La Repubblica 29/11/2005, pag.1-17 Federico Rampini, 29 novembre 2005
L´Oriente invaso da un´Italia non italiana. La Repubblica 29/11/2005. Tokyo. Come si dice un espresso doppio in giapponese? Si dice «espresso doppio»
L´Oriente invaso da un´Italia non italiana. La Repubblica 29/11/2005. Tokyo. Come si dice un espresso doppio in giapponese? Si dice «espresso doppio». Come in cinese, del resto. Idem in coreano. Lo stesso vale per «cappuccino». Una rivoluzione del costume sta minacciando la più antica tradizione che lega tutti i popoli dell´Estremo Oriente: la civiltà del tè perde colpi a Tokyo e a Pechino, a Seul e a Singapore, tra le nuove generazioni asiatiche avanza vittorioso il nostro caffè. E con il caffè conquistano l´Asia una miriade di prodotti e comportamenti quotidiani, tic e stili che definiscono la "Italian way of life". La globalizzazione non è sempre sinonimo di America. Negli indici di audience delle tv cinesi e giapponesi il campionato di calcio italiano rivaleggia con il basket americano. La moda disegnata a Milano e Firenze detta legge almeno quanto i jeans e le Nike. L´Italia è sintomo di raffinatezza nell´arredamento delle case e nella gastronomia. Basta passeggiare poche ore per le vie di Osaka e di Shanghai, di Hong Kong e di Kuala Lumpur per aprire gli occhi di fronte a questo fenomeno: insieme con l´americanizzazione, questo continente del futuro che è l´Asia subisce una evidente, irresistibile, clamorosa italianizzazione. Gli unici a non essersene accorti sono gli imprenditori italiani. Sempre occupati a piangersi addosso, i nostri produttori regalano alla concorrenza straniera l´immagine e i profitti, l´uso e l´abuso del made in Italy. E´ proprio il nostro espresso italiano quello che milioni di camerieri cinesi e giapponesi, coreani e malesi, hanno imparato a preparare a regola d´arte. Caffè e cappuccino sono degli status symbol generazionali e di ricchezza. Non li troverete nelle campagne arretrate ma nelle grandi città. Gli anziani resistono, ma i giovani quando si siedono a un bar non vogliono più vedersi servire l´antico tè verde, profumato al crisantemo o al gelsomino, Oolong o Darjeeling. Vacilla il dominio millennario di un´erba che è molto più di una bevanda: era trasportato lungo la via della seta fin dai tempi di Marco Polo; invase l´Inghilterra e la sedusse a tal punto che l´impero britannico nell´Ottocento soffriva di un cronico deficit commerciale con la Cina proprio a causa del tè (per compensarlo gli inglesi esportavano quell´oppio indiano che fu all´origine di varie guerre contro le ultime dinastie imperiali di Pechino). Il pianeta intero poteva dividersi lungo un confine etnico e geoculturale tra bevitori di caffè e bevitori di tè, ma oggi quella frontiera si sposta rapidamente. Il nostro espresso si è imposto come energetico, tonificante, una frusta di aggressività più adatta alla competizione capitalista. In un recente film di successo cinese un giovane in cerca di fidanzata ricorre alla tecnica americana del "blind-dating", gli appuntamenti alla cieca fissati su Internet: ogni volta incontra la ragazza in un bar e i due ordinano espressi e cappuccini, finché lui ha una crisi da indigestione di caffeina. Una storia simile sarebbe stata incomprensibile per il pubblico locale ancora dieci anni fa. L´imperialismo dell´espresso si è imposto con una guerra-lampo. Peccato che a diffonderlo tra i giovani giapponesi, cinesi e coreani sia stata una multinazionale di Seattle, piovosa città dello Stato di Washington sulla West Coast americana, cioè la Starbucks: la sua insegna luminosa è riconoscibile sulla elegante via Ginza di Tokyo e all´ingresso della Città Proibita di Pechino. Starbucks dilaga come McDonald´s in tutta l´Asia, eppure la sua ricetta è inconfondibilmente italiana, i termini che usa sono i nostri, i camerieri orientali storpiano affettuosamente l´espresso con le loro "erre" dolci. Almeno nell´abbigliamento e negli accessori di lusso abbiamo ancora degli stilisti italiani. A Tokyo il primo segnale della ripresa economica è stata la nuova proliferazione dei negozi di Armani e Ferragamo, Versace e Prada, che dai tradizionali bastioni della Ginza e di Akasaka stanno dilagando in tutti i quartieri della città. I cinesi ricchi non hanno più bisogno di volare fino a Hong Kong nei weekend per vestirsi, i nostri stilisti gareggiano con Vuitton Chanel e Burberrys nell´inaugurare showroom a Canton e Shenzhen, Shanghai e Tienjin. Ma in tutti gli altri settori lo stile italiano è stato abilmente catturato e rilanciato da chi italiano non è. Il boom della Ikea, altro fenomeno globale e generazionale che non risparmia una sola delle grandi metropoli asiatiche, è la storia di successo di un´impresa svedese che arreda le case con un design nel quale l´Italia fu pioniera. Molte forme giovanili ed essenziali che stanno reinventando la cultura dell´abitazione in Asia, vengono vendute da Ikea ma ricordano mode lanciate in Italia trent´anni fa dai grandi nomi come Cassina e Artemide. Ancora oggi i divani della Ikea sono in realtà fabbricati da Natuzzi. Tra i giovani asiatici della middle class urbana, professionisti cosmopoliti, la dieta mediterranea ha il vento in poppa. Ma a Pechino o a Tokyo bisogna fare la spesa nei supermercati francesi Carrefour per trovare gli ingredienti della nostra gastronomia, e non è detto che siano doc: avanzano l´olio d´oliva spagnolo, la salsa al pomodoro prodotta in California, il "parmesan cheese" grattugiato della Kraft. La più grande catena alimentare che popolarizza il mangiare italiano in Cina è Pizza Hut, multinazionale americana. Non un solo imprenditore italiano ha avuto la stessa, banalissima idea: lanciare su scala industriale e globale la pizza come alternativa al fast-food degli hamburger. E´ avvilente assistere alla "colonizzazione" dell´Asia da parte di una Italian way of life brevettata da americani, francesi, svedesi. In altri mestieri industriali possiamo farci una ragione delle nostre debolezze. Germania e Giappone hanno appena venduto ai cinesi 60 treni ad alta velocità per 800 milioni di euro. Noi non abbiamo né la Siemens né la Kawasaki Heavy Industries, e neanche l´alta velocità. Il capitalismo italiano ha perso da tempo la battaglia delle dimensioni globali. Ma questo handicap strutturale che ci penalizza nell´informatica e l´automobile, l´aerospaziale e la farmaceutica, non dovrebbe vietarci anche il business dei supermercati e della pizza. Non c´è bisogno né di un Bill Gates né della capitalizzazione borsistica della Microsoft, per vendere alle nuove generazioni asiatiche il sogno di un appartamento moderno arredato con raffinatezza, e la schiuma morbida che galleggia sul cappuccino. Federico Rampini