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 2005  dicembre 06 Martedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 13 OTTOBRE 2003

Alla sinistra servono princìpi, ma ha solo ideologie, «Quando parlo, parlo con una voce ebraica, americana, del XX secolo, di uomo, bianco... parlo sulla base di una tradizione storica, di un particolare tipo di esperienze e per la difesa di un particolare tipo di valori. Non mi rivolgo solo ad altri ebrei, né parlo solo dei temi della dispersione e dell’emancipazione che mi assicurano un grande pubblico. Sono felice di avere un pubblico, perché prendo sul serio l’affermazione del profeta Isaia secondo cui gli ebrei devono essere ”luce delle nazioni”. Ma attenzione: non c’è articolo determinativo, Isaia non dice la luce, bensì solo luce. bene che vi siano altre luci, anche perché la nostra a volte si oscura» (Michael Walzer).

Michael Walzer è fra i più importanti pensatori della sinistra liberal statunitense. Nato a New York il 13 marzo 1935, ha insegnato alla Princeton University (1962-66), alla Harvard University (1966-80) e, dal 1980, all’Institute for Advanced Study di Princeton, dove è docente di Scienze sociali. condirettore della rivista ”Dissent” e collabora a ”New Republic”. Filosofo della morale, Walzer si è occupato di storia del pensiero politico moderno, e di temi essenziali al dibattito contemporaneo: il problema della guerra giusta o ingiusta, quello del rapporto tra uguaglianza e libertà, socialismo e liberalismo, democrazia e pluralismo.
Ha appena pubblicato, per i tipi di Laterza, La libertà e i suoi nemici, libro-intervista a cura di Maurizio Molinari, 38 anni, romano, corrispondente de ”La Stampa” a New York, esperto di politica estera e questioni diplomatiche. Il volume «è frutto di ripetuti incontri avvenuti fra il novembre 2002 e l’aprile 2003, durante mesi segnati da eventi come le guerre in Afghanistan e in Iraq, le violente tensioni fra Europa e Stati Uniti e i continui allarmi terrorismo».

Taxi. Una volta presi a Bruxelles un taxi guidato da un immigrato nordafricano che mi disse minacciosamente: «Prima uccideremo tutti gli ebrei e poi i cristiani, ci prenderemo l’intera Europa»...
«Non mi dispiacerebbe affatto se ci fosse qualcuno a tenere d’occhio questo tassista. Chi parla in questa maniera in genere conosce persone che in questa maniera agiscono. Dobbiamo fermarle prima che agiscano».

Patriot Act. Il Patriot Act approvato dal Congresso dopo l’11 settembre 2001 rafforza la protezione del paese da attacchi terroristici. Ma per molti osservatori rappresenta una violazione della Costituzione americana, perché consente al governo di operare in segretezza e condurre indagini a carico di sospetti senza dover rispettare i tradizionali limiti giuridici.
«Finora non ho visto alcuna manifesta, lampante violazione dei diritti dei cittadini americani. L’amministrazione guidata da George W. Bush non limita le libertà di espressione. [...] I detenuti nella base militare di Guantanamo, nell’isola di Cuba, sono problemi reali, ma non esistono ragioni per alzare gli scudi contro la violazione della Costituzione. Nessuno in America ha timore di perdere il proprio lavoro se pronuncia un discorso contro la guerra in Afghanistan o in Iraq. Esistono alcune minacce per le libertà civili, ma non sono quelle denunciate dalla sinistra liberal».

Il coraggio di farsi minoranza. Nel suo libro ”Sulla tolleranza” ha scritto che non tutto il mondo è tollerante come l’America, lo crede ancora?
«Sì, certo. La differenza cruciale è che nel XIX secolo in America, per il bene del paese intero, gli anglosassoni protestanti hanno accettato di trasformarsi in minoranza sul loro stesso territorio. Nessuno ha mai neppure preso in considerazione il fatto che italiani, olandesi o tedeschi potessero diventare minoranza nel loro paese. [...] Noi invece abbiamo accettato curdi, macedoni, polinesiani, congolesi, albanesi: tutti. L’integrazione dei musulmani è un problema più europeo che americano, perché ad esempio gli italiani vogliono che l’Italia resti loro, da noi la realtà è diversa».

Le virtù del contagio. Lo storico Bernard Lewis scrive che l’incomprensione fra islam e Occidente è dovuta al fatto che il mondo musulmano ci conosce molto poco: mentre le nostre università sono disseminate di istituti e facoltà di studi orientali, nel mondo arabo non avviene altrettanto. Crede che il modello religioso protestante potrebbe essere il vettore di comunicazione finora mancato?
«Certo, le barriere verranno meno grazie a matrimoni misti e impiego nel mondo del business. Il modello protestante sta già contagiando l’islam americano. Prima o poi ne vedremo gli effetti. Nell’attuale crisi della cultura islamica, i musulmani devono confrontarsi con un estremismo che viene dall’interno delle loro comunità: è verosimile che esso sarà respinto prima dall’islam occidentale».

Padri, figli, nipoti. L’egiziano Mohammed Atta e gli altri dirottatori dell’11 settembre vissero per lungo tempo in Occidente prima di colpire Washington e New York. In questo caso la convivenza ha prodotto effetti negativi.
«Atta e i dirottatori appartengono alla prima generazione. I figli e nipoti delle circa 2.800 vittime dell’11 settembre, tedesche o americane o spagnole, vivranno assieme alla seconda e alla terza generazione di immigrati nordafricani. L’interrogativo è quale sarà la qualità della loro vita».

Da dove viene la rabbia dei musulmani contro l’Occidente?
«Dalle vicende interne al mondo musulmano. Nell’islam sta accadendo ciò che è già avvenuto nell’Europa dell’Est e in Russia, dove per decenni si sono verificati scontri molto duri fra chi era occidentalizzato e modernista e chi, invece, era tradizionalista. Il conflitto fra queste due anime ha prodotto odio per l’Occidente in passato e ne produce ancora oggi. Quest’odio non si sarebbe mai sprigionato se gli Stati arabi si fossero occidentalizzati, modernizzati con successo, riuscendo a garantire i servizi ai cittadini e salvaguardando i diritti umani. stato il fallimento del modello di Stato moderno nel mondo islamico ad alimentare il fondamentalismo».

La sinistra è pronta ad affrontare il tema di come bisogna combattere il terrorismo?
«C’è una parte della sinistra che, evidentemente, non è pronta: non ha mai considerato seriamente, in realtà, la possibilità di governare il paese, ha una visione romantica, veste i panni di un’opposizione permanente. [...] Il paradosso è che la sinistra si ritiene da sempre rappresentante e portavoce principale della gente comune; ma poi arriva la nuova emergenza del terrorismo e molti intellettuali di sinistra si affrettano a lavarsene le mani».

Babilonia. Quanto pesa l’ideologia nei ritardi della sinistra nel comprendere che dopo l’11 settembre il mondo è mutato?
«Per la sinistra nella quale sono cresciuto e che oggi non esiste più, l’ideologia era molto importante. Se c’era uno sciopero a Detroit e volevi capire cosa stava avvenendo bisognava cominciare con lo studiare la divisione del lavoro nell’antica Babilonia. Questa sinistra esiste ancora in piccole sette marxiste, trozkiste, in partiti come Rifondazione comunista presenti in alcuni paesi d’Europa. Oggi, invece dell’ideologia, la sinistra ha bisogno di princìpi da applicare in diverse situazioni con risultati differenti. Princìpi come l’eguaglianza di opportunità. Bisogna convincere la gente che abbiamo dei princìpi. La differenza fra princìpi e ideologia è che per spiegare i princìpi non si deve cominciare da Babilonia».
La terza via c’est moi. L’iniziativa politica che prese l’ex presidente Bill Clinton lanciando la ”terza via” era un tentativo di avvicinare l’America alla sinistra europea e latino-americana, di farla conoscere meglio.
«Ho sempre pensato che fossi io a rappresentare una ”terza via”. Fra la destra fascista e del conservatorismo ortodosso in economia da un lato, e la sinistra rappresentata dal comunismo dall’altro, la democrazia liberale costituisce la terza via. Non credo sinceramente che Clinton abbia avuto successo nell’evocarla, nel presentarla, nel farla conoscere. [...] Pur essendo stato il miglior leader democratico dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, non possedeva lo spirito del combattente, voleva solo e sempre piacere a tutti. Quando i repubblicani conquistarono il Congresso nel ’94, fu molto abile nel manovrarli per evitare che realizzassero il loro programma, ma allorché si trattò di battersi per il suo, non ne fu capace».

Un liberalismo responsabile (per essere di sinistra). I democratici ora devono scegliere come sfidare George W. Bush: affidarsi a un candidato forte della sinistra liberal come Howard Dean oppure ai moderati come Joseph Lieberman o John Edwards per occupare il centro. Da dove ricominciare?
«Bisogna assumere posizioni liberal forti, ma deve trattarsi di un liberalismo responsabile. Dobbiamo dire: ”Sappiamo cosa deve essere fatto per il bene dell’America e siamo pronti a farlo”. [...] Non bisogna lasciare alla destra la bandiera della lotta al terrorismo. La sinistra liberal, cioè i socialdemocratici americani, devono dire al paese che la sicurezza è una conquista che richiede una maggiore eguaglianza. [...] Questioni di sicurezza, garanzie di libertà, operato della polizia, rispetto delle libertà civili, lotta al terrorismo con attenzione costante alla necessità di mantenere il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge, offrendo le migliori garanzie che possiamo dare ad ognuno. Il liberalismo responsabile è il metodo per essere di sinistra nell’età della guerra al terrorismo».

La guerra delle parole. Il braccio di ferro sulla guerra a Saddam Hussein ha causato la più seria crisi fra partner della Nato dell’ultimo mezzo secolo. Poteva essere evitata?
«La strada degli Stati Uniti doveva essere quella di coinvolgere più alleati, più partner, nel contenimento dell’Iraq e, quindi, nella soluzione del problema Saddam. [...] Un compromesso possibile sarebbe stato quello di una ”piccola guerra”, creando uno stato di pressione permanente sul regime di Saddam Hussein – anche con mezzi militari, ma limitati – affinché si disarmasse, o fosse obbligato a lasciare il potere. [...] La marcia dell’America verso la guerra è stata deprimente, ma il fallimento dei suoi oppositori nel proporre un’alternativa lo è stato altrettanto. Francia e Russia senza dubbio hanno giocato le loro carte diplomatiche all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ma non hanno fatto seguire la loro roboante retorica da qualcosa che avesse un significato, da una proposta».

Saddam non era abbastanza brutto. Come giudica la campagna condotta dal movimento contro la guerra?
«C’erano due modi di opporsi alla guerra, il primo semplice ma sbagliato, il secondo giusto ma difficile. Hanno scelto il primo: quello di negare che il regime di Saddam fosse particolarmente brutto, affermando che era poco sotto lo standard degli Stati ordinari o che – per quanto terribile fosse – non rappresentava in realtà alcuna minaccia significativa per i suoi vicini o per la pace nel mondo».

Sorvegliare e punire. Quale strada avrebbe invece dovuto seguire la protesta?
«Il modo giusto per opporsi alla guerra era quello di sostenere la messa in opera di un sistema di contenimento e di controllo capace di funzionare. Ciò avrebbe comportato il riconoscimento del carattere orribile del regime iracheno e dei pericoli che poneva, affermando con i fatti l’intenzione di adottare tutte le misure coercitive possibili - sanzioni, ispezioni, controlli e no-fly-zones -, tranne la guerra. Certo non sarebbe stata una politica facile da difendere, ma sarebbe stata giusta».

Lezioni da trarre?
«Quando siamo scesi in strada contro la seconda guerra del Golfo, avremmo dovuto farlo anche a favore di una maggiore assunzione di responsabilità a livello multilaterale, cioè avanzare le nostre obiezioni non solo a Bush e ai suoi alleati, ma anche ai leader di Francia e Germania, Russia e Cina che, sebbene in conclusione si siano tutti pronunciati per le ispezioni, in passato si erano mostrati in più occasioni pronti a scendere a patti con Saddam. Se la guerra alla fine è stata combattuta, la responsabilità non è solo degli Stati Uniti, ma anche di costoro».

La stabilità richiede tempo. Lei ha affermato in più occasioni che in Afghanistan, dopo il ritiro dei sovietici, gli Stati Uniti sbagliarono ad andar via perché sarebbero dovuti rimanere e favorire una nuova stabilità. E in Iraq?
«La guerra non è stata giusta come quella afghana contro i russi. Ma anche qui dobbiamo essere pronti a pagare il prezzo della ricostruzione. Dobbiamo trovare un metodo per consentire l’autodeterminazione del popolo dell’Iraq. [...] Potremo andare via solo quando la ricostruzione materiale del paese sarà consolidata e ci sarà un regime efficiente, capace di restare in sella. Tutto ciò richiederà un certo tempo».

Crede che oggi l’America sia un impero?
«L’America non è un impero, è una potenza egemonica. Non abbiamo né la capacità né, sospetto, il coraggio per guidare un governo imperiale. Non siamo pronti a pagare i costi di un impero, non abbiamo mai creato un’amministrazione imperiale e non abbiamo neppure imparato idiomi e costumi dei popoli che vogliamo dominare. [...] Il nostro impegno pubblico per la democrazia rende il dominio imperiale molto difficile da giustificare ed altrettanto difficile da gestire. [...] In condizioni di egemonia globale, si creano governi capaci di opporsi al potere egemonico ed allora, in quei casi, la volontà egemonica con questi governi negozia compromessi. Nel mondo di oggi, ogni possibile progetto imperialista andrebbe incontro a una opposizione tale da farlo fallire. L’egemonia [...] è un progetto possibile, l’impero è pura fantasia».

Se Gramsci fosse alla Casa Bianca. Ci spieghi quale può essere una teoria dell’egemonia...
«Antonio Gramsci, il maggiore teorico dell’egemonia, sottolineava che l’egemonia implica un certo equilibrio e che i gruppi egemonici fanno sacrifici di natura collettiva. L’egemonia si basa sulla forza ma anche, e in maniera più significativa, sulle idee e sulle ideologie. [...] L’egemonia non deve servire solo a trarre profitti su scala nazionale da parte del più forte, ma piuttosto deve diventare lo strumento di condivisione di scelte tese ad aumentare la qualità della vita anche degli abitanti degli altri paesi».

Lei cosa pensa del concetto di guerra giusta?
«La teoria della guerra giusta – pur richiedendo sempre una critica attenta nei confronti di ogni singolo atto bellico – rappresenta la dottrina adottata da persone che pensano di governare ed usare la forza. Possiamo considerarla una dottrina della responsabilità, perché fa sì che i leader politici e militari siano responsabili del benessere della loro gente, ma anche di quello di uomini e donne innocenti che si trovano sul fronte opposto».








Credo che la guerra sia ancora, in qualche occasione, necessaria. [...]
. Questa è la mia speranza. Voglio immaginare che il primo grande studio teologico islamico contrario al fondamentalismo verrà da una moschea europea o americana





Adesione volontaria. Oltre alla lingua comune, qual è l’altro pilastro su cui si fonda la capacità della società americana di integrare gli immigrati?
«Il protestantesimo, ovvero la forma originale di una Chiesa fondata sull’adesione volontaria. L’America ha fatto propria l’idea protestante dell’associazione volontaria. Non è obbligatorio andare in un luogo: si può scegliere di andarci o meno e, facendolo, ci si ritrova assieme a tutti gli altri che hanno compiuto la medesima scelta. Nasce così una nuova comunità. Se i tuoi genitori non sono d’accordo, ti puoi spostare e fare una scelta diversa dalla loro. Non è un caso che la maggior parte degli americani viva distante dai propri parenti».

Cittadinanza e differenza. Qual è la ricetta americana del compromesso fra gruppi etnici?
«La via americana è un misto di forte integrazione politica, con un marcato senso della cittadinanza, e di altrettanto forte differenza culturale. Questa ricetta però funziona meglio quando vi è un grande numero di immigrati e non un solo gruppo che forma una grande minoranza, come ad esempio sono oggi gli arabi in Francia».

I nipoti delle vittime dell’11 settembre e dei fondamentalisti islamici studieranno assieme?
«Credo che qualcuno di loro diventerà avvocato esperto in diritti civili presso qualche associazione nazionale...»