Daniele Scalise Prima Comunicazione, giugno 2003, 2 dicembre 2005
Il brodino (freddo) di Folli, Prima Comunicazione, giugno 2003 (Intervista concessa nell’aprile del 2002, giudicata «un brodino» e per questo cestinata) Nel Sessantotto, mentre i suoi coetanei mettevano a ferro e fuoco le università, lei studiava
Il brodino (freddo) di Folli, Prima Comunicazione, giugno 2003 (Intervista concessa nell’aprile del 2002, giudicata «un brodino» e per questo cestinata) Nel Sessantotto, mentre i suoi coetanei mettevano a ferro e fuoco le università, lei studiava. Si direbbe che siamo alla rivincita del secchione. «E si direbbe male. vero, ho studiato con De Felice che allora aveva come assistenti Paolo Mieli e Giovanni Sabbatucci, direi un gruppo estremamente interessante. Ma il Sessantotto l’ho seguito da vicino e con grande interesse. Anche se non ho mai fatto parte dei gruppi della sinistra extraparlamentare». Oltretutto lei era repubblicano... «Non ero un militante anche se condividevo gli ideali di quel partito. Mi aveva molto colpito Ugo La Malfa per il suo spirito di liberalismo non rituale, non conservatore. Era un democratico di sinistra che poteva interloquire con la sinistra marxista. E poi dobbiamo riconoscere che il Pri era pieno di ingegni». Fatto sta che lei iniziò proprio sotto l’Edera a fare il giornalista. «Mi piacevano molto la politica e il giornalismo e le due cose si incrociarono attorno alla ”Voce Repubblicana”. Se vuoi fare il giornalista o parti dalla cronaca o dalla politica. Io partii dalla politica. La Voce, poi, era un giornale intelligente e non un bollettino di partito. Vi entrai nel ’78, e quelli erano anni in cui era ancora viva la lezione di Pannunzio [...]». In effetti, ”La Voce Repubblicana” è stata quel che si dice - se non ci facessero schifo i luoghi comuni - una bella palestra. «Vi è stata una prima fase, quella che aveva come direttori Giuseppe Ciranna e Giovanni Ferrara, che si chiuse per volontà di La Malfa nel ’78. Vi lavoravano professionisti come Guido Gentili, Massimo Gaggi, Aldo Carboni, Oscar Giannino». E lei. «E io». Che poi ne divenne anche direttore. «Questo avvenne dopo, quando fu resuscitata. Io ne fui direttore tra l’81 e l’87». Per poi mollare tutto e andare al ”Corriere” con Mieli. «Prima passai al ”Tempo” come caporedattore politico. Al ”Corriere” ci arrivai più tardi, nel ’91, e il direttore allora era Ugo Stille che mi assunse con l’incarico di notista politico. Quando arrivò Mieli, io ero già lì da un po’ e nel ’93 mi propose di curare la rubrica». Che fu una bella scommessa, visto che non era detto che funzionasse. «Ha funzionato anche perché per far funzionare le cose ci vuole costanza e convinzione. Due doti che Mieli ha sicuramente. Ci voleva anche fantasia, capacità di correre un minimo di rischio». Ci voleva anche uno bravo. «Ci voleva anche uno bravo». Lei ha inaugurato un genere abbastanza nuovo dal punto di vista tecnico. Niente a che vedere con il classico pastone, ”Il punto” non è nemmeno un editoriale che impegna la linea del giornale. Direi che è più che altro un genere letterario misto: commento, note, il senso del giorno con una sua riconoscibilità grafica. «Sono persuaso che si potrebbe applicare la stessa ricetta anche nel campo dell’economia o in politica estera [...]. Il tentativo, riuscito mi sembra, è stato quello di fare [...] l’analisi dei fatti senza commenti anche se, come è ovvio, c’è sempre un elemento di valutazione». Mi faccia capire bene cosa distingue ”Il punto” da un editoriale. «L’editoriale è un punto di vista mentre io tendo a indicare una tendenza». Mi dicono che lei è così fedele alla sua rubrica da rifiutare di andare in prima pagina con un editoriale. « vero solo parzialmente visto che ho firmato anche degli editoriali. Quel che è sicuro è che sono legato alla mia formula dove cerco di sviluppare il collegamento tra la politica italiana e quella europea [...]». Frequenta molto il Transatlantico? «Quel che serve. Cioè, poco. Nel ”Punto” c’è sempre meno Montecitorio e sempre più Bruxelles [...]. Dicono anche che lei faccia coppia fissa con Francesco Verderami, il retroscenista del ”Corriere”, che vi leggete i pezzi a vicenda. «Stimo molto Verderami [...]. Non la prenda per arroganza, ma a mio avviso se uno legge la mia nota e il retroscena di Verderami, si fa un’idea piuttosto completa di quello che succede». Dopo quasi un decennio non teme che lo strumento si sia un poco consumato? «Direi piuttosto che richiede uno sforzo costante di adeguamento dei criteri di valutazione. Deve pensare che io sono stato educato alla Prima Repubblica degli anni 70 mentre oggi il mondo politico è completamente diverso. Accompagnare questa trasformazione non è sempre facile [..]». Ma cosa è veramente cambiato tra la Prima e la Seconda Repubblica? «I codici politici di allora e quelli di oggi non sono affatto paragonabili. Una volta era più facile individuare le tendenze, oggi c’è forte una componente irrazionale. Basti vedere come parla Silvio Berlusconi, come affronta la comunicazione politica. Ha ragione Giuliano Ferrara quando dice che il presidente del Consiglio non parla da politico e spiazza continuamente gli osservatori della politica. Del resto i momenti di trapasso sono sempre così. I nuovi codici intervengono sui vecchi [...]. Quando Berlusconi dice che ”resisteremo alle piazze e alle pistole” forma o consenso o non consenso, ma sicuramente crea politica». I salotti sono utili per capire la politica? «Personalmente li frequento poco, ma a volte servono per capire un clima, un umore, la psicologia delle persone. Niente di più». Daniele Scalise