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 2003  agosto 24 Domenica calendario

Trent’anni fa i napoletani tornarono dalle vacanze e trovarono il colera, Il Mattino, 22/08/2003 La feroce estate del 1973 ebbe il suo prologo nelle Quattro Giornate del Pane, a mezzo luglio

Trent’anni fa i napoletani tornarono dalle vacanze e trovarono il colera, Il Mattino, 22/08/2003 La feroce estate del 1973 ebbe il suo prologo nelle Quattro Giornate del Pane, a mezzo luglio. La farina rincarò di duemila lire al quintale e i panificatori sprangarono i forni per protesta. Uno sfilatino alla borsa nera arrivò a 7-800 lire, una fetta magra a 300 lire nel conto di certi ristoranti. Alle 23 del 17 luglio furono assaltate le prime panetterie, ai Vergini e sul Vomero borghese. Il 18 bruciarono le barricate a calata Capodichino e così il 19 e il 20. Volarono cubetti vulcanici di selciato e qualche molotov, arsero due bus, altri quattro bus furono ammaccati a martellate. Le donne in prima linea issavano cartelli con su scritte quattro lettere, PANE. Il 21 finalmente da Roma arrivò di che sfamarsi, i forni riaprirono, la rabbia sfumò. I comunisti dissero che i neofascisti avevano soffiato sul fuoco, i democristiani accusarono destra e sinistra. Pochi colsero nella guerriglia del pane l’esasperazione ruvida e senza padroni per una città ancora spezzata in due perfino dalla linea del sole - vicoli bui e quartieri luminosi -, per il divario sempre più crudele fra il resto d’Italia e il Sud in apparenza foraggiato con opere pubbliche (comunque mai generatrici di sviluppo) e di fatto saccheggiato attraverso una catena di scandali e di abusi. Pochi si accorsero, lo scrisse Antonio Ghirelli, che «nei vicoli non c’erano più lazzari monarchici ma lavoratori supersfruttati» o disoccupati, stremati da un’inflazione solo ad agosto pari allo 0,5 per cento. I primati di Napoli oramai erano le più alte percentuali nazionali di tifo, epatite virale, mortalità infantile. Le fogne, più o meno quelle del 1915, vomitavano gli scoli della foresta di cemento laurina, rendendo una cloaca il Golfo delle canzoni. Nei quartieri popolari la munnezza cresceva come erba marcia addossata ai muri. L’arretratezza era ben più percettibile della falsa modernizzazione. Appena un anno prima, il 22 maggio 1972, un tribunale aveva emesso la sentenza sul «falso più clamoroso della storia giudiziaria italiana». Ai tempi del Comandante, sul piano regolatore del 1939 macchie di colore bruno furono sovrapposte al verde chiaro e d’un tratto le zone agricole svanirono e divennero palazzoni. Fu la fine del paesaggio, del turismo, dell’armonia. I giudici non snidarono tuttavia «gli autori materiali e i mandanti» dello scempio di una città, i beneficiari d’improvvise ricchezze più vergognose delle miserie. Quelle mani, quei sistemi clientelari avevano avvelenato Napoli. Eppure, in questo delirio di miasmi, il 20 agosto 1973 nessuno s’insospettì per i fatali dolori al ventre della ballerina inglese Linda Heyckeey, ricoverata ai Pellegrini. Banale enterocolite, dissero. E nessuno, il 22 agosto, scavò nelle cause della morte in un letto di diarrea, a Bacoli, della napoletana Adele Dolce sposa Loffredo. Nella cintura sotto il vulcano l’epidemia covava da tempo. All’ospedale Maresca di Torre del Greco il 26 agosto morì Rosa Formisano di 70 anni e il giorno dopo Maria Grazia Cozzolino di 78 anni. Il primario di quell’ospedale, Antonio Brancaccio, già dal 23 agosto aveva chiesto il trasferimento al Cotugno di pazienti affetti da «sindrome coleriforme», così annotò sulle cartelle mediche. Solo il 27, dopo molte insistenze, fu accontentato. L’isolamento del Maresca fu scandalosamente tardivo. Detta in breve, fu persa almeno una settimana e il vibrione ebbe il tempo di ramificarsi nelle viscere della città e della provincia. I giornali non si accorsero di quanto accadeva, troppo occupati a descrivere gli ingorghi sulle autostrade per il rientro dei vacanzieri. Neppure dopo i primi decessi scattò l’allarme salvifico. «Casi mortali di gastroenterite registrati a Torre del Greco» fu la prudente spalla a quattro colonne in cronaca del Mattino, il 28 agosto. Attendendo il risultato degli esami batteriologici i sanitari rassicuravano. «L’unica diagnosi valida, al momento, è gastroenterite», disse il vicedirettore del Cotugno, Mario Soscia. «Ogni allarme è assolutamente ingiustificato» aggiunsero altri luminari davanti ai primi quattro cadaveri. Consigli: mani lavate, cibi cotti, latte pastorizzato, acqua imbottigliata. Ciò nonostante attorno al Cotugno scattò un cordone di sicurezza e gli infermieri vennero isolati. Alle 21.30 di quello stesso giorno il giornale radio diffuse un comunicato del ministero della Sanità che usava finalmente la parola colera, fino ad allora taciuta: «Dal 23 agosto nella zona di Ercolano-Torre del Greco si sono manifestati 14 casi di gastroenterite acuta. Le prime indagini hanno fatto sorgere il sospetto che si tratti di infezione da vibrione colerico. Tutto fa ritenere il focolaio circoscritto ai casi sopradetti». Più tardi il ministro della Sanità, Gui, giurò di aver appreso la notizia dalla radio. Lo scollamento tra i poteri a Roma, e tra Roma e gli enti locali napoletani, fu drammatico. Nascosta per sette giorni, infine l’epidemia di colera finì in prima pagina. Il 29 agosto Il Mattino contò sette morti, cinque a Torre, due a Napoli. I ricoveri al Cotugno, più di cinquanta. Il male era penetrato profondamente nella città, prima vittima Pardo Sica, abitante a monte dei Quartieri. La parola d’ordine fu «serenità». «Ieri nessun caso letale» fu annunciato il 30 agosto, mentre si registravano tumulti, con blocchi stradali, roghi di rifiuti, assalti agli automezzi disinfettanti della Zucchet. A Ercolano i carabinieri lanciarono lacrimogeni per arginare la folla esasperata dall’esaurimento di sulfamidici e antibiotici. Al Cotugno continuavano ad arrivare malati da tutta la provincia, con i primi bambini. I professoroni stesero una mappa cercando le rotte del contagio: «Non c’è filo logico» conclusero. Gli infermieri non erano stati ancora vaccinati, in cambio dell’insicurezza ebbero un’indennità di 8.000 lire. Le dosi di vaccino erano appena 10.000, ne promisero un milione. I morti giacquero in bare di zinco saldate a fuoco e spolverate di creolina. Liquido antisettico fu scaricato negli acquedotti. I limoni andarono a ruba. A Napoli e Ercolano fu vietata la vendita dei frutti di mare. Il colpevole da additare al pubblico ludibrio fu la cozza. Non l’inquinamento frutto della corruzione, non il disastro sociale e il degrado: no, la cozza. Mitile ignoto, dissero gli umoristi. Il Mattino, sabato 23 agosto Il vibrione fu definito del ceppo El Tor-O-gawa e l’opposizione giocò su quel gawa alludendo al potente don Antonio democristiano. «La situazione è sotto controllo» restò la parola d’ordine delle autorità mentre il Cotugno si riempiva. Poliziotti e carabinieri rastrellarono quel po’ di vaccino esistente per metterlo in distribuzione. Sarà stato un caso, ma i primi posti di vaccinazione spuntarono nei rioni in cui più furibonda era la protesta. Il vaccino agisce al sesto giorno, nell’attesa fu suggerito l’uso di acqua e sapone, aceto, succo di limone, canfora sul petto. In certe zone dai rubinetti usciva acqua nera. L’immondizia fu spazzata nei quartieri-bene ma nei vicoli restò in cumuli nereggianti di mosche, rimossi solo dove la popolazione s’ingrifò. Si videro lunghe file davanti alla farmacie. A Napoli e provincia i municipi furono assediati da gente impaurita. La Raitivvù, dalla sua fondazione sensibile al potere, puntò le telecamere sui settori quieti delle code. Esercizio inutile, giacché gli inviati commossi e sdegnati della carta stampata scesero a frotte e registrarono i consunti luoghi comuni della «tumultuosa scena napoletana», un teatro pure quando si muore. Però dopo qualche giorno si ricredettero e allora descrissero meraviglie di sopportazione. «Sembra di essere a Londra in tempo di guerra» scrisse un cronista nordico mai tenero con il Sud, quasi un leghista della prima ora. «Napoli eroica» fu il titolo di un articolo di fondo di Giacomo Ghirardo sul Mattino. In verità la Napoli del colera non fu né questo né quello. Allenata ai guai, la vecchia capitale espose la secolare e misconosciuta dignità accanto a sussulti di rabbia perché aveva scoperto che la protesta serviva a ottenere qualcosa. Si spiegano così gli scioperi nelle officine ferroviarie di Pietrarsa e di Santa Maria La Bruna, alla Sip e alla Mobil, alle Poste e alla Vesuviana, in alcune fabbriche. Si spiega così la mobilitazione contro i borsari neri che vendevano creolina, lisoformio, medicine, limoni e perfino l’aglio a prezzi di generi di lusso. A Portici costrinsero il sindaco a vedere il lagno in cui, tra i liquami, galleggiava la carcassa di un cavallo. Al rione Cavalleggeri Aosta fecero barricate finché non arrivarono i camion della Nettezza Urbana. Nella notte del 31 agosto morì al Cotugno un uomo di Poggioreale, l’ottavo della serie. Seguì il nono. I ricoverati erano saliti a 191, 32 certamente positivi. Finalmente partì la vaccinazione di massa, però una volta mancava il siero e un’altra le siringhe. Entrò in azione la macchina americana: al Palasport gli infermieri della Nato azionarono sette pistole in grado di sparare nelle braccia 60-80 punture al minuto. In una cornice di prevalente solidarietà non mancarono la psicosi dell’untore, gli episodi di ferocia. A Portici tentarono di incendiare un accampamento di zingari, furono bloccati. Si ebbe il buon gusto di bloccare il divertimento. Il Napoli dei calciatori restò fermo per due domeniche, Piedigrotta e il Festival della canzone rinviati a tempi migliori. «L’infezione regredisce» fece sapere il comitato sanitario appositamente costituito. Intanto il primo settembre i ricoveri al Cotugno assommavano a 307, forse anche perché prudenti medici prescrivevano il ricovero dopo aver ascoltato i sintomi per telefono. Un terzo delle analisi scoprivano il vibrione. Il 2 settembre i vaccinati erano 800mila, c’era stato un netto recupero di efficienza. Sui giornali riapparvero foto di donne sorridenti messe in posa, in attesa del loro turno. Al Pallonetto di Santa Lucia, mai era avvenuto prima, applaudirono le guardie di scorta ai tecnici della disinfestazione. «Chi sporca sarà punito» dispose con ordinanza il sindaco di Napoli, Gerardo De Michele, medico. S’intrecciarono solidarietà e propaganda politica, limoni gratis nelle chiese e volantini di denuncia nei vicoli. La Dc napoletana accusò «il Pci e le forze sovversive che lo affiancano» di strumentalizzare il colera. Il rimpallo di responsabilità Napoli-Roma divenne polemica furiosa all’interno dello stesso partito di maggioranza, la Dc. Da Napoli - o chi sa da dove - il vibrione scese al Sud, fece otto morti a Bari, uno a Foggia, uno a Cagliari, molti contagiati a Brindisi e a Taranto. Risalendo dalla fascia casertana toccò pure Roma, dove lo spavento fu esagerato: soltanto quattro casi accertati su 400 sospetti. L’irradiarsi dell’epidemia a Mezzogiorno accentuò la separazione con il resto del Paese, accrebbe i pregiudizi del nord. Il 4 settembre morì il decimo, il 5 l’undicesimo, a smentire che tutto procedesse verso orizzonti sereni. Ricoverati: 440. Quasi in risposta alla rinnovata angoscia fu dichiarata guerra senza quartiere alle cozze, da additare come uniche assassine. L’ordine di distruggere i vivai e di vietare il commercio dei molluschi partì da Roma, firmato dal ministro Pieraccini. Non potendo attaccare subito le montagne di rifiuti e le zoccole grosse, non potendo dare acqua e posti letto d’ospedale a tutti, risanare il mare, spurgare le fogne, cancellare i lagni fetosi e le ingiustizie, l’attacco si concentrò sui frutti di mare. Be’, le cozze certo non erano portatori di salute. Ciascuna di quelle coltivate sul lungomare conteneva 600 colibacilli ma il dato delle analisi, il 2 giugno, non aveva scoraggiato il medico provinciale Vincenzo Morante che diede licenza a due nuove cooperative di coltivatori di mitili a Santa Lucia. Ciò nonostante le proporzioni dell’assalto, scattato all’alba del 6 settembre, furono sorprendenti. Sedici mezzi navali e 520 uomini, sorvegliati da aerei, smantellarono i campi di mitili. Fu dato gran rilievo alla scoperta di un cimitero di cozze putrefatte. I frutti di mare furono sepolti sui fondali, un chilometro al largo di Capri. A Santa Lucia urlarono che la colpa era delle fogne, non delle cozze. I bambini platealmente succhiarono cozze per dimostrare la loro innocenza. I pescatori entrarono in rivolta. La campale giornata del 6 settembre si concluse con l’annuncio di altri quattro morti tra i 420 ricoverati del Cotugno. Mica tutti avevano mangiato cozze? Il Mattino, 24/08/2003 Nella tarda mattinata del 7 settembre il capo dello Stato Giovanni Leone visitò il Cotugno. Gli fecero infilare il camice asettico, calzare lo zuccotto bianco e le pantofole sterili. Nonostante il corredo di sicurezza sentì il bisogno dello scongiuro con l’indice e il mignolo ben tesi. Disse: «Napoli presenta ancora una volta al Paese il quadro mortificante delle sue piaghe e dei suoi problemi». Leone entrava nell’ospedale e in corsia un’anziana tarantina, Lucia Matrone, tirava l’ultimo respiro. I parenti seppero del suo decesso perché davanti ai cancelli il nome di Lucia non figurava nel bollettino aggiornato delle analisi. Magari a casa poi trovarono il fatale telegramma, nell’ospedale assediato la morte fu un affare di burocrazia. I ricoverati erano diventati 532, 32 al di là della massima capienza. A ingrossare il numero al tramonto arrivarono un venditore di cozze di San Giorgio a Cremano di nome Noviello, la moglie e sette figli, tutti con sintomi evidenti, tutti da poco vaccinati. Restarono a lungo a gemere in sala d’attesa perché i ligi amministratori dell’ospedale non intendevano gonfiare le liste. Trovarono un letto all’una di notte. All’appello familiare mancava la più piccola, Francesca, di diciotto mesi. Nessuno l’aveva assistita per tempo, l’ambulanza tardava, così era rimasta a casa: stecchita nel suo giaciglio, sola sola. Tutti avevano paura di toccarla. La casa di Francesca era in Villa Pignatelli al largo Arso, un gioiello del Settecento ridotto a un ammasso di pietre purulente in cui una trentina di famiglie stentava la vita. Povere masserizie punteggiavano gli appartamenti in cui magari resistevano affreschi deliziosi; i balconi panciuti si affacciavano su colline di sporcizia; dov’erano rigogliosi giardini avevano costruito case. Una metafora del degrado. La piccola Francesca Noviello fu uccisa dall’ignoranza - era l’unica non vaccinata: «A piccerella sta bianca e rossa» decisero - e dalla lentezza dei soccorsi. Quando il tam tam del cortile diffuse la notizia della sua fine solitaria, i coinquilini non le portarono preghiere: si precipitarono in municipio per reclamare l’immediata disinfestazione del palazzo. Finalmente, con precauzioni infinite, Francesca venne portata nella sala mortuaria del cimitero comunale, nella solita bara di zinco, senza un fiore, senza un parente che la piangesse. Fu difficile anche andare sotto terra, al tempo del colera. Il sindaco di San Giorgio domandò istruzioni per seppellire Francesca, incerto sull’obbligo dell’autopsia. Chiamò il medico provinciale, gli fu detto di rivolgersi alla Procura della Repubblica. Chiamò la Procura, gli fu detto di chiedere alla Prefettura. Chiamò la Prefettura, gli fu detto che l’ultima parola spettava al medico provinciale e il cerchio si chiuse. Francesca restava lì, nella bara zincata. Villa Pignatelli si svuotò, rimasero solo cinque famiglie. I resistenti andarono in panetteria e furono scacciati come appestati; lo stesso avvenne in altri negozi. Il 9 settembre l’anziana Maria Tarallo incespicò sul portone di via Botteghelle a San Giorgio, il fratello Giovanni tentò di sorreggerla e a sua volta barcollò. Si levò un urlo: «Tengono il colera». Le donne del vicolo tentarono di dar fuoco alla loro casa, furono fermate giusto in tempo. In quello stesso giorno la bara di Francesca fu estratta dall’obitorio del camposanto, erano le 10.30 del mattino sotto un sole martello. L ’operazione fu affidata ai saldatori, i becchini muniti di mascherine accettarono solo di posarla giù. Un prete cadente munito dei paramenti viola e di una maschera antigas percorse il viale salmodiando preghiere, fino alla fossa. Benedisse e andò via frettoloso. La bara fu calata. Un paio di palate di terra già l’avevano ricoperta quando il custode urlò da lontano: «Fermatevi, c’è il sindaco al telefono». Era giunto l’ordine dell’autopsia. L’involucro di zinco riaffiorò e fu portato al Cardarelli. L’ultimo esame accertò quanto si sapeva: Francesca Noviello, diciotto mesi, era stata fulminata dal colera. L’8 settembre altri due morti tra i ricoverati, oramai 562 e 586 il giorno dopo. Proseguirono i rastrellamenti delle cozze, il mare della vita diventato nemico; non fermò le operazioni la notizia, il 10 settembre, che fra i ricoverati 53 erano stati vaccinati e solo 15 avevano mangiato cozze. Fosse venuto da lì, il colera avrebbe fatto una carneficina. Il questore Zamparelli dichiarò guerra pure ai venditori ambulanti di qualsiasi genere alimentare. Fu chiuso il mercatino delle scarpe a corso Malta: l’ordine contro l’infezione. Pochi compravano il pesce, le vendite erano calate del 70 per cento. Nel tentativo di dimostrare la bontà di spigole, orate e alici, i pescatori ne distribuirono gratis 25 quintali. A Santa Lucia fecero blocchi stradali. Pure a Cavalleggeri, ma per invocare il risanamento del mercatino rionale incompiuto, diventato discarica e pubblica latrina. Altri falò di materassi e copertoni affumicarono Barra fino all’arrivo dei ripulitori; a Barra fu lanciato anche lo sciopero dell’affitto. Un cittadino espose al balcone una bandiera gialla, il segno della quarantena. A togliere spazio sui giornali all’epidemia di Napoli, l’11 settembre arrivò il golpe militare in Cile con l’uccisione di Salvador Allende. La maligna resistenza del colera consigliò di sollecitare una seconda vaccinazione. Il 12 settembre il Consiglio Superiore della Sanità la valutò non necessaria. Il 13 la Giunta regionale, di fronte a 689 ricoverati, decise di farla egualmente; nel bailamme l’assessore socialista Pierino Lagnese fece un buon lavoro. Il 14 settembre spirò al Cotugno una ragazza di 14 anni, Rosaria De Rosa, da Arzano. Uccisa dal tifo, non dal colera, fu precisato. Uccisa comunque dalla malasanità. Il tifo lo avevano correttamente diagnosticato al Cardarelli, prima di trasferirla al Gesù e Maria per le cure d’uso. Senonché lì, paurosi, cambiarono la terapia nel tentativo di arginare un’inesistente colera e infine decisero di mandarla al Cotugno. Rosaria aspettò per sette ore un’ambulanza. Al Gesù e Maria c’era, ma decisero di non usarla perché dopo si sarebbe perso troppo tempo per disinfettarla. L’ambulanza infine arrivò, ripartì e arrivò al Cotugno alle 16.02, giusto il tempo di morire. Il Mattino denunciò il caso, ne nacque una polemica a puntate col responsabile del Gesù e Maria. Il Mattino, martedì 26 Agosto Solo alla fine della brutta storia si scoprì che il reparto di epidemiologia, quello che avrebbe dovuto dare l’allarme, era stato soppresso. Quanto già si vedeva bastò comunque ai magistrati napoletani - del genere dei pretori di assalto che avevano appena ingaggiato in tutta Italia un’impari lotta contro inquinamento e corruzione - per spedire i primi avvisi di reato al medico provinciale Morante, all’ufficiale sanitario Gaetano Ortolani, al presidente dell’Ente Porto, Raimondo Rivieccio, all’ex prefetto Luigi Fabiani. Non erano loro i veri colpevoli, comunque tempo dopo tutto finì a tarallucci e vino, nessuno pagò. Nonostante le rassicurazioni sull’epidemia sotto controllo, a metà settembre il Genoa si rifiutò di venire al San Paolo per giocare la partita di Coppa Italia. I sub continuarono a combattere le cozze, scendendo in mare con le maschere antigas. Il consigliere Telemaco Malagoli del Pci, farmacista, mangiò in pubblico i mitili per solidarietà con i cozzicari. A Ponticelli ancora sporca incendiarono cinque auto dopo aver piazzato barricate ardenti. Durò fino a tarda sera. Quello stesso 15 settembre, 200 disoccupati invasero la sede della Regione, gli scontri con i celerini causarono numerosi feriti. Il Mattino intervistò il ventenne Giovanni Terracciano, studente di costruzioni aeronautiche, reduce guarito del Cotugno. Il ragazzo raccontò di essersi sentito un recluso isolato dal mondo. «Avevano paura di toccarmi», disse. Per rassicurare i genitori là sotto una mattina evase dal letto, raggiunse un finestrone e urlò: «Sto bene». Il 16 settembre la conta aggiornata dei ricoverati arrivò a 732, tuttavia la media giornaliera era scesa. Il 17 otto senzalavoro s’inerpicarono sul tetto del municipio, tra gli applausi solidali degli ex cantieristi radunati un piazza. Il 18 settembre, poco prima di mezzogiorno, il cielo si oscurò, scesero pioggia resa obliqua dal forte vento e chicchi di grandine. Durò appena un’ora, sufficiente a uccidere, ferire, seminare danni. A Capodichino, sferzata da raffiche a 110 all’ora, un muro crollò seppellendo due addetti a una pompa di benzina. La crudele evidenza del ritornato sole svelò i guasti di Napoli e dintorni. Le fogne intasate non fecero da filtro, la Sanità fu un deserto di fango e ciottoli portati dalla lava di acqua; molte strade franarono, una vicina all’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi. Sulla spiaggia di Torre del Greco finirono nove auto trascinate dai torrenti di pioggia scesi sulle vie dalle fogne tappate. San Giovanni a Teduccio diventò una distesa di liquami. A Barra gli abitanti di un palazzo diventato pericolante portarono in strada reti e materassi e si misero a dormire. Il fetore si stese sui quartieri poveri. Altre barricate, altri scontri duri a San Giovanni. Il 19 settembre San Gennaro concesse il miracolo del sangue dopo mezz’ora di ritardo ammonitore. Aboliti i fazzoletti sventolanti, il bacio alla teca di vetro, gli incitamenti delle parenti del patrono. Severo, il cardinale Ursi disse: «Non dobbiamo vincere solo il colera fisico, ma il colera morale». Parole di verità. Il 19 settembre fu fatto il conto aggiornato dell’epidemia: sedici morti, 781 casi di cui 127 positivi, 656 dimessi. Dal totale escluse cinque vittime giudicate non colerose. Il 20 settembre un gruppo di disoccupati assaltò in via Verdi l’auto del prefetto Amari. Feriti e arresti. Altri scontri il giorno dopo davanti all’ufficio di collocamento in via Duomo, con scambi di lanci di lacrimogeni e pietre tra i poliziotti e 300 disoccupati in vana attesa del promesso posto di spazzino. Poche ore dopo cominciò finalmente la vaccinazione di richiamo. Un medico di fama, il microbiologo Graziosi, disse all’Espresso che il siero usato era tra i meno efficaci. Il partito repubblicano uscì dalla Giunta comunale e aprì la crisi. Il 23 settembre al San Paolo l’amichevole della solidarietà tra Napoli e Bari, le città del colera, finì due a zero per gli azzurri, reti di Braglia e Vavassori. Mancò il tempo per gioire perché al Cotugno si registrarono altri sei ricoveri (due positivi) e perché il vibrione o-gawa fu isolato in un campione preso nelle fogne. «Dopo l’ottimismo torna la preoccupazione» titolò Il Mattino. Bilancio aggiornato al Cotugno, il 25 settembre: 822 ricoverati undici dei quali portatori sani, 737 dimessi, 19 deceduti solo nove dei quali ufficialmente colerosi. Tra mille e diecimila il numero dei portatori sani. Concentrati sul colera, passò quasi sotto silenzio l’impressionante crescita dei casi di tifo e di epatite virale, alcuni letali. A Piscinola sulla porta di un ripostiglio spuntò un nastro nero per salutare il «lieto evento» del parto multiplo della capofamiglia dei topi. «La zoccola ha figliato e ha fatto gli zoccolilli» ripeteva ironico l’affittuario. Il Mattino avviò un’ottima inchiesta sui mali cittadini, sull’ignorata lezione del colera 1884. E dire che Matilde Serao, quell’anno lontano, frustò l’incredulo capo del governo in visita: «Lei non poteva non sapere». E già, tutti sapevano. Uno dei titoli dell’inchiesta, il 26 settembre, era addirittura poetico: «Strade spazzate solo dai venti». Il 27 settembre fu portato al Cotugno un bambino di Castelvolturno, Nicola Grieco, gravissimo. Un piccino di otto mesi morì a Capri, nessuno seppe se di colera. Gli scavi di Ercolano chiusero perché alcune isole erano sommerse sotto quasi quattro metri di acque luride scese dalle scoppiate fogne di via Mare. A Londra il Times raccolse la cruda testimonianza di Jane Chambers, una batteriologa inglese ricoverata al Cotugno per una settimana. La donna disse di aver visto malati mangiare con le mani, medici ubriachi, rifiuti vicino alla corsie. Lo sfinito direttore dell’ospedale, Ferruccio De Lorenzo, minacciò querela e ottenne la rettifica. Era anche sottosegretario, per il suo lavoro di quelle settimane ebbe la medaglia d’oro. Il primo ottobre fu chiuso l’accorsato caffé del tribunale. Faceva schifo, neppure la giustizia era stata risparmiata dal degrado. A Portici, alla Croce del Lagno - nome emblematico - un giovanotto politicizzato scrisse su un muro con la bomboletta spray: «La colpa del colera è dei padroni». Pioveva leggero, l’acqua non bastava a ripulire. Il Mattino, mercoledì 27 agosto Il 3 ottobre ci furono 26 ricoveri: per epatite virale, si seppe, e quella diagnosi fu accolta come una benedizione. «L’epatite è più grave del colera» ammonì il professore Marcello Piazza. Al Cotugno restavano solo 16 colerosi, ma non era ancora finita. Il 4 ottobre le organizzazioni di quartiere, i comitati della sinistra al di là del Pci e alcuni consigli di fabbrica scesero nelle strade di Napoli. Non mancarono gli scontri in via Duomo; in Anche il colera. Gli untori di Napoli - un libro firmato Gennaro Esposito, sintesi di un lavoro di gruppo - si legge che gli scontri si svolsero «con estrema calma». Il 6 ottobre il procuratore della Repubblica Francesco De Santis, confortato dalle ricerche di Alfredo Zarone e altri medici legali, svelò che nelle cozze non era stata trovata la minima traccia di vibrione. Notizia fondamentale, venuta a cancellare un profluvio di bugie, però le prime pagine erano occupate dalla guerra esplosa in Medio Oriente. Comunque il ministero da tre giorni aveva autorizzato la vendita dei mitili di allevamento. Il 7 ottobre scese ancora la pioggia e la corrente elettrica se ne andò dalle 18 a tarda sera. Quando nei palazzi di Poggioreale e Capodichino tornò la luce, laghi di un metro d’acqua furono flebilmente rischiarati. A Capodichino, in ritardo, si aprì una voragine di sette metri. Continuava lo stillicidio dei ricoveri, tre l’8 ottobre. Le analisi accertarono che in un centimetro cubo dell’acqua incantata di Santa Lucia dei marinari prosperavano mille colibatteri. Luciano Lombardi, inviato del Tg1, disse che Gava non aveva ripulito le fogne e a Roma l’oscurarono. «Ci vuole maggiore impegno nella guerriglia ai ratti» titolò Il Mattino. Le attività produttive stentavano a ripartire, però i ladri non riposavano. L’11 ottobre, mentre De Michele rieletto sindaco s’insediava in Comune, saccheggiarono il suo studio ai Colli Aminei portandosi due milioni e dieci medaglie d’oro. Dopo altri tre arrivi al Cotugno, gli ultimi, il ritorno della normalità sembrò annunciato il 14 settembre dalle urla degli 80.000 allo stadio San Paolo. Il Napoli batté la Juve per due a zero, gol brasiliani di Cané - «Vavà, Didì e Pelé song’a ’uallera ’e Cané» ritmarono sugli spalti - e di Clerici su calcio di rigore. Il successo sulla ricca Signora degli Agnelli sembrò vendicare i cori «colera-colera» che già salutavano gli azzurri sui campi del profondo nord. Il 15 ottobre Il Mattino pubblicò una notizia interessante. Erano scomparsi 750.000 metri quadrati di suolo di proprietà del Comune di Napoli, quasi la metà del milione e 702.000 complessivi. Di essi al catasto non si trovava traccia. Poco da meravigliarsi in un posto in cui, dal 1951 al 1967, nella generale indifferenza era stata consentita la costruzione di 469.854 vani, pari a una città grande quanto Palermo. Poco da meravigliarsi in un posto in cui, perdurando l’epidemia - è notizia del 16 ottobre - si scoprì che i rifiuti dell’ospedale Cardarelli venivano venduti clandestinamente a un allevamento di maiali. Qualcuno aveva ancora voglia di pigliarsela con le cozze? E sì, il 18 ottobre fu demolita la Casa del Pescatore a Mergellina, chi sa a chi dava fastidio. Approfittando, fu rubata ai napoletani l’acqua zurfegna del Chiatamone e sulla fonte alzarono poi un albergo. Il 20 ottobre Il Mattino pubblicò in breve una notizia da stropicciarsi gli occhi: un napoletano era morto a 106 anni. Leggendola, si capiva: il patriarca aveva vissuto a Firenze. Ancora pochi giorni di timore, poi il 25 ottobre l’annuncio di sollievo: epidemia ufficialmente finita. Mai si seppe chi l’aveva portata, e da dove, nel disastro di una città esposta alle epidemie. Enzo Biagi commentò: «Il colera passa, i Gava restano. dunque vero che se ne vanno sempre i migliori». Restarono i danni materiali, la cui stima oscillò tra i 23 e i 30 miliardi di lire. Restarono le fosse al camposanto, ma un calcolo preciso dei morti per colera non fu possibile. Chi disse 12, chi 19, chi 24. La gente dei vicoli restò convinta che le avessero sottratto pure qualche morto, per «non allarmare l’opinione pubblica». Di certo, in quei due mesi angosciosi, non ci fu un ammazzato di camorra. Il colera fu uno spartiacque, uno dei tanti venuti a scandire le vicende di Napoli, qualche volta preziosi, molto più spesso inutili. Il saggio del sociologo inglese Percy Allum - Potere e società a Napoli nel dopoguerra, edito in Italia da Einaudi nel 1975 - squarciò il velo sugli intrecci tra poteri pubblici e interessi privati; faceva nomi, esponeva cifre e fatti: non prese querele. La spinta dal basso non si fermò. I movimenti dei disoccupati si organizzarono. Crebbe la consapevolezza dei danni creati dal presunto progresso nel nome dello sfruttamento, ragazze operaie esposero le mani deturpate dai veleni delle calzature fatte nelle fabbrichette in nero. La scena cambiò anche nelle urne. Alcuni intellettuali decisero di esporsi in politica, sia pure con la frequente etichetta di «tecnici». A beneficiare della svolta fu soprattutto il Partito comunista e nel 1975 Napoli ebbe la prima giunta di sinistra, sindaco Maurizio Valenzi. Ma la frustata del colera era stata trasversale, aveva scosso pure i cattolici. Non a caso a permettere la sopravvivenza della giunta, sempre sul filo del rasoio dei numeri, e a garantire la governabilità fu il voto accordato al bilancio da alcune correnti democristiane, da giovani come Mario Forte e Paolo Cirino Pomicino, lo psichiatra che nei giorni dell’epidemia era andato nelle strade a vaccinare. Poi vennero il terremoto, un altro diluvio di soldi, ancora sperperi e abusi, un’altra enorme occasione uccisa. Gli anni Ottanta cambiarono molte vite, riportando all’indietro i modi della politica. E poi... Percy Allum vive qui, alle spalle di piazza Plebiscito. Ha appena pubblicato per l’Ancora del Mediterraneo una edizione aggiornata del suo saggio ed è moderatamente pessimista. Vede i progressi, ma sostiene che Napoli è tuttora in mezzo al guado. Ed è pure vero, però trent’anni dopo nelle acque del lungomare si fanno i bagni ed è un bel progresso dai tempi del colera. Da festeggiare magari con un piatto di spaghetti alle cozze (rigorosamente di buon allevamento) e con un bicchiere della restituita acqua zurfegna. Pietro Gargano