Guido Olimpio Fondazione liberal, febbraio-marzo 2003, 29 novembre 2005
George senior fu risoluto in politica estera, ma dimenticò l’economia, Fondazione liberal, febbraio-marzo 2003 la fine di gennaio 1991
George senior fu risoluto in politica estera, ma dimenticò l’economia, Fondazione liberal, febbraio-marzo 2003 la fine di gennaio 1991. Da poche ore le truppe della Grande coalizione si sono lanciate nella guerra-lampo che libererà il Kuwait, occupato dalla Guardia di Saddam Hussein. Nell’ovattata camera da letto di George Bush senior trilla la radiosveglia. Ore 5.30. L’emittente preferita del presidente, ”Musica Country e Western”, manda in onda a ripetizione Non ci dare una ragione, canzone che irride il raìs di Bagdad promettendogli una dura lezione. Bush si alza e s’attacca al telefono, chiama la situation room, la sala che segue minuto per minuto le operazioni belliche. Primo rapporto: l’offensiva sta andando bene. Per il presidente è il momento di una frugale colazione. Una tazza di caffè, un mezzo pompelmo, niente dolci. Poi si reca a messa con la moglie Barbara. Che racconta: «Il presidente è calmo, fermo, meraviglioso... Passa molto tempo al telefono». Un amico confida: «Sostiene che il conflitto non gli ha rubato il sonno. Dorme come un ghiro». Una tempra da guerriero. Non tradisce il nervosismo di altri capi della Casa Bianca, torturati da notte insonni e dai dubbi. «Se ha avuto dei tormenti - scriveva un commentatore - se li è tenuti per sé. Non c’è nessuno, amico o nemico che l’abbia visto incerto o irresoluto». Giudizio che ribalta quelli espressi mesi prima da mute di critici. «un mollaccione», avverte il settimanale ”Newsweek”. Peggio, graffia un avversario, «è un cagnolino da salotto». I giornalisti che fanno parte del ”circo” della Casa Bianca si scatenano nel prenderlo in giro sull’uso disinvolto della grammatica. Contano gli strafalcioni, sottolineano con la matita rossa gli errori, battezza Bushspeak un linguaggio infarcito di metafore incomplete e perifrasi incomprensibili. Ma uno studioso, Alistair Cooke, sostiene che in realtà le espressioni scorrette finiscono per renderlo simpatico agli americani, che pensano: « più simile a noi». Altri dubitano persino delle sue capacità decisionali: «Preferisce sempre il compromesso al combattimento». E vanno a scavare nel suo passato militare. All’epoca del secondo conflitto mondiale George Bush studiava al liceo, la Phillips Accademy, ad Andover (Massachusetts), scuola di impronta britannica. Neppure diciottenne decide di arruolarsi volontario. Diventa pilota della Marina, è abbattuto due volte nel Pacifico. Nel corso della campagna elettorale del 1988 i reporter-segugi cercano testimonianze sul secondo scontro, quando davanti alle isole Marianne, settembre ’44, il suo aereo precipita in fiamme. Nell’impatto muoiono i due compagni. Spunta una testimonianza di un ufficiale che getta ombre sul futuro presidente. I suoi amici fanno quadrato e i più ricchi si offrono di finanziare il recupero dei relitto dell’aereo per aiutare George sr. a fare chiarezza. Ma i colpi bassi, con i soldati impegnati nel deserto kuwaitiano, hanno l’effetto delle punture di spillo. Bush sembra padroneggiare la crisi. Gli americani, in quei giorni, vedono in lui «il condottiero che cancellerà la sindrome del Vietnam». Li convince con un pacchetto di idee e valori, la «filosofia comune». Dalla presidenza, dicono, «emana un senso di sicurezza e fiducia». Bush coltiva questa immagine sforzandosi, pur nell’emergenza della crisi nel Golfo, di non rompere con la normalità. Alla Casa Bianca la giornata è scandita da un rituale preciso. Dopo il breakfast, riunione con gli stretti collaboratori nello Studio ovale. Alcuni si ritrovano oggi seduti sugli stessi morbidi divanetti. Come l’allora ministro della Difesa Dick Cheney - adesso numero due - e il capo di Stato maggiore Colin Powell, diventato segretario di Stato. La riunione si apre con il briefing della Cia: Bush, che ha guidato l’agenzia di spionaggio, ascolta con attenzione, con l’orecchio del professionista. Lavoro duro, impegno, senza però rinunciare da buon americano al week end. «Per lui è sacro», spiega un assistente. E Bush raggiunge, malgrado la guerra, la residenza di Camp David. Ricerca della tranquillità che nasconde un messaggio per i suoi. Continuate a vivere normalmente. Al suo fianco c’è spesso il predicatore Bill Graham, un consigliere spirituale molto influente. Alla sera, prima di coricarsi, George e la moglie si raccolgono in preghiera per invocare la protezione del Signore sui Marines nel Golfo. La fede diventa un aiuto nei momenti di tensione. Il quotidiano francese ”Le Monde” lo definisce «un nobile educato con raffinatezza, al quale i genitori hanno insegnato che è di cattivo gusto mettersi m mostra e voler recitare la parte del protagonista». Se serve manda le buone maniere in soffitta. Un giorno al Congresso Bush sorprende tutti affermando: «Prenderò Saddam a calci nel sedere». Il presidente si impegna per migliorare l’immagine sui media. I giornalisti non fanno sconti: quando pronuncia il suo discorso sulla guerra i critici lo definiscono «piatto». Per questo Bush privilegia gli incontri con i reporter. In due anni ha tenuto qualcosa come 91 conferenze stampa e appena 5 discorsi. Un comportamento che piace. Dopo appena una settimana di conflitto i sondaggi lo proiettano in alto. Il 75 per cento degli intervistati approva le operazioni militari, l’82 per cento si dichiara soddisfatto della sua politica. Il presidente guerriero rassicura i compatrioti, sembra dare un futuro con la costituzione del «Nuovo ordine mondiale». Non la pensano così in tante altre parti del globo. Un’inchiesta condotta nel gennaio in Francia rivela che il 22 per cento dei francesi è con Bush e il 22 per cento con Saddam. Anche il colonnello libico Muhammar Gheddafi, in uno dei suoi colorati interventi, lo liquida così: «Sono tutti pazzi». Il papa, Giovanni Paolo II, attacca con decisione l’opzione bellica ritenuta un affronto al diritto internazionale. I governanti cinesi esprimono «diffidenza», ma devono fare i conti con l’umore dei cittadini, tutti affascinati dai «Rambo americani». I russi tentano di salvare il loro vecchio amico Saddam cercando una missione-recupero in extremis, però Bush li batte sul tempo fissando un ultimatum che rende impossibile agli iracheni di «sfuggire alla punizione». L’abilità con cui George Bush gestisce ”Tempesta nel deserto” gli vale il plauso degli esperti di strategia. Harry Summers scrive: «Se la campagna militare producesse molti caduti americani, la gente non chiederebbe al presidente di fermare le truppe, bensì direbbe: «Sganciamo l’atomica». Sul muro del consenso appaiono, man mano che il Nemico Saddam svanisce, le prime crepe. I fedelissimi di Ronald Reagan lo accusano di «tradimento», diffidano della «elite di tecnocrati» che controlla Washington. I democratici lo incalzano: «Si sente un imperatore». E l’imperatore è consacrato dal settimanale americano ”Time” come «l’uomo dell’anno». Ma con una particolarità. Bush assomiglia a Giano, è bifronte. In gamba quando si misura all’estero, insoddisfacente tra le mura americane. I commentatori apprezzano «la sua visione sulla scena internazionale» e denunciano «l’inazione vacillante» negli Stati Uniti. Scrive ancora ”Time”. «Da un lato un profilo in politica estera che è un esempio di determinazione e maestria, dall’altra un volto interno caratterizzato da irrisolutezza e confusione». Il settimanale sostiene che Bush ha fatto da «levatrice» al nuovo ordine mondiale - che in realtà non vi sarà - avendo un «un impatto decisivo». Ruolo che smarrisce una volta alle prese con i problemi casalinghi dell’America: «La sua condotta è sconcertante, a tratti ridicola». E gli osservatori ne individuano il motivo nell’educazione del presidente. « stato addestrato per condurre la diplomazia su scala mondiale» ed è questo che lo appassiona mentre le questioni interne «non lo divertono». L’analisi di Time coglie nel segno. Piegato l’Iraq senza aver eliminato Saddam, lanciata la prima iniziativa di pace - la Conferenza di Madrid - tra israeliani e palestinesi, Bush il condottiero cade nella trappola americana. Convinto di avere la riconferma in tasca, il presidente non fa i conti con l’economia. Gli elettori gli volteranno le spalle. Guido Olimpio