Libero 27/11/2005, pag.23 Mario Bernardi Guardi, 27 novembre 2005
Monaldo, un reazionario molto audace. Libero 27/11/2005. Nel 1830, in Francia, la ”rivoluzione di luglio” caccia Carlo X - fratello del ghigliottinato Luigi XVI - e porta al potere Luigi Filippo di Orléans, che accetta di essere nominato ”re dei Francesi”, adotta la bandiera tricolore al posto di quella con i gigli dei Borbone, si proclama difensore di tutti i popoli oppressi d’Europa: insomma, un ”monarca liberale”
Monaldo, un reazionario molto audace. Libero 27/11/2005. Nel 1830, in Francia, la ”rivoluzione di luglio” caccia Carlo X - fratello del ghigliottinato Luigi XVI - e porta al potere Luigi Filippo di Orléans, che accetta di essere nominato ”re dei Francesi”, adotta la bandiera tricolore al posto di quella con i gigli dei Borbone, si proclama difensore di tutti i popoli oppressi d’Europa: insomma, un ”monarca liberale”. E moti liberali scoppiano un po’ dappertutto: anche in Italia, nella Modena di Francesco IV e nella Romagna pontificia. Ma è una breve fiammata tricolore: gli Austriaci riportano l’ordine. E gli uomini d’ordine esultano. Qualcuno, però, preferisce riflettere su quanto accaduto. Tra loro c’è il conte Monaldo Leopardi. Noto, in quegli anni, assai più del figlio Giacomo, destinato a gloria imperitura, ma allora misconosciuto. Trono e altare. Monaldo è un fior di polemista reazionario. Nato (nel 1776) e cresciuto a Recanati, nel ristretto ambiente della nobiltà provinciale e papalina, è affezionatissimo alla ”piccola patria” schifata da Giacomo come ”borgo selvaggio”. Monaldo, invece, ama guardare il mondo proprio da quella ”finestretta”: «La nostra vera patria - scrive nella sua ”Autobiografia” - è precisamente quella terra nella quale siamo nati e in cui viviamo insieme con gli altri cittadini, avendo comuni con essi il suolo, le mura, le istituzioni, le leggi». Dunque, non allarghiamoci troppo. Inutile dire che il nostro conte - sempre vestito di nero, con scarpe basse e fibbia d’argento, cravatta bianca, calzoni corti come prima della Rivoluzione e con lo spadino a fianco: un segno di riconoscimento e rivendicazione del proprio rango - crede nei valori dell’Ancien Régime e si sente impegnato a difendere Trono ed Altare. Un tipo strano, Monaldo. Ha ereditato un bel patrimonio, ma come amministratore è una frana. Spende e spande, e non nel segno della peccaminosa triade Bacco, Tabacco e Venere, ma per acquistare libri. Ma dir libri è troppo poco. Al palazzotto di Monaldo ne arrivano a carrettate. Per la biblioteca di famiglia che, forte di 12.000 volumi, nel 1812 viene generosamente aperta ai concittadini. Ma quanti sanno leggere e scrivere? Giacomo, comunque, ci si è tuffato dentro sin da bambino. E Monaldo lo lascia fare, evitando il cipiglio del censore. In casa, del resto, ad esibirlo da mattina a sera c’è Adelaide Antici, moglie e madre ”esemplare”. Forse troppo, forse non sempre nel modo giusto. Monaldo l’ha sposata nel 1797: lui ha ventun anni, lei ha qualcosa di meno. Ma anche di più: un carattere di ferro. E siccome il patrimonio del marito minaccia di estinguersi, lei prende in mano le redini della famiglia, cerca un amministratore che dia garanzie, diventa la padrona della casata. La fredda Adelaide. Monaldo è succube di quella donna forte e fredda, avara di tenerezze con lui e con i figli, e tanto bigotta che (lo scriverà Giacomo nel suo ”Zibaldone”) «non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati al paradiso senza pericoli e avevano liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli». Che doveva fare il povero Monaldo? Non se la sentiva di dichiarar guerra a quella donna che lo fulminava con lo sguardo ma che aveva salvato casa Leopardi dalla rovina: e allora si rifugiava nei libri e nella polemica politica. Non era un fanatico: conservatore, sì, reazionario, sì, ma realista. vero che provò disgusto per le truppe giacobine sciamanti in Italia, in odio ai governi legittimi, al Papa, alla Tradizione (nel 1798 fu istituito a Roma un governo repubblicano e Pio VI fu confinato prima in Toscana e poi in Francia) e denunciò frenesie ideologiche, ruberie e persecuzioni fatte in nome della libertà; è altrettanto vero che guardò con una certa apprensione alle insorgenze e alle reazioni popolari antifrancesi. Dio ci guardi dal popolino/popolaccio che sbandiera la fede per vendicarsi e per compiere infamie! Nemico di ignoranti e faziosi, all’insegna del motto ”La verità tutta o niente”, il legalitario Monaldo difendeva l’idea del corpo sociale come ”organismo”. Nel suo ”Catechismo filosofico”, infatti, si legge: «L’uomo nasce nella società, col bisogno e col debito di vivere in società e il debito si chiama sottomissione alla società; i diritti del corpo sociale nel suo complesso vanno privilegiati rispetto ai diritti del singolo sui quali fa perno e ruota tutto il pensiero liberale». Ovviamente, l’autorità deriva da Dio e non può essere figlia dell’arbitrio popolare. Ecco quanto scrive il Nostro nei ”Dialoghetti sulle materie correnti dell’anno 1831”, ragionando sugli eventi cui abbiamo fatto cenno all’inizio: «I re non vogliono mai, e non possono volere il male del popolo, perché il popolo è la famiglia e il patrimonio del re, e nessuno vuole il danno della propria famiglia e la rovina del suo patrimonio. Anche il re può sbagliare, perché anch’esso è un uomo, e dovendosi vivere esposti all’errore, è meglio vivere esposti all’errore di uno solo che agli errori di tutti». Il figlio Giacomo. Non siamo di fronte, come si vede, alle argomentazioni ”forti” di un de Maistre o di un de Bonald: quella di Monaldo è, comunque, solida saggezza ben pensante, servita in chiara e accattivante prosa. Addirittura brillante, nota qualcuno: non sarà che, dietro questo brillìo, si nasconda l’abile mano del figlio? Ma Giacomo rifiuta sdegnosamente la paternità di quel libello reazionario, che brucia tre edizioni in un mese, sei dopo altri tre mesi, ed ha successo anche all’estero, tradotto in varie lingue. Attenzione, però: Giacomo non è né cattolico né reazionario, ma è tutt’altro che un progressista. Anzi, progressisti e liberali li ha ferocemente sbeffeggiati in un libello, stavolta suo davvero, scritto nel 1831, ”I Paralipomeni della Batracomiomachia”, dove portando in scena i topi (i liberali), le rane( i reazionari), i granchi (gli austriaci), ha bollato a fuoco il movimento settario. Senza, però, farsi paladino della Restaurazione, come papà Monaldo: Giacomo non crede né ai troni né agli altari e professa un individualismo eroico di tipo alfieriano, con al centro la magnanimità degli antichi, e decisamente ”inattuale” e ”impolitico”. Anche Monaldo preferisce tenersi lontano da quella «sgualdrina» della politica (è lui a chiamarla così), ma crede che il suo dovere di buon cristiano sia quello di denunciare, smascherare, orientare. Parlando a tutti e non agli spiriti eletti. Insomma, il popolo, traviato dal liberalismo, deve essere riportato sulla retta via e Monaldo, in un nuovo libello, ”Don Muso Duro curato nel Paese della Verità” (1832), ci presenta un tostissimo sacerdote che predica contro lo scetticismo dei tempi. Audace e combattivo (quando non ha a che fare con quella valchiria dell’Adelaide...), il conte batte e ribatte instancabile sulle sue tesi dalle colonne della ”Voce della Ragione” e della ”Voce della Verità” (un trisettimanale che nel 1831 arriva ad avere 2000 abbonati). Contro «lo scoglio della rivoluzione» e «il pericolo della tirannide», invoca una autorità sovrana che non venga mai meno agli obblighi verso Dio e verso il popolo, e paternamente lo educhi. A nessuno debbono essere chiuse le porte della scienza: il reazionario Monaldo vuol garantito il diritto allo studio per tutti i capaci e meritevoli. In ogni caso, mai venga meno la carità. E, per dar l’esempio, una sera di inverno si sfila i pantaloni per donarli a un mendicate intirizzito incontrato per strada. E avvolto nel pastrano, torna a casa, un po’ in ansia per quel che gli dirà la rocciosa Adelaide... Mario Bernardi Guardi