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 2005  dicembre 04 Domenica calendario

Quino: "Da trent´anni smaschero i prepotenti". La Repubblica 04/12/2005. «ABuenos Aires, l´anno scorso, mi sono trovato davanti a me stesso

Quino: "Da trent´anni smaschero i prepotenti". La Repubblica 04/12/2005. «ABuenos Aires, l´anno scorso, mi sono trovato davanti a me stesso. Una mostra per i miei cinquant´anni di lavoro. Beh, lo voglio dire: mi ha sorpreso la coerenza, e mi è anche piaciuta. Dicono sia un difetto degli stupidi, io spero sia un pregio dei sognatori. In fondo ho ragionato sempre sulla stessa cosa: la prepotenza come malattia dell´umanità». Joaquìn Salvador Lavado Tejòn, detto Quino, a 73 anni suonati è sempre una star mondiale del disegno umoristico, e non solo per la celebratissima Mafalda, che Quino ha smesso di disegnare nel ’73 ma ancora circola indisturbata e loquacissima per il mondo. Esce in Italia, da Rizzoli, un bel volumone curato da Ivan Giovannucci, Ci è sparito l´orizzonte. Il tratto elegante di Quino, il suo comico e malinconico bianco e nero, da Mafalda in poi ha attraversato diversi stili, ma il filo rosso - ha ragione l´autore - è sempre lo stesso: un viaggio ostinato dentro il potere, l´accanimento gerarchico e l´autoritarismo che informano e deformano i rapporti tra le persone. Rapporti politici e rapporti familiari, amore e guerra, maschi e femmine, bambini e adulti, ricchezza e povertà. Con una implacabile definizione "ideologica" della questione: nessun dubbio sulle differenze tra deboli e forti, e sulla scelta di campo di Quino per i soccombenti. La confusione dei tempi, e la perdita delle certezze ideologiche, non hanno levato a Quino neanche un grammo della sua precisione, quando si tratti di indicare chi vince e chi perde, nel gioco eterno del potere. «La cosa bella, o forse la cosa brutta, è che tavole disegnate trenta, quaranta anni fa paiono concepite adesso, sugli stessi soprusi, le stesse guerre, le stesse spaventose differenze. Come se il mondo si fosse fermato, fosse ammalato delle stesse malattie, un ammalato cronico, inguaribile». Effettivamente rileggere adesso Mafalda non dà l´impressione di un vero e proprio scarto d´epoca. come riascoltare i Beatles. Semmai, viene il timore di una certa stagnazione... come se anche i linguaggi si fossero fermati. «Beh, sì. Lo vedi anche nella pittura, nell´arte in genere, mancano nuovi movimenti forti e riconoscibili. Banalmente, io credo che manchino gli ideali, i sogni, l´impulso al cambiamento, la speranza di ottenerlo. Per i giovani, oggi, è molto più difficile formarsi un´opinione perché è molto più difficile scegliere gli amici e i nemici, il campo dove stare. Le simpatie e le antipatie si sono stemperate. Uno come Giovanni XXIII, o come Kennedy, o come il Che, non è all´orizzonte. E un "cattivo" come Bush è molto deludente, nella sua parte, sembra un Forrest Gump diventato per caso padrone del mondo». Ogni capitolo del libro antologico si apre con Mafalda, quasi a dettare il tema, e poi affida lo svolgimento al meglio delle infinite tavole disegnate da Quino del dopo-Mafalda. «Di Mafalda ho disegnato in tutto 1290 strisce. Le altre sono più di trentamila. Patisco del tipico complesso del compositore condannato a essere famoso sempre per lo stesso motivo di successo, quando magari ha scritto musica molto migliore, ma meno conosciuta... Il libro, in questo senso, mi gratifica molto: Giovannucci è stato bravissimo, ha valorizzato soprattutto il resto, che è largamente la parte più vasta della mia produzione. Non c´è nessuno scarto, comunque, tra i temi di Mafalda e quelli successivi. C´è lo stesso spirito e anche la stessa durezza». Durezza è la parola giusta. Quino inganna, la sua pagina è sobria e curata, il suo mondo grafico è pulito e quasi "classico", non ha niente da spartire con il tratto feroce e deformante di molta satira politica. Ma la sostanza è spesso crudele, l´umiliazione dei deboli è indicata senza esitazioni sentimentali, il potere è quasi antropofago nella sua voracità. Gli domando se è d´accordo con una celebre definizione del comico: il tragico visto di spalle. «Non sono mai riuscito a classificare davvero la comicità. Ho letto Freud e Bergson, ma ho smesso di farmi troppe domande in materia. E poi certi conti non mi tornavano: per esempio gli studiosi dicono che gli animali non hanno senso dell´umorismo, si vede che non hanno mai giocato con un cane lupo... E insomma la teoria non mi appassiona, mi sento un marinaio che ha confidenza con il mare, ci naviga in lungo e in largo, ma non ha nessun bisogno di sapere davvero che cos´è l´acqua. L´unica cosa certa è che è stato l´umorismo a condurmi al disegno, non viceversa. Anche se studiavo Belle Arti, per me l´importante, fin dagli inizi, era il meccanismo comico, è su quello, soprattutto, che mi sono applicato. Di conseguenza, il mio vero rimpianto è avere smesso troppo presto di studiare disegno. Ho abbandonato Belle Arti a quindici anni, credevo di sapere tutto e invece avrei dovuto continuare. Come disegnatore non sono mai stato un ricercatore di stile, ma a volte ho il sospetto di avere rinunciato a migliorarmi. Tutti i fumettisti, o quasi, si sentono artisti a metà, e forse lo sono. Al di sotto dell´arte...». Avrebbe preferito diventare pittore? «Ma no, in fondo no. Ripeto, a me premeva lavorare sul comico, la mia cifra è quella e in fin dei conti le cose sono andate benissimo così. Però, certo, Klee e Steinberg...». L´universalità del linguaggio, però, l´ha ottenuta... Le sue tavole sono pubblicate davvero ovunque, lette ovunque, capite ovunque. «Non proprio ovunque. Diciamo nel mondo latino, davvero al completo: Sudamerica, tutta l´Europa meridionale, e nel Nord solo la Finlandia, che evidentemente è un Nord molto sui generis. Negli Stati Uniti, per esempio, non funziono, il mondo anglosassone in genere evidentemente mi è estraneo, oppure l´estraneo sono io. E questo riflette perfettamente la mia formazione, la provincia di Mendoza, un´Argentina profondamente lontana e profondamente diversa da Baires. Una zona di immigrati mediterranei, italiani, spagnoli, portoghesi, siriani, libanesi, dai quali ho assorbito tutto, a partire dal cibo. Vengo da un´Argentina senza mucche e senza tango...». Senza tango? «Oh sì, senza tango. Il tango l´ho poi acquisito da grande, ma per vie intellettuali. Non ci sono nato dentro. E neanche la carne, altro grande mito argentino, mi è stata familiare da bambino. Sono nato dentro la mentalità e i costumi dei bottegai italiani e degli immigrati spagnoli. La mia famiglia aveva origini andaluse. E io avevo un destino mediterraneo, tanto è vero che dopo il successo in Sudamerica è arrivato quello in Italia, in Spagna, in Francia. Furono la Bompiani e Umberto Eco ad aprirmi le porte dell´Italia». Ultimamente lei è pubblicato anche in Cina e in Corea. «Mistero. Impossibile capire che cosa colgono, del mio lavoro, laggiù in fondo. Dovrei capire la traduzione, ovviamente non sono in grado, mi limito a prendere atto che mi leggono. Benone. Ma chissà perché...». Lei ha casa a Parigi, Buenos Aires, Milano e Madrid. Ma dovendo scegliere? «Non sarei più capace. Da ognuno di questi posti ho preso molto, e anche se la casa più grande, forse quella vera, è a Baires, vivo molto tempo anche nelle altre tre città. Piuttosto, quello che ultimamente mi impressiona è l´attenuarsi delle differenze: per esempio quando scendo dall´aereo trovo ovunque gli stessi film, la stessa Hollywood. Mi mancano certi film iraniani, orientali, mi manca la varietà culturale del mondo. Per fortuna ci sono Jarmush, Kaurismaki, e anche un po´ di cinema italiano differente... Mi piace Pupi Avati». Diceva prima di non avere sfondato negli Stati Uniti. Non dipenderà anche dallo storico antiamericanismo degli argentini? Non amano i gringos... «Oh, gli argentini sono un mistero completo anche per noi argentini. Antiamericani ma sempre da McDonald´s. L´Argentina è incomprensibile, prenda il peronismo: è un movimento populista di destra, pare che Peron l´abbia concepito nel ’22 mentre stava in Italia, ammirava Mussolini e la Marcia su Roma. Eppure, la sinistra argentina si dilania da sempre su questo equivoco, è piena di rimorso per non avere capito Peron. Ora le cose, in Argentina, vanno leggermente meglio rispetto al terribile crac economico del 2001, ma il debito estero rimane una vera e propria voragine». E sull´Italia? «Ci sono dei sussulti di civiltà che mi lasciano di stucco. Mi sono molto piaciute le primarie, quei quattro milioni di persone andate a votare senza che nessuno lo avesse previsto. Sono contento di avere lavoro e radici anche qui». Lei è di sinistra, o sbaglio? «Cerco di essere coerente. Quando portai le mie prime tavole a Buenos Aires, nel ’54, nessuno le voleva pubblicare perché parlavano di argomenti sociali, e all´epoca era una vera e propria stramberia. La gente paga - mi dicevano - e vuole divertirsi con le battute sulle suocere. Poi si sono accorti che la gente pagava anche per pensare». Michele Serra