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 2005  novembre 26 Sabato calendario

Che gusto quando sono i Grandi a soffrire. Libero 26/11/2005. Pochi giorni fa un’équipe di scienziati del Center for Beethoven Studies di San Josè, in California, ha condotto una ricerca sul Dna tratto da frammenti ossei del cranio appartenuto al grande compositore di Bonn, per cercare di stabilirne le cause della morte

Che gusto quando sono i Grandi a soffrire. Libero 26/11/2005. Pochi giorni fa un’équipe di scienziati del Center for Beethoven Studies di San Josè, in California, ha condotto una ricerca sul Dna tratto da frammenti ossei del cranio appartenuto al grande compositore di Bonn, per cercare di stabilirne le cause della morte. Già negli anni Novanta erano state compiute analisi su una ciocca di capelli. Insomma, Beethoven non può ancora riposare in pace tutto intero. In ogni caso, dai nuovi studi, arriva la conferma che il musicista soffriva di avvelenamento da piombo, forse dovuto ai tubi della rete idrica ottocentesca. Si spiegherebbe così anche il suo perenne cattivo umore (fra i tipici sintomi della malattia), soprattutto negli ultimi anni di vita. Bisogna anche dire, però, e lo scrive Luciano Sterpellone nel suo ultimo libro ”Famosi e malati”, che il Ludwig della Nona Sinfonia era solito alzare un po’ il gomito, fatto che, se tira su il morale in un primo tempo, successivamente ingenera tristezza e malumore. Anzi Sterpellone, medico e scrittore che ha dedicato tutto il libro a raccontare allegramente le malattie e le morti dei Vip della storia, sancisce con un certo grado di sicurezza che Beethoven sia morto proprio di cirrosi epatica, malattia che colpisce i forti bevitori. Addirittura pare che, quando ormai le speranze di vita erano ridotte a zero, i medici abbiano dato il ”via libera” al musicista per bere vino a volontà, «finché morte non sopravvenga». Del resto, tutta la vita di Beethoven non fu propriamente un esempio di salutismo e vigore: piccolo e tarchiato, sul suo volto circondato dai capelli leonini si affacciavano le cicatrici del vaiolo, era afflitto da miopia fin da giovanissimo e, naturalmente, sordo sempre di più col passare degli anni, al punto che, ancora quarantenne, per poter sentire vagamente ciò che suonava, doveva tenere una bacchetta di legno tra i denti e poggiarne l’altra estremità alla cassa di risonanza del pianoforte, così da percepire almeno le vibrazioni. Ma il genio sconfisse la caducità del corpo. Dall’imperatore romano Adriano alla scrittrice Virginia Woolf, in poco più di duecento pagine, Luciano Sterpellone racconta di malati e di morti ma, al contrario di quanto si possa immaginare, la lettura è divertente e leggera, perfino nei tratti lugubri che appartengono alla storia della medicina e dei medicamenti più astrusi. Basti per tutti citare i medici di Enrico II, re di Francia, che mozzarono quattro teste di detenuti per riprodurre su di loro l’incidente all’occhio che era occorso al re. Inutile dire che, almeno in quell’occasione, non scoprirono tecniche chirurgiche rivoluzionarie che potessero salvare il sovrano. Anzi, Enrico II morì di lì a pochi giorni con la sua bella ferita all’occhio e con buona pace delle quattro cavie. E a proposito di occhi l’autore, che è medico, non manca di sottolineare come da un attento esame di occhi e palpebre della ”Gioconda” risulti che Monna Lisa aveva il colesterolo molto oltre il livello di guardia. La diagnosi in punto di morte dei medici di Oscar Wilde, invece, ha un che di poetico nella sua rassegnazione: «La sua gola è una fornace di calce viva, il cervello una caldaia, i nervi un groviglio di serpenti infuriati». Il troppo fumo, l’alcool, la sifilide, l’otite purulenta aggravatasi in carcere (dove era finito per il reato di omosessualità) e l’uso frequente di assenzio fermarono il cuore del grande scrittore inglese il 30 novembre del 1900, in osservanza del suo ennesimo sberleffo: «Se un altro secolo comincia e mi trova ancora in vita, sarà davvero più di quanto gli inglesi possano sopportare». Vita dura per questi defunti illustri. Ma anche i loro medici hanno spesso trascorso brutti momenti. Infatti, se per gli allievi di Ippocrate sbagliare una diagnosi è come calciare un rigore alto sopra la traversa, con la differenza che invece di perdere una finale si può perdere il paziente, per i medici di Stalin si rivelò fatale avere azzeccato la diagnosi di ”psicosi paranoica” riferita al dittatore sovietico. Piccolo Padre non la prese per niente bene, mentre i due dottori si presero 25 anni di carcere ciascuno. In realtà, Stalin ci morì di quella malattia. Apparentemente arrivato al colmo della paranoia, più o meno nei primi anni Quaranta, in realtà il suo comportamento non fece che peggiorare col passare degli anni: allucinazioni, collera, manie di persecuzione lo portarono a decuplicare la scorta armata e a chiudersi a chiave tutte le notti nella stanza da letto, dormendo completamente vestito. Finché, in una notte del ’53, non fu colpito da un’emorragia celebrale che lo paralizzò, asserragliato in camera per ventiquattro ore prima che qualcuno avesse il coraggio di entrare. Ormai era tardi per lui, mentre andò meglio al gruppo di nuovi medici che lo avevano in cura, sul punto di essere fucilati su suo ordine a causa di un complotto immaginario «volto ad accorciare la vita di noti dirigenti dell’Unione Sovietica, praticando loro trattamenti nocivi». E se la morte di Socrate, che bevve cicuta con gran classe in compagnia di amici, è nota ai più, quella di Paganini, considerato compare del diavolo e nemmeno degnato di una sepoltura sacra per volontà dell’allora vescovo di Nizza, è assai più oscura. Si sa che il violinista genovese aveva un aspetto cadaverico anche da vivo, naso adunco e guance scavate e bianchissime; si sa che fiorirono leggende infinite sul suo satanismo (del resto amava esercitarsi la notte nel cimitero del Lido di Venezia); si sa anche che disturbi intestinali, sifilide, laringite tubercolare, uretrite e le conseguenti cure grossolane settecentesche lo fiaccarono fino alla morte. Ma forse non è così risaputo che il più grande virtuoso del violino fosse affetto dalla ”sindrome di Marfan”, che non si chiamava ancora così, in quanto fu scoperta e denominata solo cinquant’anni dopo. La conferma è venuta da analisi radiologiche e biochimiche effettuate sui resti riesumati nel 1893 e nel 1946. Questa sindrome comporta una eccezionale elasticità dei tendini e dei legamenti, permettendo alle articolazioni movimenti abnormi e flessioni superiori ai novanta gradi. Senza nulla togliere allo straordinario talento artistico del violinista e alla magia delle sue evoluzioni con l’archetto, bisogna dare atto che anche Madre Natura ha davvero giocato di fino in questo caso. Come pure accomunando per l’arteriosclerosi Mao Tze Dong ed Ernest Hemingway, quest’ultimo stressato dalla malattia fino al delirio che, assieme all’alcol, lo portò al suicidio. Tra Friedrich Nietzsche e Marilyn Monroe, dentro e fuori i manicomi, l’asma bronchiale di Che Guevara, le voci celesti che sentiva Giovanna d’Arco (oggi considerate con un certo sospetto sotto la lente della psichiatria), i reumatismi di Garibaldi e la cataratta di San Francesco, i Grandi ammalati rendono grandi anche le malattie, donando loro un’aura di mito che le rende quasi interessanti, se non piacevoli Guido Bosticco