Corriere della Sera 26/11/2005, pag.47 Barbara Palombelli, 26 novembre 2005
Attenti all’integralismo, la nuova Piovra. Corriere della Sera 26/11/2005. "Non ho mai fatto parte di alcun partito, né di alcun gruppo
Attenti all’integralismo, la nuova Piovra. Corriere della Sera 26/11/2005. "Non ho mai fatto parte di alcun partito, né di alcun gruppo. Ho sempre vissuto in mezzo ad amici comunisti, rattristato dal fatto che con loro non si potesse mai parlare di quel che accadeva al di là del muro, o nell’Unione Sovietica: la mancanza di libertà laggiù mi sembrava non comprensibile, non giustificabile. Ho pensato che, se fosse vissuto qualche anno in più, Enrico Berlinguer avrebbe preso le distanze dal comunismo realizzato e tradito da Stalin e dai suoi eredi. Aveva cominciato a farlo, negli ultimi viaggi a Mosca, avevo capito che anche lui stava per compiere lo strappo da quel modello, fallito, di società. L’unico uomo politico che io abbia veramente ammirato si chiamava Ferruccio Parri, andavo a sentirlo parlare, quando ero ragazzo, passeggiavo a piedi dalle parti di piazza Cordusio, nella Milano in apparenza vuota e desolata, appena riconquistata dopo la Liberazione. Mi piaceva il Partito d’Azione, un partito che ora non c’è più, ma che – nell’immediato dopoguerra – parlava di libertà, di democrazia, di buongoverno. Fu una breve illusione: Parri fu il primo presidente dell’Italia nuova, ma quando si andò a votare il sogno finì. Davanti all’alternativa fra Democrazia cristiana e partito comunista, capii che nessuno mi avrebbe mai più rappresentato, che la mia idea di democrazia, ispirata all’Inghilterra e agli Stati Uniti non sarebbe mai arrivata nel mio Paese. Oggi, dopo sessant’anni, sono convinto che l’occasione fu persa in partenza, proprio in quei giorni straordinari, entusiasmanti. Invece di guardare all’America, che ci aveva liberato, ci chiudemmo in noi stessi, fra due partiti che non somigliavano a tanti italiani come me, laici, che volevano – finalmente – godersi la libertà ritrovata. L’unico erede di Parri è Carlo Azeglio Ciampi, il nostro presidente della Repubblica". Damiano Damiani è oggi un signore che ama vivere isolato, nella sua bella casa al quartiere Aventino. Mi accoglie al cancello del palazzo, prima di andare nello studio mi porta a vedere i suoi quadri – coloratissimi, sorprendenti – appesi in soggiorno e in giro per le stanze. Il regista che ha firmato il primo film sulla mafia ( Il giorno della civetta, 1968, tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia), diventando negli anni Settanta una garanzia di impegno e di incassi sicuri con Confessione di un commissario di polizia (2 miliardi di lire dell’epoca), poi con L’istruttoria è chiusa: dimentichi e ha dato il via alla vera fiction Rai con le sei ore de La Piovra 1 èun personaggio singolare. Non si schiera fra i due poli: "Non mi pare giusto, né trovo grave cambiare opinione. E’ un segno di libertà. Mi piacerebbe che non si considerassero nemici coloro che hanno opinioni diverse, quanto a me, non sono stato cercato da alcun partito. Tutti sapevano della mia totale indipendenza". Il successo l’ha vissuto con una certa aria di superiorità, forse con il rigore che viene dalle origini friulane, "Sono nato nel 1922 a Pasiano di Pordenone. Mio padre Enzo era incaricato di vigilare sulle coltivazioni del baco da seta, lavorava per un latifondista. Aveva studiato a Bologna e, quando avevo sei mesi, ci trasferimmo in quella città, meravigliosa. Una città che ti abbraccia, che ti vuol bene. Vivevamo al centro, a due passi dalle torri, mio padre mi insegnava ad amare l’Italia, l’idea dell’Unità nazionale, sfogliando le guide rosse del Touring club. Era un fascista tiepido. Ricordo il passaggio di Mussolini, davanti alla basilica di san Petronio, ci portavano con la scuola ad applaudirlo e io gli gridavo: Luce! Luce! Ero piccolo, mi avevano vestito da balilla, ecco vedi? Sono questo bambino qui (mi mostra una fotografia uguale a quella di migliaia di italiani, ragazzini orgogliosi di avere comunque una divisa, ndr). Quando avevo 12 anni ci siamo trasferiti a Milano, papà iniziò a lavorare per la Snia Viscosa e lì ho scoperto tutto: il cinema, i primi film americani, Charlie Chaplin. Forse, ho iniziato ad amare gli Stati Uniti in quel periodo". Il regista ha paura – a tratti – che la memoria lo tradisca, che il passare degli anni confonda i suoi ricordi. Controlla nomi e date, aiutato dalla biografia che gli hanno dedicato la Cineteca Nazionale e il centro Sperimentale, curata da Alberto Pezzotta. Quel ragazzo che sognava di venire a Roma a studiare al centro sperimentale e che invece – per le condizioni familiari precarie – fu iscritto al Liceo Artistico e poi all’Accademia di Brera incontra la politica attraverso un grande dolore. "Mio fratello Francesco, che era specializzato in chimica, partì per la guerra di Spagna come ufficiale di artiglieria, andò a combattere contro i comunisti. Pochi mesi dopo, alla vigilia della presa di Barcellona, fu colpito da una pallottola che gli passò la gola da parte a parte, così (il regista punta il dito contro il collo, per indicare il percorso del proiettile). Lì ho capito anche il dramma di un figlio che, forse, più che per le idee politiche, era partito per dare una mano alla famiglia". Asciutto, brusco e poco indulgente anche con se stesso, il regista si lascia andare a immagini e a frammenti di vita che erano stati chiusi nei cassetti del passato. "L’adolescenza milanese mi fece scoprire che – anche negli anni del regime – c’era uno spazio per la cultura. Incontrai, prima due voci, due nomi che poi diventarono familiari: Alberto Lattuada e Luigi Comencini organizzavano delle proiezioni di film francesi o tedeschi al cinema del Gruppo Rionale Fascista, li presentavano e li spiegavano a noi ragazzi. Devo a quei due ragazzi più grandi tutto il mio amore, tutta la mia passione per le immagini, le storie. Intanto, cresceva la mia distanza dalla ideologia mussoliniana. Mi ero invaghito di una giovane austriaca, viennese. Si chiamava Margareth Schwarz, ma noi amici l’avevamo soprannominata Mausi, topolino. Mi presentò dei ragazzi tedeschi ebrei, fuggiti dal nazismo di Hitler per cercare salvezza a Milano. Eravamo tutti adolescenti, di religioni diverse, chi cattolico, chi luterano, chi valdese: ci ritrovavamo anche a pregare insieme. L’incontro con quei ragazzi ebrei fu l’inizio della mia conversione, si stava insinuando in me una coscienza nuova del mondo che mi circondava. Mi fermo qui: dopo la guerra, avrei potuto partire per aiutare i partigiani, non l’ho fatto. Sono stato nascosto, in casa della mia fidanzata, tutto l’inverno della Repubblica di Salò. Capii che la guerra era finita quando una voce di donna, nel cortile di Brera, cominciò a gridare forte: "L’han ciapà el Mussolini, l’han ciapà anche la sua Claretta, sono in fondo a corso Buenos Aires" Cominciai a correre, vidi quei corpi, quella ferocia. Decisi che avrei raccontato agli altri, a chi non era stato lì, la giornata di piazzale Loreto. L’ho fatto, con un documentario: è un’immagine che mi porterò dentro tutta la vita". Oggi, le passioni e le paure di Damiano Damiani sono riassunte in una storia, in una sceneggiatura che ha un titolo impegnativo: "Un giorno ci riusciremo, ad avere un dio solo". Il regista insegue da anni il progetto di raccontare una storia a lieto fine, una riappacificazione fra due protagonisti di culture e fedi diverse, un arabo e un europeo. Spiega: "Le religioni furono inventate per dare serenità all’uomo, per darci spiegazioni rassicuranti. Sono laico, ma trovo bellissimo il Gesù dei vangeli di Luca e Matteo, quello che dice: ama il tuo nemico, fa’ del bene a coloro che ti perseguitano. Con l’età che avanza, la mia curiosità aumenta. Sai che ci sono dei giorni in cui dico a me stesso: non vedo l’ora di morire per capire dove è nato il cielo?". Lo dice e quasi si commuove, poi si riprende e – accompagnandomi alla porta – confida: "Mi sento circondato da un mondo che è sull’orlo della guerra mondiale per l’incomprensione religiosa. E invece, basterebbe una stretta di mano". Barbara Palombelli