George Steiner MicroMega, luglio-agosto 2003, 5 dicembre 2005
Per Steiner nessuno ha diritto di nascere: siamo solo degli invitati della vita, MicroMega, luglio-agosto 2003 (intervento letto in Germania, durante il conferimento del premio «Ludwig Börne») Come loro sapranno, Aristotele definisce lo stupore, (thaumazein) l’origine di ogni pensiero filosofico
Per Steiner nessuno ha diritto di nascere: siamo solo degli invitati della vita, MicroMega, luglio-agosto 2003 (intervento letto in Germania, durante il conferimento del premio «Ludwig Börne») Come loro sapranno, Aristotele definisce lo stupore, (thaumazein) l’origine di ogni pensiero filosofico. Se questo è vero, allora quest’oggi io sono stato promosso a filosofo rigoroso giacché sono profondamente stupefatto nell’animo, se così posso esprimermi, forse ancor più che nel pensiero, di ricevere qui, nella Paulskirche di Francoforte, l’onorificenza intitolata a Ludwig Börne. Non sono uno scrittore tedesco e neppure frequento quotidianamente la critica letteraria, o la vita universitaria o quella dei media tedeschi. In assoluto la mia prima visita in Germania ebbe luogo, ovviamente, solo dopo la seconda guerra mondiale, una guerra che, come del resto anche la prima, era stata una guerra civile europea. I professori universitari tedeschi, con la sola eccezione - che gli fa onore - di Gadamer, non hanno mai particolarmente apprezzato i miei lavori. In Germania ho trovato ospitalità presso due importanti editori, uno di Monaco e l’altro di Francoforte. Come loro possono quest’oggi notare, il mio tedesco è alquanto arrugginito e antiquato. Infatti esso proviene da un mondo scomparso e si arrischia a cercare un risarcimento che, per usare le immortali parole di Paul Celan, sta «nel Nord del futuro». E tuttavia: nel grande onore che loro mi fanno c’è qualcosa di legittimo persino in via di principio. Non solo Ludwig Börne fu un ebreo che, pur senza l’ironia opportunistica e l’odio verso se stesso di un Heine, dovette convertirsi al cristianesimo. Non solo Börne fu, dopo Lessing, uno dei primi cronisti dell’alta cultura, ma fu «straniero ovunque». Persino con se stesso, nella condizione privata come in quella pubblica, era in esilio. Appartiene anche a una costellazione che, credo, è propria in modo molto specifico della lingua e della letteratura tedesche: la costellazione dei grandi maestri della lingua e del pensiero tedeschi che hanno prodotto le loro opere al di fuori della Germania. Penso a Heine, a Nietzsche, a Rilke e a Kafka, ai lunghi anni dell’esilio di Thomas e Heinrich Mann, a Robert Musil e a Herirnann Broch. Ricordo Peter Weiss, gli anni americani di Brecht, Nelly Sachs e Paul Celan. Esilio, proscrizione, fuga al di là dei confini, persino un certo odio per la patria e un tragico disagio: tutti motivi che riscontriamo nel linguaggio di Nietzsche, esattamente come come in quello di Celan o di Canetti. In nessun’altra letteratura a me nota e in nessun’altra vicenda culturale l’outsider, il marginale o, come usava dire il signor Hitler, il «Luftmensch» [uomo che vive sospeso in aria, che non mette radici], si ritrova tanto prossimo al centro quanto in quella tedesca. Stefan George e Herman Hesse sono sepolti in Svizzera. Si tratta di un fenomeno sconvolgente che testimonia di un rapporto estremamente complicato, spesso crudele, tra potere - da un lato - e un pensiero e un canto poetico liberi - dall’altro - tra persecuzione politica e coraggio civile. L’uomo è «gettato» nella vita, per usare una poderosa espressione di Heidegger. Per questa «gettatezza» non c’è nessun perché, nessuna spiegazione di principio. Uno si ritrova nel mondo cieco oppure sordo o a priori già condannato da una malattia genetica. Uno è bello come Apollo o brutto come Socrate. Uno viene al mondo nel benessere, nella cultura e in sicurezza, un altro in un hinterland africano o asiatico devastato dalla fame o dall’aids. Uno ha genialità, l’altro trascorre i suoi giorni in ottusa stoltezza e abbandono. Per il novantacinque per cento del genere umano c’è un solo necrologio: il proprio nome che sta scritto nell’elenco del telefono. Grazie a Dio la Library of Congress di Washington raccoglie tutti gli elenchi del telefono. In essi troviamo la nostra immortalità. Una minoranza molto ristretta di grandi pensatori, artisti, scienziati, uomini di Stato o delinquenti raggiunge una relativa o, forse, anche autentica immortalità. Il nome di Franz Kafka è oggi un aggettivo in quasi duecento lingue. Anche in Mongolia si dice «kafkiano». Shakespeare è messo in scena negli asili del Togo dai sordomuti. La «gettatezza» è un imperscrutabile gioco di dadi. Il padre era scomparso senza lasciare traccia, la madre faceva la lavandaia nel quartiere più povero del Bronx meridionale di New York. La sorella non poteva più sopportare che il fratellino, quasi ancora un lattante, strillasse tutto il giorno, strillasse per la noia, e così comprò per 25 centesimi al piccolino un gioco degli scacchi di plastica. Oggi giudichiamo che Bobby Fischer, all’età di 41 anni, sia stato il miglior giocatore di scacchi del mondo. Non c’è spiegazione alcuna! Lui non sapeva che a scacchi si gioca in due. Lui aveva sempre giocato contro se stesso. Quando in un parco vide per la prima volta due giocatori di fronte a una scacchiera aveva sei anni. Ho avuto il grande onore di assistere in Islanda al campionato tra Bobby Fischer e Boris Spasski. Alla sera, dopo la terza partita, Spasski venne da noi in albergo e disse: «Per lui io non esisto». In questo consisteva tutto il segreto. Fischer faceva nella sua testa le mosse di Spasski molto più rapidamente di quanto Spasski stesso fosse in grado di fare. Non c’è nessuna possibile spiegazione per questa lotteria, per questo Montecarlo che è la «gettatezza» nella vita. Questo significa, signore e signori, che noi tutti siamo ospiti della vita. Siamo ospiti dell’essere. Noi siamo degli invitati della vita. Nessuno ha il diritto di nascere. Ognuno è ospite del mysterium tremendum della vita. Già il neonato, ammonisce Montaigne, è già abbastanza vecchio per morire. Vivere significa ricevere un dono arbitrario. Come deve comportarsi un ospite? Egli dovrà lasciare la casa in cui è stato ospitato un po’ più pulita, un po’ più bella e un po’ più sicura di come l’ha trovata. In questo sta il senso profondo dell’ecologia. L’inquinamento ambientale, lo sfruttamento e lo scempio del nostro piccolo e sovrappopolato pianeta si sono ormai trasformati in una frenesia suicida. Tonnellate di rifiuti e di sporcizia avvelenata sono sparsi sul monte Everest. I mari sono in agonia. Numerose piante e specie animali vengono cancellate. L’ospite si è trasformato in un vandalo cieco ed ebbro di tecnologia. Costui manda sistematicamente in malora la dimora che lo aveva benevolmente accolto. Se non impariamo ad essere ospiti educati del mondo organico, insudiceremo anche gli altri pianeti. Solo con l’autodistruzione dell’umanità resa folle dalla pazzia del denaro l’ambiente potrà riaversi. Solo se noi scompariamo il nostro pianeta ha una possibilità. Gli uomini sono reciprocamente ospiti e padroni di casa così come entrambi sono ospiti della vita. Nel greco antico il termine xenos significava straniero e ospite. Di questa stupenda equivalenza ci resta il termine xenofobia. Questa è la nostra storia: da xenos a xenofobia! Come dovrà comportarsi un ospite nei confronti di chi lo ospita? Dovrà cercare di apprendere tutto quanto può circa gli usi, i convincimenti e le credenze e, per quanto possibile, anche la lingua di chi gli dà ospitalità. Nella misura in cui non siano moralmente ingiuste, l’ospite dovrà obbedire alle leggi del paese ospitante. Per quello che è in suo potere l’ospite dovrà contribuire al benessere, al patrimonio culturale e alla salute di chi lo ospita. Sulla soglia, sul punto di uscire di casa - non si dimentichi mai che il nome di Dio è contenuto nella semplice espressione di saluto «adieu!» - il ringraziamento dovrà essere reciproco. Un «arrivederci!» nel condiviso miracolo della vita. Probabilmente i greci antichi sono stati il popolo più dotato nella storia dell’umanità. In quanto popolo sono scomparsi. Che resta della potenza mondiale di Roma o della grande civiltà dell’antico Egitto? Solo un popolo è sopravvissuto. Sempre di nuovo martoriato, deportato, disperso e sul punto di venir annientato, continuamente fatto oggetto di proscrizione sociale e di discriminazione politica, scacciato da un luogo d’asilo all’altro, il popolo di Ludwig Börne, da oltre quattromila anni, sopravvive. Persino qui sopravvive, nella Paulskirche, in questa chiesa consacrata al nome di Paolo, a colui che più di ogni altro ne è stato il negatore. Quali le ragioni di una simile, quasi incomprensibile e impossibile sopravvivenza? Forse questa domanda non ha alcun ragionevole senso. E tuttavia mi permetto di sollevarla proprio qui, nel paese e nella lingua della «trascorsa mezzanotte». Sono convinto che tale pressoché inconcepibile sopravvivenza e vitalità degli ebrei abbiano un senso, se non addirittura uno scopo ontologico. Poiché l’ebreo fu sempre un profugo, poiché in nessun luogo fu di casa, poiché la sua sola vera patria fu un libro, la Torah, l’ebreo è per definitionem un ospite su questa terra, un ospite tra gli uomini. è suo compito fungere da esempio all’umanità, da modello di tale condizione. è suo dovere indicare che anche altri uomini, nonostante sembrino profondamente radicati, sono ospiti gli uni degli altri e ospiti della vita. Ricade sull’ebreo il peso della dimostrazione che aveva ragione Baal Shem - fondatore e maestro del chassidismo - quando insegnava che la verità «sta sempre in esilio, che la verità deve sempre emigrare di nuovo». è dovere dell’ebreo combattere la barbarie del nazionalismo, dello sciovinismo e della persecuzione razziale. Tocca a lui dimostrare che è interessante vivere, lavorare e, soprattutto, apprendere in ogni luogo di questa terra. Che, come nel caso di Proust, di Wittgenstein o di Karl Marx anche in un albergo, nel ristorante di una stazione ferroviaria o in una biblioteca pubblica è possibile produrre delle opere d’arte. Tocca a lui testimoniare - come proclamato da Lev Bronstein, detto anche Trockij - che i confini esistono solo per essere superati, che è bestiale follia scannare un altro uomo perché appartiene a un’altra etnia o perché ha la pelle di un altro colore o perché parla una lingua straniera (a ben vedere che significa veramente «lingua straniera»?). I passaporti dovrebbero essere raccolti come francobolli. Gli alberi hanno radici, l’homo sapiens - che termine presuntuoso! - ha gambe. Egli può e deve essere un viandante nell’universalmente umano. Sul suo visto c’è una sola frase: nihil humanum alienum mihi, niente di umano mi è estraneo. Anche per te che sei così fiero del tuo sangue e della tua terra un giorno le stelle potrebbero diventare gialle. Mio padre era uno studente di Diritto a Vienna, non possedeva un becco d’un quattrino ma poteva come fosse un’ovvietà viaggiare senza passaporto attraverso tutta l’Europa. Nessuno gli ha mai chiesto: «Hai un permesso di soggiorno»? C’era un solo paese, molto strano, che pretendeva il visto: la Russia zarista. Tutti ci ridevano sopra. Si poteva viaggiare attraverso l’intera Europa! E oggi? Siamo come schiavi, nella schiavitù della burocrazia. Una volta gli uomini erano liberi. Essere ospite non è una facile vocazione. Nella maggior parte della nostra specie esiste un atavismo territoriale spesso brutale: all’estraneo digrigniamo i denti. L’uomo medio ha una paura quasi panica di fronte a chi è diverso da lui e dal suo tradizionale stile di vita. Apartheid, campare solamente tra i propri simili, è una schifosa ma quasi organica pigrizia dell’animo. Lo straniero puzza, questi figli di immigranti strillano troppo forte e insudiciano le strade. In nome di Dio, perché questi poveracci non possono restarsene a casa loro? Ospite e profugo, immigrato e servo della gleba sono concetti pericolosamente contigui. Di quanta pazienza, di quanta umiltà, di quanto tatto diplomatico e di quale sapiente sensibilità c’è bisogno perché l’ospite riesca a varcare la soglia o, addirittura, a poter entrare nell’abitazione di chi lo ospita. E persino quando il saluto di benvenuto è cordiale, l’ospite deve sempre, con dovuta discrezione, tenere in un angolo la sua valigia pronta. Questo io l’ho insegnato ai miei figli. Heine descrive tale condizione in modo incantevole nel suo racconto, restato incompiuto, intitolato Il Rabbi di Bacherach. Inevitabilmente questa condizione si riflette sul carattere e sull’indole dell’ospite. L’ambizione determinata, l’ironia mordace - da sempre arma dei deboli - la fedeltà sempre incerta nei riguardi della patria che, e non sempre ingiustamente, è stata attribuita all’ebreo, sono il marchio stampato a fuoco della sua interiore condizione di apolide. E questo marchio distorce persino troppo spesso le sue relazioni con gli altri ebrei (il termine fellow travellers si attaglia molto bene). Di questo la storia del contrasto tra Heine e Börne offre un esempio caratteristico. A questo si aggiunge qualcosa d’altro: la relazione tra l’ebreo che vive nella diaspora nei confronti del sionismo dello Stato d’Israele. Questo è per me un argomento motivo di sofferenza. Israele è un vero miracolo, un sogno dall’inferno realizzatosi per magia. Rappresenta oggi l’unico sicuro rifugio per l’ebreo qualora da qualche parte di nuovo la storia rincominci. E sicuramente rincomincerà! Forse un giorno Israele accoglierà i miei figli e i miei nipoti. Quale ebreo ha il diritto nei confronti del sionismo di sollevare dubbi o addirittura provare dolore? E tuttavia: durante più di duemila anni di persecuzione, di genocidio, di ghettizzazione e di umiliazione l’ebreo non è stato capace di umiliare, di torturare un altro uomo. A mio modo di vedere non esiste onorificenza più alta, nessuna superiore nobiltà di quella di appartenere a un popolo che non ha mai torturato! Quasi a partire dalla mia infanzia sono stato molto fiero di una tale ragione di superiorità: io appartengo alla razza superiore per il fatto che noi non torturiamo. Noi siamo i soli. Non abbiamo avuto il potere per fare questo. Halleluja! Mi vanto dell’amicizia di un filosofo francese. Ha fatto la guerra d’Algeria. Di fronte a lui sedeva il feddayin fatto prigioniero. Nessuno ha obbligato il mio amico. Se tu non lo torturi non ti succederà niente, gli è stato detto. Conserverai il tuo grado e non ti capiterà nulla. Ma quando esploderanno le bombe non verranno uccisi solamente gli abitanti del villaggio, ma anche i tuoi commilitoni. Il mio amico mi ha raccontato che alcuni hanno trovato una soluzione semplicissima a questo dilemma: si sono suicidati. Questo è giusto! Che io possa trovare il coraggio di fare lo stesso prima di torturare un altro uomo. Chi tortura, anche se solo per sopravvivere, è meno di un uomo. Questo è e resta per me un imperativo categorico. Appunto per sopravvivere in un contesto fanaticamente ostile e carico d’odio ora anche Israele è costretto a torturare e a umiliare in modo terribile i suoi vicini. Lo deve fare. è questo un prezzo troppo alto? Ha Israele privato l’ebraesimo delle sue morali e metafisiche lettres de noblesse, del suo titolo di nobiltà? Porre qui questa domanda e per di più in lingua tedesca è probabilmente una tragica insolenza, lo so. Che Spinoza mi assista. Per cinquant’anni, signore e signori, sono stato un insegnante: di letteratura e di ermeneutica filosofica. I più importanti pensatori e poeti scrivono lettere. L’insegnante, l’interprete e il postino, colui che fa del suo meglio per recapitare le lettere nelle giuste cassette della posta. Un mestiere senza pretese. Hölderlin non ha bisogno del signor Steiner mentre il signor Steiner ha un terribile bisogno di Hölderlin per poter respirare nella vita dello spirito. Non bisogna mai confondere queste due attività come fanno fin troppi tra i miei colleghi accademici. Vi posso assicurare: ci si prende molto sul serio nelle stanze dei professori. Un mestiere senza pretese ma forse il più bello che ci sia. Che significa essere un insegnante? La risposta di Dante è impareggiabile: mi insegnavate come l’uomo s’eterna. Intraducibile: «Tu, mio maestro, tu ser Brunetto, mi hai insegnato come l’uomo si volge verso l’eternità, come si rende eterno». Attraverso lo studio e il commento dei testi, mediante l’inesauribile gioia dell’apprendimento mnemonico (si apprende a memoria ciò che si ama). E da questo cresce la famiglia degli scolari, questa massoneria della speranza, che si rinnova ogni autunno. Ho allievi in cinque continenti. Molti di loro sono essi stessi diventati dei docenti e mi hanno invitato alle loro lezioni inaugurali. Vuoi tra gli studiosi di Shakespeare a Weimar e a Cracovia o tra i comparatisti di sinologia di Pechino e di Ginevra, nel seminario Walter Benjan di Amsterdam e Kapstadt o come professore di poetica a Harvard, Oxford o Bologna. Vuoi tra giovanissimi studenti calabresi o in seminari di professori a Dublino, Girona e Kyoto, al Collège de France o all’università di Glasgow sempre, vi prego di credermi, mi sono sentito come a casa. Nell’istante in cui lo studente cinese, ungherese o americano bussa alla porta, egli entra a far parte della famiglia. In questo caso non esistono estranei: solo ospiti uniti nell’affinità elettiva del testo, del pensiero, della musica, dell’arte o delle relative scienze naturali. In un istituto di Princeton, che era stato il domicilio di Einstein, anche lui un profugo, ho visto lavorare assieme alla lavagna giovani matematici russi, giapponesi e americani. Stavano in silenzio perché non avevano una lingua comune salvo il linguaggio universale dei simboli algebrici al quale anche Leibniz credeva. E poi tutto d’un colpo hanno iniziato a ridere della dimostrazione riuscita con quell’unione, irraggiungibile per noi incompetenti, che è nascosto persino nella più astratta teoria o nella più astratta dimostrazione topologica. Chi ha visto e sentito questo non può più credere, non deve più credere alla follia assassina del nazionalismo e dello scontro tra razze! Ho detto che siamo ospiti della vita. Che fortuna si ha se si può anche essere ospiti della verità. A questo, sia pure in misura molto modesta, l’ufficio dell’insegnante è un invito permanente. Quanto dev’essere triste essere un banchiere. Lo so che molto probabilmente le mie attese e le mie speranze sono utopistiche. Dappertutto oggi divampa l’odio ideologico, religioso e tribale. In Europa è in trionfale ascesa un fascismo del denaro, del filisteismo e dei media. [...] La «nobiltà dello spirito», come la definì Thomas Mann, suona quasi ridicola. Ci manca un termine appropriato per questa banalizzazione, per questa fatale arrendevolezza della formazione culturale. Max Weber, che con coerente chiarezza aveva previsto tutto ciò, sarebbe stato capace di trovarlo. Io però non so come fare. Se non impariamo a essere ospiti l’uno dell’altro, se non impariamo che in arabo e in ebraico il termine che indica la pace è esattamente lo stesso, allora ciò che resta della nostra stanca civiltà e della nostra umanità sprofonderà nella barbarie. Heine ha trovato le parole per tutto questo: «Già più prossima si faceva mezzanotte in silenziosa calma stava Babilonia». Ma questi versi, oggi, s’imparano ancora a memoria nelle scuole tedesche? Vorrei ringraziare loro, signore e signori, per avermi concesso di essere loro ospite. George Steiner