Edmondo Berselli, Post italiani, Mondadori, 6 dicembre 2005
Il cinismo domestico dei foglianti (visti da Berselli), ’Il Foglio”. Nominare questo quotidiano segnala implicitamente la maggiore novità del giornalismo italiano degli ultimi anni, riassunta nel peso specifico acquisito da quelle quattro pagine giornaliere che ormai costituiscono la croce e insieme la delizia velenosa di tutto il mondo politico di destra e di sinistra, e la principale fonte di idee, polemiche, civetterie e surrogati ideologici per l’intero settore dell’informazione italiana
Il cinismo domestico dei foglianti (visti da Berselli), ’Il Foglio”. Nominare questo quotidiano segnala implicitamente la maggiore novità del giornalismo italiano degli ultimi anni, riassunta nel peso specifico acquisito da quelle quattro pagine giornaliere che ormai costituiscono la croce e insieme la delizia velenosa di tutto il mondo politico di destra e di sinistra, e la principale fonte di idee, polemiche, civetterie e surrogati ideologici per l’intero settore dell’informazione italiana. è noto che si tratta di poche migliaia di copie ogni giorno, ma tutte «strategiche», come dicono gli esperti, nel senso che finiscono sulle scrivanie giuste, influenzando e condizionando in profondità i pensieri e le parole anche di coloro che dovrebbero fare lo sforzo di pensare in proprio. ’II Foglio” è la massima realizzazione intellettuale e professionale, e di certo la più coerente e rivelatrice, di Giuliano Ferrara, un uomo dall’intelligenza eclettica, sempre pronto a cercarsi avventure. Figlio di una delle migliori famiglie dell’aristocrazia comunista romana, preda di «un’adolescenza panica» nella sfera erotica, giovanetto corpulento e scalmanato all’epoca degli scontri con la polizia a Valle Giulia, spedito da Giancarlo Pajetta a Torino, è stato il capo dell’organizzazione politica del Pci alla Fiat Mirafiori e ha detenuto incarichi di rilievo negli anni dell’aggressione terroristica (e della sfortunata stagione di Enrico Berlinguer ai cancelli della fabbrica torinese, dissolta dalla marcia dei quarantamila di Arisio). Discepolo di Amendola, cioè di un uomo che mescolava strumentalmente la più cocciuta ortodossia ideologica con il più spregiudicato realismo pragmatico della destra comunista, a trent’anni è scappato dal Pci e dal capoluogo piemontese «con le sue quattro carabattole», trovandosi costretto a fare il traduttore a 25.000 lire a cartella per sbarcare il lunario in coppia con un altro fuoriuscito di quegli anni, il polemista torinese Saverio Vertone. Quindi si è lasciato affascinare da Bettino Craxi, dalla scomposta vitalità socialista, e soprattutto dalla possibilità di praticare la polemica e la politica, ormai svincolate dalle austerità e dai rigori del centralismo democratico, come arte «celibe» dell’informazione e del potere, e di conseguenza come continua conflittualità creatrice. Le incarnazioni di Giuliano Ferrara sono dunque innumerevoli: viene chiamato a fare il commentatore televisivo dal socialista Antonio Ghirelli, per proporre pensieri anticomunisti intervallati da pause fra il craxiano e il celentanesco, scrive per il ”Corriere della Sera”, e sotto pseudonimo collabora anche a ”Reporter”, il quotidiano parasocialista che raccoglieva con il patrocinio finanziario di Claudio Martelli talenti venuti da Lotta continua, come Enrico Deaglio e Adriano Sofri. Quindi eccolo innalzato al rango di vedette televisiva, ultimo combattente della trincea dei partiti contro Mani pulite, colosso che si staglia sulle macerie di Tangentopoli; nel 1994 diventa ministro per i Rapporti con il Parlamento nel primo sconclusionato governo Berlusconi, nonché consigliere del capo, il che comporta un impegno politico così estenuante e distruttivo da costargli un arresto cardiaco; poi assume la direzione di ”Panorama” (periodo coronato da una serie di scoop esplosivi come quello sulle malefatte dei militari italiani in Somalia, stupri con i proiettili alla marmellata e torture elettriche) ed è l’antagonista di Antonio Di Pietro nella battaglia elettorale del Mugello, da cui esce battutissimo, seppure pieno di verve inventiva e di canaglierie dialettiche pimpanti. E infine inventa e fonda ”Il Foglio”, con i soldi di Veronica Lario, il sostegno di qualche amico e una quota di finanziamento pubblico (dato che il giornale si autodefinisce ”Organo della convenzione per la giustizia”, una struttura parlamentare trasversale creata da Marcello Pera e da Marco Boato, e sopravvissuta al trasferimento del filosofo lucchese alla presidenza del Senato). Ma se si prescinde dalle caratterizzazioni professionali, Ferrara sembra soprattutto l’espressione - addirittura fisica - di una inventiva costante, che si esplicherebbe presumibilmente in qualsiasi sfera dell’attività umana organizzata, e in politica di una capacità, largamente inedita per la scena nazionale, di rovesciare sadicamente le frittate altrui (nel caso, del centrosinistra); nonché, in ogni occasione che lo meriti, di cantilenare con accenni di ironia le lodi di Berlusconi, o viceversa di criticarlo censurandone con un sogghigno le inadeguatezze istituzionali e di etichetta, per far capire che al Cortigiano non la si fa. Il paradigma fondamentale del ”Foglio” è quello del giornale club, forse più ancora che del giornale partito. Per autodefinizione e per reciproco riconoscimento interno, si tratta infatti di un clan di frondisti, i «foglianti», che raccoglie professionalità giornalistiche fra le più varie e ispirazioni politico-culturali fra le più distanti. Dannunziani, cultori della tradizione contro il moderno e il postmoderno, fascisti, comunisti, evoliani, radicali in quantità, iperliberali quanto basta, americanisti, filoislamici, postbuddisti, ex borderline della lotta armata, altri estremisti di differenziata appartenenza, qualche ultrà neocristiano: in genere figure e personalità convinte che la dimensione sovrana della democrazia liberale consista essenzialmente nella facoltà di innescare la polemica ben più che nel presidio vigile delle regole. Tutto questo serraglio non avrebbe la minima possibilità di coesistere e di agire in forma di giornale se non ci fosse a fare da catalizzatore la personalità dell’autonominatosi Elefantino. Una maschera che ha attraversato i dogmatismi e le eresie della seconda metà del Novecento, forse senza mai crederci ma con la sicura convinzione di interpretarli ogni volta al meglio. Se non fosse che la mentalità politica di Ferrara è quanto di più distante vi sia dall’azionismo o dal sussiego liberale e radicale degli anni Cinquanta, verrebbe la tentazione di sostenere che la sua creatura, ”Il Foglio”, è simile come nessun’altra a quel falansterio di cultura laica che fu ”Il Mondo” di Pannunzio. Va bene che, a differenza di Scalfari, l’Elefantino non scriverebbe mai La sera andavamo in via Veneto, perché i suoi ritrovi sono altri, come la tavola serale di Lino Jannuzzi da Fortunato al Pantheon, con vasche di mozzarelle di bufala e carciofi alla romana. E che uno degli idola che più gli piace smontare dal piedistallo è l’aristocraticheria azionista e il disprezzo di questa per l’Italia schizzata dal sugo delle vongole. Se nel suo celebre libro di memorie laiche il fondatore della ”Repubblica” scrisse che in quel magico club della Roma acculturata e civile «eravamo tutti longilinei» e legatissimi all’obbligo del calzino lungo, Ferrara, antitesi completa del longilineo, nei suoi sforzi di remare comunque controcorrente e di sguazzare felice nell’immondizia ha tentato perfino un elogio disperato del calzino corto; non solo, ha promosso addirittura un attacco suicida contro «i disperati della pochette», infischiandosene con allegria postproletaria che potessero essere identificati con i detentori accertati del gusto e dell’eleganza, per esempio con i divini mondani Montezemolo e Della Valle, così affezionati, loro, al fazzoletto nel taschino. Il carattere di giornale club è assicurato soprattutto dal connettivo del ”Foglio”. Politicista negli editoriali, sempre incline a lanciare avvertimenti agli avversari e consigli agli amici, Ferrara ha costellato le pagine di microappuntamenti quotidiani, rubriche minime, e poi di shorts, tormentini giornalieri che fanno da contrappunto a un gossip continuamente evocato e minuziosamente sorvegliato, e che attraggono il clan con la forza irresistibile dell’ammiccamento ripetuto. Il coro del giornale, o il suo chiacchiericcio di fondo, è intonato sulle inezie globali e dandy del direttore di ”Panorama” Carlo Rossella, sulle trovate sicule e mussoliniane di Pietrangelo Buttafuoco, sul piccolo diario inutile di Pierluigi Diaco, sulla tv registrata con assidua sventatezza da Guia Soncini, sulle recensioni gastronomiche e sulla prosa espressionista di Camillo Langone: tutti imperdibili, perché in ogni riga, in ogni battuta potrebbe condensarsi l’embrione di una polemica futura, di un dibattito a venire. Con una miscela di goliardia e realismo politico, di cinismo domestico e amplissime aperture internazionali: talvolta sembra di assistere a un ibrido fra il Renzo Arbore cazzeggiatore e il vecchio rigore scolastico delle Frattocchie, con sprazzi esibiti di ”Foreign Affairs”. Un’altra riconoscibile cifra del quotidiano consiste, e ci mancherebbe, nell’esplicita valorizzazione del trash, mediante il ricorso a registri linguistici romaneschi o genericamente dialettali, parlati, sarcastici, ricchi di voluto malgarbo; alla lunga con probabili effetti nichilisti di diseducazione o di noia, o perlomeno di assuefazione a questa forma di giornalismo cabaret, ma nel frattempo con un coefficiente di divertimento condiviso e di complicità diffuse per il disincanto sparso a piene mani, la faziosità esibita e negata, e le strumentalizzazioni volentieri non dissimulate. Grazie a questa chiave stilistica, ”Il Foglio” è riuscito a circondarsi dell’aura del partito degli intelligenti, suscitando ovunque ammirazione e invidia, in parte per il talento del suo regista e in parte per aver vinto collettivamente la scommessa di puntare sul complesso di inferiorità di chi contempla un po’ ansioso dal di fuori. Insomma, lentamente ma non troppo, Giuliano Ferrara è diventato un capo partito, e anzi qualcosa di più: la sua incidenza politica è superiore a quella del segretario di qualche partitino residuo; e, nella formazione delle opinioni, il peso culturale del suo giornale è certamente più avvertibile di quello di macchine editoriali di dimensioni assai maggiori. Ferrara può permettersi di anticipare l’avvento al governo di D’Alema, prevedendone le mosse con l’istinto di chi ha succhiato il latte della politica dalla stessa mammella; oppure, variando il genere prescelto, di lanciare, con risultati commerciali e di costume abbastanza imprevedibili, uno scrittore non proprio stranoto in Italia come Mordecai Richler, presentandolo come il campione della scorrettezza politica; di organizzare dibattiti sul tema storico-letterario «vale la pena di morire per Cesare Previti»; o ancora di allestire trame maligne ai danni di intoccabili come Enzo Biagi, «il re della serie B», «l’uomo che incontrò o citò per l’ennesima volta Eleanor Roosevelt», e di Giorgio Bocca, «l’indignato speciale», riportandone ripetutamente e con gran gusto velenoso la prosa antisemita giovanile; e anche di tirare in continuazione per la manica Eugenio Scalfari, sfottendolo per le sue manie filosofiche e letterarie, i «dialoghi con Io», le «rughe sulla fronte», richiamandolo con petulanza a riconoscere la propria faziosità mondana e a declinare senza veli di ipocrisia il proprio presente e passato di distorsioni fortemente volute in quanto croupier della politica, di cinismi e giochi d’azzardo giornalistici e di potere, praticati con una nonchalance da frequentatore professionale di tavoli di roulette, insomma con una freddezza esibita e un rigore apparente pari solo all’intenzione manipolatoria. Ma dove Ferrara diveggia al suo zenit è nella continua orchestrazione dell’accompagnamento di Silvio Berlusconi, ora sostenuto in quanto outsider originale, tutto spontaneità umana e politica purissima, ora criticato o beffeggiato per la stessa ragione, e per l’ossequio noioso dei famigli. Va da sé, che quando qualcuno della servitù forzista lancia futili minacce verso programmi d’opposizione come Blob, non costa nulla incaricare l’allegro sicario del giornale, il dadaista Pietrangelo Buttafuoco, di aprire il fuoco, facendo esplodere i mortaretti a grappoli: «Non rompa il cazzo, Cavaliere. Non ce la venga a raccontare... Perché ci deve cavaliereggiare, chi glielo fa fare? Forse per tenere in piedi la baracca di quei mentecatti che le stanno addosso?», e che sarebbero tutti quelli che gli riempiono la scrivania con gli appuntini tipo «’Il Tg1 di Mimun ha fatto trenta secondi in meno”; ”Mentana non ha richiamato” ... ”Bruno Vespa non mi risponde al telefono”... ”Perché Mara Venier non fa ballare la Teresa?”». Conclusione, per ribadire la tesi: «Cavaliere, dunque, non rompa il cazzo». Ciò che conta è lo stile. Infatti il Cavaliere in persona viene sbertucciato dallo stesso Ferrara per la gag in versione Monty Python dei lancieri di Montebello schierati per accogliere Al Waleed, il principe saudita socio e sodale; però infine l’Elefantino lo celebra in quanto «icona pop», come un soggetto serigrafato da Andy Warhol, per l’ossessione odontoiatrica, che gli fece apprezzare di primo acchito la perfezione orale di Melba Ruffo («Che cosa le ha detto Berlusconi?» «Ha molto lodato i miei denti»), per la cura maniacale dell’abbigliamento e dell’immagine esteriore, dei capelli, del cerone: eppure, chiamata a un forum del ”Foglio” proprio sul tema dell’iconologia berlusconiana, Maria Laura Rodotà sostiene con competenza tecnica e salda sfrontatezza femminile che il premier sbaglia il fondotinta, dato che a una certa età per resistere occorre schiarire, schiarire, schiarire. Chi non conoscesse l’entità individuale di Berlusconi e la sua effettiva esistenza, attraverso la lettura regolare del ”Foglio” e l’ascolto dei pronunciamenti registrati in video da Arcore, si convincerebbe rapidamente che, all’impalpabile maniera calviniana, dentro l’armatura del doppiopetto di Caraceni il Cavaliere non esiste, se non in quanto creatura ariostesca, delirante e ispiratissima, del suo scrittore e ideologo Giuliano Ferrara. [...] Il clan degli screanzati [...] La trasversalità del ”Foglio” è tale che i suoi lettori iperliberali non rimangono troppo turbati se Pietrangelo Buttafuoco apre una serie di articoli intitolata Obiezioni alla democrazia e ci infila dentro un soffietto empatico al neopagano e runico Franco Freda. Il clan si autoriconosce e si autolegittima proprio in quanto sa stabilire anche la portata delle proprie trasgressioni. La tecnica del ”Foglio” è infallibile perché, quando vuole, Ferrara si permette strampalerie autentiche per legittimare gli sbreghi all’etichetta realizzati periodicamente dal suo patron e censurati con asprezza dagli oppositori, mentre in altre occasioni si appella alla più austera sobrietà istituzionale, quando è lui a individuare un deficit di caratura governativa nel Principale, dando poi al momento buono dello screanzato al criticonzolo di turno, che magari non ha altra colpa se non quella di sbagliare l’ingresso, la battuta, il clima, o il climax. In realtà, screanzato è ”Il Foglio”, deliberatamente, furiosamente, voluttuosamente screanzato, e i membri del club godono nell’assaporare almeno il sentore di questa maleducazione creativa, che si propone come scelta stilistica definitiva, come sberleffo e dileggio esteticamente probante. Qualcosa di futurista, di dadaista, di vitalistico, talora di così schiettamente dialettale nella maniera, e strapaesano nella forma, che ci si chiede che cosa c’entri certa gente trucidona con le pattuglie foglianti. E se l’intellettualità sia una scusante o un’aggravante. Sicché Isnenghi, sempre su ”Problemi dell’informazione”, affonda il coltello: «Poi ci sono gli opinionisti di più forte personalità e gli opinionisti ”foglia di fico”. Non è detto che queste due modalità siano agli estremi e non sovrapponibili». Sta parlando di qualcuno, l’insigne storico della Grande guerra? E come no: «Probabile che un Adriano Sofri sia convinto di appartenere alla prima specie, cioè di essere connotante e non connotato, quando scrive sul ”Foglio”; mentre è lampante per molti che lo leggono che la sua presenza lo rende volere o no testimonial ed ostaggio di Ferrara e del discorso di Berlusconi sulla o contro gli apparati di giustizia». Sfiorare Adriano Sofri, non importa se connotato o connotante, implica il rischio di attirarsi repliche puntigliose o brucianti, o tutt’e due. Eppure, quando Berlusconi scrive a Giuliano Ferrara chiedendo o proponendo la concessione della grazia proprio a Sofri, oppure quando, dopo la condanna milanese di Previti, reinterpreta gli ultimi dieci anni di storia italiana secondo uno schema politico-intellettuale, nonché lessicale, prettamente «elefantiaco», proponendosi come figura ponte tra l’Italia dell’alternanza realizzata e la Prima Repubblica sgarrettata da Mani pulite, e scatenando un autentico varietà polemico, tutti guardano attoniti a come sono stati platealmente mischiati i ruoli e i registri fra il consigliere e il principe, fra il re e il giullare, fra il capocomico e il ventriloquo, in un trionfo di dissimulazioni e cinismi reciproci, dove non si sa chi manipola chi; ci troviamo di fronte a un caso magnifico di felicità né pubblica né privata ma totalmente postmoderna. Edmondo Berselli (Post italiani, Mondadori)