La Stampa 04/12/2005, pag.25 Fiamma Arditi, 4 dicembre 2005
Il successo di Sarah Bernhardt: era l’ufficio stampa di se stessa. New York. Oscar Wilde scrisse Salomé pensando a lei, Marcel Proust ne fece un personaggio della sua Recherche e Anatole France la definì dea del sesso, capace di mettere nei suoi ruoli «corpo, anima, grazia e tutta se stessa»
Il successo di Sarah Bernhardt: era l’ufficio stampa di se stessa. New York. Oscar Wilde scrisse Salomé pensando a lei, Marcel Proust ne fece un personaggio della sua Recherche e Anatole France la definì dea del sesso, capace di mettere nei suoi ruoli «corpo, anima, grazia e tutta se stessa». Molte stelle di Hollywood, da Judy Garland a Barbara Streisand, a Julie Andrews o Nicole Kidman, non si sono stancate di renderle omaggio. Nella storia del suo tempo Sarah Bernhardt (1844-1923) è entrata come la Diva con la D maiuscola, un mito che cominciò a creare da adolescente. A vent’anni, allieva sconosciuta della Comédie Française, si fece immortalare da Felix Nadar in atteggiamento languido da primadonna. Da allora non smise mai di spargere in giro foto, posters, busti, ritratti dedicati a lei dagli amici artisti, tra cui Louise Abbema, una delle sue amanti. «Fu la migliore promotrice di se stessa», osserva Carol Ockman, professore di Storia dell’arte al Williams College, in Massachussetts, che dopo dieci anni di ricerche ha curato la mostra «Sarah Bernhardt» al Jewish Museum, fino al 2 aprile. Il personaggio era eccentrico. Citava Maometto, Giovanna d’Arco, Shakespeare, Napoleone. Era patriottica, libertina ed ebrea. Le piaceva provocare, ingrandire, stupire. Ogni scusa era buona. Dopo l’amputazione di una gamba, per essersi tuffata da un balcone, sul palcoscenico di Tosca, nel 1915, a 75 anni, invece di ritirarsi a vita privata, si presentò al fronte, a Verdun, per dare solidarietà ai soldati francesi con gli arti amputati. Questa era Sarah Bernhardt: il teatro nella vita e la vita nel teatro. Femminile, sinuosa, sensuale fino all’esasperazione, sulle scene preferiva i ruoli maschili. In un solo anno, il 1900, ne interpretò tre: Lorenzaccio di Alfred de Musset, Amleto di Shakespeare e il duca di Reichstadt in "L’Aiglon" di Edmond Rostand. Le parti riservate alle donne, fatta eccezione per la Fedra di Racine, le sembravano troppo banali. Di medio, tranne la statura, non aveva nulla. La mostra lo conferma, lo racconta con luci soffuse, la voce di Marilyn Monroe, che da uno schermo gigante ripete ossessivamente il suo nome, fotografie, filmati, corsetti, cappe, zibellini, tiare, gioielli, compresi quelli di Cleopatra. Influì sulla recitazione del suo tempo? «Non tanto - risponde senza esitare Carol Ockman -, però aveva un modo di utilizzare il corpo, arcuarlo, impostarlo, si divertiva a travestirsi. E diventò la prima attrice postmoderna». Negli anni in cui era al culmine della carriera nacque il cinema e lei non esitò a buttarsi davanti alle rudimentali macchine da presa pur di farsi ammirare dal maggior numero di spettatori possibile. Fiamma Arditi