha invece trovato una sintesi tra islam e modernità. L’Akp parla, infatti, di libertà, di diritti umani, ha una gran voglia di entrare in Europa e di risolvere i problemi con la Grecia sulla questione cipriota. Questo islam non piace certamente agli estremisti i quali, con le bombe, puntano a intralciare questo cammino di riconciliazione interna ed esterna. [...] Il popolo turco ha avuto la possibilità, per la prima volta dopo molto tempo, di essere se stesso. La Turchia ha intrapreso da ormai due secoli la sua occidentalizzazione, direi la sua de-ottomanizzazione, attraverso enormi problemi e rivoluzioni che hanno lasciato tracce nel nostro sistema di politico, sociale e culturale. Fino all’anno scorso, non era esistita una vera pace interna in Turchia, una riconciliazione tra i differenti gruppi, perché, di fronte alla modernità, il popolo turco non si era definito come musulmano. Adesso, invece, ha la possibilità di essere insieme moderno e radicato all’interno di una tradizione che gli appartiene. Anche coloro che non hanno votato l’Akp – e io sono tra questi – ora ritengono che un governo islamico moderato rappresenti invece un’opportunità unica». [14]

 troppo presto per valutare l’impatto degli attentati di Istanbul. Soli Ozel: «L’economia turca, in particolare il turismo, potrebbe esserne danneggiata. Ma ci sono poche ragioni per ritenere che le riforme verranno rallentate o interrotte. Se l’Akp si fa condizionare dalle bombe nella scelta tra democrazia e sicurezza, offre un argomento agli oppositori che temono una Turchia più democratica. Il partito di Erdogan deve condannare la violenza islamista e segnare una chiara linea di demarcazione tra musulmani e nichilisti. Le tesi avanzata in alcuni paesi occidentali che i potenti militari turchi useranno questa opportunità per recuperare il terreno perso durante il processo riformatore appaiono improbabili. [...] Semmai aumenterà la risoluzione di un’opinione pubblica sempre più favorevole all’ingresso nell’Unione Europea». [15]

Guardare ad Istanbul in una prospettiva più ampia. William Pope, numero due dell’Antiterrorismo Usa: «Mettendola insieme alle stragi degli ultimi mesi che hanno segnato l’Asia, l’Arabia Saudita, il Marocco, quel che si vede con estrema chiarezza è una stagione di terrore che si muove decentrando e moltiplicando la minaccia. Orizzontalmente. Al Qaida non sta operando in solitudine e secondo un criterio verticale di ordini trasmessi dal vertice alla base. Ma con l’appoggio estemporaneo di sigle locali, che sono poi quelle che portano a termine gli attentati». Secondo Pope è una buona notizia lì dove dimostra lo stato di salute precario della leadership di Osama bin Laden e «gli esiti dello smantellamento, in questi due anni, di due generazioni della sua luogotenenza». Ma diventa una pessima notizia perché nella debolezza della leadership di Al Qaida guadagna terreno la commistione assassina tra le istanze radicali locali e una generica fratellanza di violenza in nome della guerra al Satana occidentale. Al Dipartimento definiscono quel che sta accadendo ”Jihadismo”. [16]

«Per capire ciò che sta avvenendo su scala planetaria, bisogna rifarsi a uno dei primi video-discorsi di Osama bin Laden, quello trasmesso nel 2001 durante la guerra in Afghanistan, in cui egli affermava che la crisi politica dell’Islam risaliva ad ottant’anni prima. Il riferimento era ovviamente alla fine dell’impero ottomano fra il 1922 e il 1924, dunque alla nascita degli Stati-nazione sulle rovine dell’impero ottomano. Il radicalismo islamico ha sempre considerato lo stato-nazione, e la democrazia, come elementi allogeni al pensiero politico dell’Islam. [...] Certamente esiste una strategia di Al Qaida di consolidare le sue reti e le sue posizioni all’interno del continente europeo e più in generale in occidente. L’altra strategia è quella di differenziarsi sempre più dal modello sciita rivoluzionario, che secondo loro è in crisi, e di affermare sempre più una matrice sunnita. [...] allora questa una guerra che si svolge su un triplice fronte: sul versante mondiale, perché è antioccidentale; sul versante europeo, perché vuole spezzare il tentativo della Turchia di definirsi europea entrando nella Ue, e vuole impedire l’allargamento dell’alleanza angloamericana; infine sul versante del mondo musulmano, nella relazione fra sunniti e sciiti, e nella questione del rapporto fra Islam democratico e Islam imperiale. [17]

Si tratta anche di un messaggio nei confronti di chi tenterà di facilitare l’accesso al potere degli sciiti in Iraq, e di emarginare di conseguenza il mondo sunnita.