La Repubblica 27/11/2005, pag.30 Stefano Malatesta, 27 novembre 2005
Austerlitz. La Repubblica 27/11/2005. Una trentina di anni fa A. J. P. Taylor, il più grande storico inglese del secolo scorso, scoprì con una certa meraviglia che nel mxondo erano stati pubblicati più libri su Napoleone che su qualsiasi altro essere umano
Austerlitz. La Repubblica 27/11/2005. Una trentina di anni fa A. J. P. Taylor, il più grande storico inglese del secolo scorso, scoprì con una certa meraviglia che nel mxondo erano stati pubblicati più libri su Napoleone che su qualsiasi altro essere umano. Centomila titoli circa verso la fine dell´Ottocento e oggi dovrebbero essere 250mila, anche se nessuno ha mai fatto il calcolo. Un immenso, polveroso materiale chiamato storico, ma in realtà della più diversa composizione e di un valore molto diseguale, che sembra ricoprire l´imperatore dei francesi di un terriccio alluvionale, fino a trasformare metaforicamente il pretenzioso sarcofago di falso porfido rosso degli Invalidi in una tomba a forma conica simile a quelle dei nomadi asiatici chiamate turgan, che si vedono da lontano quando uno attraversa la pianura senza fine della steppa. Molto di questo materiale riguarda le innumerevoli battaglie affrontate da Napoleone durante tutta la sua vita, che da allora sono state studiate e dissezionate come pochi altri avvenimenti storici. In testa alla lunga colonna c´è naturalmente Waterloo, diventata un fenomeno sociologico più che uno scontro d´armi, su cui si torna con maniacale petulanza, senza portare nulla di nuovo. Ed è curioso vedere come le innumerevoli versioni cui si sono applicati una quantità strabiliante di dilettanti, attirati dal glamour dei combattimenti, raramente combaciano in tutti i particolari. La verità assoluta di una battaglia - se per questo s´intende una soddisfacente narrazione, nello stesso tempo, del generale e del particulare e di tutte le posizioni e di tutti gli scontri in ogni momento della giornata - non esiste. I racconti dei testimoni si fondono malamente tra loro e occorre una fantasia legata ai fatti per coprire buchi e immaginare assalti di cui sappiamo poco (Wellington, che aveva qualche ragione per essere chiamato un testimone attendibile, ha rifiutato per tutta la sua vita di dare una versione più meditata della battaglia, oltre quel magro comunicato mandato poche ore dopo la vittoria al governo inglese: diceva che una battaglia ricostruita con il senno di poi avrebbe risentito invariabilmente della vanità dei protagonisti). Ma questa chiamiamola impossibilità teorica di avere una versione immacolata non ha nulla a che fare con la cocciuta vocazione dei comandi militari di fornire versioni completamente demenziali, scritte in una lingua che non appartiene agli umani, il cui racconto s´ingarbuglia in un ammasso di nomi, cifre, termini tecnici, conditi qua e là da sprazzi di retorica, simile a un garbuglio o gnommero, come lo avrebbe chiamato Gadda. Dalla catastrofe di Waterloo si passa subito al sole di Austerlitz, come viene sempre nominata la più perfetta tra le battaglie del genio: la vittoria-capolavoro e la sua "finest hour"... Nei lugubri pomeriggi nell´isola di Sant´Elena, perduta nell´ultima retrovia dell´Atlantico, seduto davanti al tavolo ingombro di carte militari, l´imperatore aveva spiegato e rispiegato anche agli ospiti inglesi venuti a curiosare, le varie fasi della battaglia. Ma quello che diceva Napoleone non era mai così entusiasmante come quello che faceva. Gli mancava quel temperamento descrittivo, quella capacità di invenzione musicale che facesse lievitare i dati materiali dello scontro trasformandoli in entusiasmanti cariche e cavalcate epiche come faranno i grandi storici del romanticismo. Napoleone trovava sempre le parole giuste per parlare ai soldati prima di mandarli a morire per la sua gloria, sapeva come andavano rincuorati e galvanizzati, non l´ultima delle doti per un comandante sul campo. Ma non era un raccontatore e tanto meno un teorico di tattiche e di strategia. E le sue battute o frasi (ce ne rimangono decine: "Non fate quello che vuole il nemico, anche solo per il fatto che lo vuole"; "non attaccate frontalmente posizioni che potreste prendere con l´aggiramento"; "l´arte della guerra consiste nel trovarsi sul punto d´attacco con forze superiori a quelle del nemico") non costituiscono una teoria completa, come ha tentato di far credere un vero teorico forse migliore di Von Clausevitz: Henri de Jomini. La teoria napoleonica iniziava e finiva sul campo di battaglia, si nutriva della topografia, delle pianure, dei fiumi, delle montagne che il generale corso imprimeva nella sua strabiliante memoria visiva, e quando l´insieme del vasto teatro di guerra gli era chiaro fin nei minimi particolari, allora era il momento di far entrare i suoi soldati come attori in un palcoscenico dove ognuno conosceva bene la sua parte. Quello che è stato chiamato il genio della guerra era null´altro o niente di meno che il controllo totale delle geografie dei luoghi dove si svolgeva la battaglia, accompagnato da un fiuto apparentemente superumano ma che invece era il frutto di acute osservazioni sul comportamento dei militari che gli faceva intuire le mosse dell´avversario prima ancora che l´avversario stesso ne fosse consapevole. Ad Austerlitz non ci fu nessuna malignità del caso, nessun intervento di un dio invidioso a fare da ostacolo a queste doti. Tutto andò per il verso previsto come succede assai raramente e il risultato fu la più schiacciante vittoria napoleonica. qui che venne applicato alla lettera uno dei più famosi detti dell´Imperatore: "La vittoria si conquista durante la ritirata del nemico". Quelle truppe che sul momento sembravano finite e in fuga potevano sempre riprendersi, e ritornare alla carica, più fresche di prima. Per uno di quei paradossi di cui è piena la storia furono proprio i prussiani sconfitti ma non annientati a ritornare sul campo di battaglia di Waterloo prendendo alle spalle Napoleone. Inoltre, per altre battaglie, Marengo ad esempio, non è stato mai chiarito fino in fondo quanta parte avessero avuto, nei risultati dello scontro, tutti i luogotenenti che si erano alternati presso il suo comando. C´erano stati casi in cui il futuro Imperatore era stato salvato da una manovra azzardata di uno dei suoi sottoposti che aveva agito di sua iniziativa. Ma Austerlitz, dal principio alla fine, era appartenuta completamente a lui. Una vicenda esclusivamente napoleonica iniziata qualche mese prima con il formarsi della terza coalizione. La marcia verso il Danubio: Nell´estate del 1805, a Boulogne, erano ancora ammassati 150mila uomini che dovevano essere trasportati attraverso la Manica, oltre le scogliere di Dover per la progettata invasione dell´Inghilterra. Questa possibilità era andata svanendo man a mano che all´Imperatore arrivavano voci di trame austro-russe tese a neutralizzare i francesi con un´azione improvvisa. E un giorno dell´autunno 1805, così com´erano venuti, i 150mila soldati francesi rinsaccarono rapidamente la loro roba negli zaini, smembrarono l´immenso campo e si misero in marcia a passo accelerato, dirigendosi verso il bacino del Danubio e cantando una canzone che diceva: "Il nostro imperatore ha trovato un modo nuovo di fare la guerra: adesso usiamo i piedi al posto delle mani". la più grande armata appartenente a un solo paese mai vista in Europa. Davanti alla fanteria, simile ad uno schermo mobile e nervoso, caracolla la riserva della cavalleria guidata da Murat: un nuovo, versatile corpo composto da dragoni e corazzieri, ma anche da ussari e cacciatori in funzione di ricognitori. L´itinerario è stato scelto da Napoleone in persona, che ha definito un tracciato impossibile da percorrere, almeno in pochi giorni e a quella velocità. Bagnati fino alle ossa, scossi da brividi, i fantaccini allungano ancora di più il passo già lungo di quella che verrà definita la marcia più veloce di tutte le campagne napoleoniche. I tempi sono: cinque minuti di riposo ogni ora e sosta di un´ora e mezzo ai tre quarti della tappa prevista. Ma chi batte tutti i record è il contingente di Davout: 112 chilometri in quaranta ore. Quando il generale austriaco Mach si presenta con sessantamila uomini davanti alla foresta che protegge Ulm ha l´aria sbigottita di chi non crede a quello che gli sta accadendo, e dopo scontri con altri reparti di modesta entità si rinchiude nelle fortezze di Ulm per capitolare solo sei giorni dopo. L´umiliazione enorme subita dall´esercito austriaco traspare chiaramente nel quadro commemorativo della presa della città, dove diciassette generali austriaci a capo scoperto vengono a consegnare le sciabole, con un´aria di disfatta e di sottomissione, a un Napoleone ringiovanito, affiancato dai suoi luogotenenti cafoni, nessuno dei quali si è tolto il cappello per rispondere all´atto di omaggio degli austriaci. Più a nord, a comandare i Russi, c´è la vecchia volpe Kutuzov, malandato e orbo, ma ancora il più intelligente di tutti gli avversari di Napoleone, che non ha nessuna intenzione di finire in pellicceria, anche perché lo attende la battaglia di Borodino tra qualche anno. Mettendo in sospetto gli stessi austriaci, il comandante in capo russo, che finora ha ascoltato solo a metà gli incitamenti del suo Zar, si muove abilmente alternando ritirate verso nord con proposte di armistizio. In altri momenti l´impazienza di Napoleone avrebbe portato allo scontro immediato con il generale sonnacchioso (si diceva avesse russato tutto il tempo durante la riunione degli stati maggiori alleati per definire la strategia anti francese). Ma ora si sente rilassato e passa le sue giornate en turiste, compiendo innumerevoli ricognizioni sopra un vasto territorio, e a un certo momento dà ordine alle truppe più esposte verso il nemico di ritirarsi gradatamente senza dare nell´occhio. Il tranello della ritirata: una manovra che si pensava sconosciuta a Napoleone e che ottiene il risultato di risucchiare nel vuoto lasciato dai francesi le avanguardie zariste e austriache. Questo vuoto si materializza come un terreno fortemente collinoso, umido, poco piacevole e come rinserrato su se stesso, dove la vista è bloccata da un andamento panoramico fastidioso. difficile, in mancanza di riferimenti, capire dove uno si trova e questa è esattamente la situazione dei russi. anche il luogo prescelto dall´Imperatore dei francesi per dare battaglia: sessantamila uomini contro i novantamila degli alleati. Subodai, il famoso generale mongolo di Gengis Kan che portò le armate dalle steppe asiatiche fino nel cuore dell´Europa senza mai perdere uno scontro, aveva adoperato a suo tempo la stessa tecnica: sceglieva il terreno più favorevole, lo studiava a fondo e poi attirava il nemico come se quella fosse una autonoma scelta. L´indomani, 2 dicembre 1805, la nebbia fittissima impedisce ai russi di rendersi conto della situazione e a Napoleone di provocare un attacco come ha previsto. Poi la nebbia si alza, arrivano i raggi di un sole pallido, ma che ai francesi sembra quello del Sahara. E la battaglia ha inizio, con Kutuzov ancora contrario ad ogni azione e con lo Zar che gli urla dietro di muoversi; e finalmente i russi avanzano in una grande manovra a semicerchio, mandando avanti il più coraggioso e audace tra i comandanti di cavalleria, il principe Bagration. I francesi contrastano debolmente, ma il fronte russo è troppo vasto e le file cominciano ad assottigliarsi, soprattutto al centro. il momento atteso e previsto dall´Imperatore, che immediatamente lancia in quella direzione il maresciallo Soult nella manovra più importante della giornata, destinata a sfondare la linea russa e a occupare il punto strategico più importante della battaglia: l´altopiano del Pratzen. Tutti i reparti ora si stanno muovendo, si combatte ovunque al di là e al di qua di una immaginaria linea che in realtà non esiste, gli scontri si fanno sempre più duri e è impossibile seguire la battaglia in ogni sua fase. Almeno fino a quando il gran duca Costantino ordina ai suoi reggimenti di élite - i leggendari Prèobrajenski e Semenowski, dove gli ufficiali sono tutti aristocratici e a San Pietroburgo costituiscono la guardia d´onore dello Zar - di dare man forte alla truppa in difficoltà e di lanciarsi in una carica disperata. Anche se disperato non è l´aggettivo adatto per descrivere un cavaliere elegante come quello del Prèobrajenski, che indossa una magnifica divisa tutta bianca, perfetta per contrastare armoniosamente con il manto del cavallo, sempre scuro. Ma a tagliare strada alla carica russa arriva al galoppo la carica francese, preceduta da un nugolo di cavalieri che montano meravigliosi stalloni arabi e roteano scimitarre gigantesche. Sono i mamelucchi della guardia personale dell´Imperatore, e lo scontro si arricchisce di questa scenografia senza pari. La leggenda napoleonica vuole che la guardia sia chiamata sempre per dare il colpo di grazia - infelice compito, per la verità -. In questo caso provoca solo lo sfaldamento dell´esercito alleato, che tenta di manovrare in buon ordine e di ritirarsi senza troppe perdite. E qui l´assoluta non conoscenza del terreno risulterà fatale, perché l´ordine di Napoleone è quello di non dare tregua e così la ritirata si trasforma in rotta, con episodi orribili: interi battaglioni che annegano negli stagni ghiacciati e altri che vengono falciati dalla cavalleria spietata di Murat. A mezzanotte la caccia al nemico in fuga raggiunge il parossismo e solo più tardi, quando passa in rivista alcuni reparti, Napoleone dirà quella frase tanto citata, che sa di ironia: "Soldati sono contento di voi". Stefano Malatesta