Corriere della Sera 23/11/2005, pag.37 Sergio Romano, 23 novembre 2005
Le grandi speranze deluse di Francesco Saverio Nitti. Corriere della Sera 23/11/2005. Parlando del ponte sullo Stretto lei ha qualificato Francesco Saverio Nitti, con Giustino Fortunato, "grande meridionalista"
Le grandi speranze deluse di Francesco Saverio Nitti. Corriere della Sera 23/11/2005. Parlando del ponte sullo Stretto lei ha qualificato Francesco Saverio Nitti, con Giustino Fortunato, "grande meridionalista". Chi ricorda il rientro dall’esilio dopo l’ultima guerra e la patetica quanto effimera apparizione sulla scena politica, non può condividere la sua opinione su Nitti, anche se – nella tormentata temperie che precedette la Prima guerra mondiale – qualche merito di certo gli va riconosciuto. Oltre tutto, Gabriele d’Annunzio lo gratificò di uno sprezzante nomignolo – cagoia – che gli rimase appiccicato fin quando, andato al potere il fascismo, scelse la via dell’esilio. Ma davvero fu un "grande"? Lorenzo Milanesi, Milano Caro Milanesi, fra gli studiosi e gli uomini politici meridionali, agli inizi del Novecento, Nitti fu certamente una voce nuova. Non aveva la cultura prevalentemente umanistica e giuridica degli uomini che avevano rappresentato il Sud nella generazione precedente. Studiò e insegnò economia politica e scienza delle finanze. Seguì attentamente i processi di modernizzazione dei maggiori Paesi occidentali e cercò d’inserire il Mezzogiorno nello sviluppo dell’Italia giolittiana. I suoi saggi sull’elettrificazione del Sud e su Napoli, per cui auspicava un grande destino industriale e portuale, sono espressione di un Mezzogiorno intraprendente e dinamico, desideroso di uscire dal suo stato di secolare arretratezza. Il libro "Nord e Sud", pubblicato a Torino nel 1900, è un’opera interessante che ebbe più tardi una certa influenza anche sui teorici della Cassa del Mezzogiorno. Quando divenne parlamentare nel 1904 e ministro del Commercio nel 1911, molti italiani videro in lui l’erede progressista della politica che Giovanni Giolitti aveva fatto con maggiore prudenza negli anni precedenti. Come ministro delle Finanze del governo Orlando, dall’ottobre del 1917 alla fine della guerra, rafforzò la sua immagine nazionale e divenne il naturale successore del presidente del Consiglio quando questi fu costretto a dimettersi. Nitti, allora, era un liberale di sinistra, aperto all’intervento dello Stato nell’economia, attento alle esigenze delle classi sociali meno favorite e pronto a dialogare con i partiti che le rappresentavano. Chi meglio di lui avrebbe potuto traghettare il Paese dall’economia di guerra all’economia di pace? Se non riuscì a controllare la situazione e dovette dimettersi un anno dopo, la colpa non fu interamente sua. La legge elettorale proporzionale, votata dopo la fine della guerra, rese il Paese ingovernabile. La sinistra massimalista non volle collaborare con il governo. Gli scioperi, le agitazioni sociali, l’inarrestabile aumento della spesa pubblica, la crisi di alcuni istituti bancari, i grandi problemi internazionali e l’impresa fiumana di d’Annunzio richiedevano una fermezza e una chiarezza strategica che non appartenevano al carattere del brillante intellettuale in cui la politica italiana aveva riposto tante speranze. Il suo fisico (era piccolo, rotondo, con una grande testa incollata sulle spalle) non giovò alle sue fortune. La silhouette di Nitti si prestava al dileggio delle caricature e divenne il bersaglio della satira politica, soprattutto nazionalista e fascista. Lo sprezzante nomignolo di d’Annunzio rimase incollato alla sua persona per molti anni. Nel 1924 lasciò l’Italia e s’installò prima in Svizzera, poi a Parigi, dove fu il protagonista di un animato salotto antifascista. Quando tornò in Italia credette di poter riprendere la sua carriera politica dal momento in cui era stata interrotta e vi fu persino un momento, nel maggio del 1947, quando sperò di succedere a De Gasperi come capo di un governo a cui avrebbero partecipato anche i comunisti. Se vuole leggere un ironico e acidulo ritratto di Nitti nel dopoguerra, caro Milanesi, legga le pagine che gli ha dedicato Giulio Andreotti in "Visti da vicino". Le sue ultime apparizioni furono il voto contro il Patto Atlantico al Senato nel marzo del 1949 e la guida di un Fronte popolare romano alle elezioni amministrative del 1952: due scelte sbagliate in un momento in cui il Paese aveva bisogno di altre politiche. Morì l’anno dopo, all’età di 85 anni. Sergio Romano