Corriere della Sera 22/11/2005, pag.41 Alberto Melloni, 22 novembre 2005
I due volti della tradizione. Corriere della Sera 22/11/2005. "Tridentino" è una parola che nel linguaggio comune ha perso la sua connotazione storico-religiosa, per ripiegare su più comode allusioni turistiche
I due volti della tradizione. Corriere della Sera 22/11/2005. "Tridentino" è una parola che nel linguaggio comune ha perso la sua connotazione storico-religiosa, per ripiegare su più comode allusioni turistiche. E anche quando si sente evocare ciò che uscì dal Concilio Tridentino, aperto nel 1545 e finito, dopo pause e itinerari, nel 1563, è usuale che ciò accada in un contesto fatto di pruriti antipatizzanti contro Papa Roncalli e Papa Montini, declamazioni retoriche che rievocano una età delle certezze, e una nostalgica evocazione di un passato al quale si chiede di fornire asilo in un presente che avrebbe perduto il senso della tradizione. Già, la tradizione: la tradizione senza la quale la Chiesa non può vivere, perché essa esiste nella consegna (la traditio) del messaggio da uomo a uomo, da generazione a generazione, da età ad età. Ma come insegnava il padre Congar, c’è una "Tradizione" maiuscola, che preserva ed affina l’intelligenza della verità, e c’è invece una "tradizione" con la minuscola, che è fatta di approssimazioni nostalgiche con le quali qualche anima vecchia rimpiange modi d’essere della propria gioventù e piange calde lacrime per quella che – al massimo – può essere solo una "tradizione". Al contrario la "Tradizione" in senso forte è fatta di scelte, di intuizioni del tempo e della storia, di discontinuità storiche imboccate coraggiosamente proprio per evitare che, in nome di qualche illusoria perpetuazione, si perda il contenuto più profondo della verità cristiana. Il Concilio di Trento è stato, da questo punto di vista, un atto teso a custodire la Tradizione: custodirla nel momento in cui – per quasi trent’anni prima della sua apertura – i predicatori luterani evangelici portavano a fondo la critica al papismo romano e dunque ponevano l’esigenza di chiarire i punti controversi; custodirla nel momento in cui, dopo l’inutile attesa della riforma della Chiesa nel capo e nelle membra, diventava necessario rimettere ordine in un organismo ecclesiastico sfibrato dall’abuso. Chi dunque – come fanno oggi i circoli lefebvriani – si batte contro la liturgia del Vaticano II in nome del Messale di san Pio V fa quasi sorridere: perché dimentica che quel Messale nacque da un atto di riforma non meno forte, coraggioso, drammatico. Ne rende ragione una immensa opera iniziata da Manlio Sodi e dal compianto Achille M. Triacca e che vede ora la conclusione: i sei volumi dei Monumenta Liturgica Concilii Tridentini (sei tomi, oltre quattromila pagine in vendita a 180 e), infatti, riproducono annotano e studiano ciò che il Tridentino ordinò e ciò che venne da sé. In questa riedizione anastatica, resa preziosa dalla perfezione della Libreria Editrice Vaticana e ancor più dal corredo di note, strumenti, introduzioni, sono infatti usciti il Messale eil Breviario che il Concilio stabilì di produrre. Due volumi identici in tutta la Chiesa latina, che però già allora (1568-1570) aveva dimensioni planetarie: una operazione monumentale, che creava ex nihilo l’uniformità cattolica, ricopriva le secolari e multiformi tradizioni locali (solo il rito ambrosiano si salvò miracolosamente), imponeva un salto di qualità da una pratica liturgica spesso rozza, ampliava l’area di materie sottratte alla decisione e alla dispensa papale. Dopo i primi due tomi, i liturgisti della Pontificia Università Salesiana hanno ristampato anche i libri liturgici che il Tridentino non aveva espressamente comandato (il Martirologio, il Cerimoniale dei vescovi, il Rituale eil Pontificale), ma che erano venuti a chiudere fra il 1584 e il 1614 il cerchio della ritualità romana, fornendo una regola rigida e alta, della qualedannoconto le introduzioni dei diversi curatori dei tomi che presentiamo e i fortunati ritrovamenti che li accompagnano (ad esempio le note manoscritte del cardinal Bellarmino a margine del Rituale Romanum). Come spiegano gli studiosi qui coinvolti, dall’inizio del Seicento alla metà del Novecento tale ritualità tridentina avrebbe avuto più di tre secoli di indiscutibile fortuna, e avrebbe collassato lentamente, man mano che le devozioni alzavano un muro di reciproca estraneità fra il popolo che recitava le "sue" preghiere e la celebrazione dei misteri, divenuti peculio del sacerdote: il crollo di quel muro sarebbe stata l’altra grande riforma conciliare della liturgia, quella del Vaticano II, alla quale l’antenata cinque-seicentesca oggetto di tali studi rigorosi può insegnare qualcosa. Giacché una Chiesa che non sappia mantenere la vitalità del proprio pregare non può che compromettere anche il proprio credere: e d’altronde, proprio mentre incide nella carne viva delle abitudini per salvare questa equivalenza ("lex orandi, lex credendi" diceva un famoso adagio), smaschera le inerzie, irrita le pigrizie. Un’opera di erudizione come sono questi Monumenta lo ricorda, per un tempo ormai lontano, ma anche per il tempo prossimo. Alberto Melloni