Corriere della Sera 04/12/2005, pag.37 Ermanno Paccagnini, 4 dicembre 2005
Non basta il bello, ci vuole la malattia. La decadenza inventata dagli Scapigliati. Corriere della Sera 04/12/2005
Non basta il bello, ci vuole la malattia. La decadenza inventata dagli Scapigliati. Corriere della Sera 04/12/2005. «Malati!»: sarà un caso, ma è questa la definizione accusatoria con cui sono costantemente additati coloro che cercano il nuovo o che situazioni politico-sociali portano a optare per espressività ripiegate su se stesse. Era accaduto con gli anni dopo il 1830, quando, in seguito alle sanguinose conclusioni dei moti carbonari, tutta una nuova generazione poetica si era trovata a identificare quale oggetto di poesia non più la patria o l’impegno, ma il proprio Io. Ed ecco allora il virile e risorgimentale Tenca parlare di «capricci individuali» di «giovani che anneghittiscono nella sfiducia», non cogliendo che in quel ricorrere a forme metriche spigliate come a una maschera o a un’ancora di salvezza si celava una certa inquietudine. Trent’anni dopo, con la sospirata Unità, tocca al Prati di Armando (1865-68), in cui si canta il tedio, figlio dell’insoddisfazione e dell’incapacità di cogliere un senso nelle cose e nelle diverse esperienze che si attraversano, frutto anche delle disillusioni intervenute col tradimento e la sepoltura degli ideali indipendentisti da parte del nuovo Stato unitario, a ritrovarsi definito da De Sanctis «ancor più profondamente malato di Armando: perché Armando si sente malato e il Prati si crede sano». Ed è un ritornello destinato a durare a lungo, almeno ogni volta che a pronunciare giudizi è l’esponente d’un pensiero forte, sia esso risorgimentale, filosofico, politico o ideologico: come nel caso di impostazioni critiche marxiste, che vedono Petronio definire «putrefazione» tutta questa lirica riversata sull’Io; che è poi una variante di quanto si leggeva degli scrittori lirico- decadenti negli editoriali di Società nel 1945; o dell’Io sbandierato dopo i furori sessantottini nei ripiegamenti epistolari e narrativi nel 1977. Eppure è proprio in quell’Io, che subito dopo il 1830 si presenta tanto lagnoso e languoroso da cadere in una vera ipertrofia della lagrima e della sensibilità, d’un sentimentalismo vago e indeterminato, che s’annidano i germi d’una inquietudine destinata a fermentare gradualmente, di pari passo con la coscienza della situazione, dapprima nelle varie tendenze dell’arcipelago scapigliato e poi nelle poetiche del Decadentismo. Un Io che con gli Scapigliati sperimenta con pienezza esistenziale la coscienza della propria dissociazione: vissuta come dolorosamente tale in un Praga o un Tarchetti; tesa invece alla ricomposizione degli opposti nel più acculturato Boito, il cui «dualismo» poggia sulla tradizione gnostica della Y pitagorica e della «congiunzione degli opposti». Ma lì la malattia, non più solo clinica ma anche metaforicamente inclinata ad altro (come nella Fosca di Tarchetti), è nell’anima e sono gli Scapigliati stessi a dichiararlo. E a cercare di uscirne con tematiche nuove che «alle regolari leggi del Bello» prediligono «i Quasimodi» e l’«orrendo»; ma anche con modalità stilistiche nuove, che destrutturano la forma romanzo (Praga, Dossi), la forma racconto (con «schizzi a penna», «acquerelli», «figurine», «gocce d’inchiostro») e puntano su un’espressività nuova, bassa, da parlato e dialogato (il Praga poeta) o espressionista (Dossi) o baroccheggiante (Boito). Che son poi le intuizioni ponte che consentono il passaggio dal romanticismo al decadentismo (ed è significativo che il 1892 veda apparire sia Decadenza dello scapigliato Gualdo col suo inetto protagonista Paolo Renaldi sia Una vita di Svevo); così come l’affacciarsi degli Scapigliati democratici, col loro utilizzo politico del romanzo in veste di denuncia, recupera sì la forma romanzo tradizionale, ma puntando a quel realismo ben noto anche al Verga «milanese». E Pascoli e d’Annunzio e altri minori son lì, pronti a raccogliere quelle eredità. Ma con un Io fattosi ancor più complesso, impalpabile e sfuggente, luogo d’un «torbido universo» in cui il poeta s’«affisa» per coglierlo e chiuderlo «in lucida parola e dolce verso» (Pascoli; la variante ungarettiana sarà «il porto sepolto» col poeta «che torna alla luce con i suoi canti / e li disperde»). Una nuova realtà che gli spiriti più avvertiti della generazione precedente percepiscono e colgono pure, anche magari sbattendoci contro il naso (il panismo dell’ultimo Prati; il Carducci di Nevicata; l’Oriani di Vortice): ma con l’ostacolo d’una formazione culturale che non consente loro d’attraversare il traguardo. Un Nuovo – quello espresso da Pascoli, d’Annunzio, Fogazzaro, ma pure Verlaine o Rimbaud – che però, ancora una volta, vien letto come stato di malattia e di rinuncia; come (ed è Croce che parla) «abbassamento verso la carne, l’animalità e la libidine». Ove invece quel Nuovo nasceva positivamente proprio da ciò che veniva additato negativamente: ossia da un’anima giudicata «frammentaria, squilibrata, disgregata, disumana», producente «mere e materialissime oscenità tutt’insieme immorali e stupide e anzi immorali perché stupide». Insomma: uomini malati produttori di una letteratura malata. E però è sempre la letteratura – quando è vera, «sana» letteratura – a vendicarsi dei suoi giudici e fors’anche dei suoi stessi autori. Nei modi più strani, a volte. Penso ad esempio a Pinocchio (1881-83), che nasce assai meno pedagogico di quanto si dica, visto che è come lo conosciamo solo per costrizione di editore e lettori. Perché certamente ad altro pensava Collodi quando concludeva la sua Storia di un burattino al capitolo XV: con un Pinocchio che muore impiccato con le medesime movenze del Golgota evangelico (vento impetuoso, tre ore; invocazione al babbo), a specchio con analoga sua nascita cristologica; e comunque vendicandosi, dato che il prosieguo, Le avventure di Pinocchio, è ricco come non mai di corse e immagini di morte tentata o effettuata. E che dire di quel libro insieme educativo e diseducativo coi tanti suoi mutilatini fisici, mentali, sociali e familiari che è Cuore di De Amicis (1886), «dai molti tratti decisamente immorali nonostante le baldanzose intenzioni moralistiche» e dal «contenuto così chiaramente reazionario» (così Giulio Cattaneo)? Perché poi Cuore, presto tradotto nella Russia zarista nel 1889 e 1892, si ritrova una terza versione nel 1898 intitolata Compagni di scuola. Dal diario d’uno scolaro di città, con tre «racconti mensili» sostituiti da tre altri, tra cui uno dell’italiana Cordelia. Una versione che va in molte mani e quanto mai speciali. Mani operaie. E al fine d’una educazione socialista. Il fatto è che la terza traduzione portava il nome della «rivoluzionaria di professione» Anna Ilinichna Ulianova. E a chiedergliene continuamente copie da distribuire in Siberia agli operai era suo fratello minore. Il nome? Lenin, ovviamente. Ermanno Paccagnini