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 2005  novembre 28 Lunedì calendario

Alla Royal Academy di Londra gli dèi degli aztechi hanno mani artigliate e bocche di coccodrillo, al posto del fegato un grosso fiore tropicale appena sbocciato, Weekend Viaggi, febbraio 2003 La Royal Academy, nella bella sede palladian-style di Piccadilly road, davanti a Fortnum & Mason (celebre drogheria dove si possono trovare enormi ampolle di giardiniera che sembrano confezionate dall’Arcimboldi, così come minuscoli dolci al cacao in infinite, eccentriche variazioni), ha allestito l’esposizione più grandiosa e completa mai dedicata agli aztechi: 359 reperti provenienti dai musei di tutto il mondo, da Vienna a Washington, passando per Pietroburgo e naturalmente Città del Messico

Alla Royal Academy di Londra gli dèi degli aztechi hanno mani artigliate e bocche di coccodrillo, al posto del fegato un grosso fiore tropicale appena sbocciato, Weekend Viaggi, febbraio 2003 La Royal Academy, nella bella sede palladian-style di Piccadilly road, davanti a Fortnum & Mason (celebre drogheria dove si possono trovare enormi ampolle di giardiniera che sembrano confezionate dall’Arcimboldi, così come minuscoli dolci al cacao in infinite, eccentriche variazioni), ha allestito l’esposizione più grandiosa e completa mai dedicata agli aztechi: 359 reperti provenienti dai musei di tutto il mondo, da Vienna a Washington, passando per Pietroburgo e naturalmente Città del Messico. Sala 1: dio del vento Nella sala introduttiva, la prima di undici che seguono un percorso didattico-tematico, ti dà il benvenuto la grande statua di Ehecatl-Quetzalcoatl, dio del vento. riconoscibile, nel vasto olimpo azteco antropomorfo, dalla sporgente bocca a forno (quasi da coccodrillo) che simboleggia la facoltà di scatenare tempeste o refoli con un soffio. In fondo alla sala, uno schermo mostra la veduta aerea virtuale di Tenochtitlán, capitale azteca. Fu fondata là dove, come vaticinato, un’aquila si posò su un cactus, in riva al lago Texcoco, da una tribù nomade della regione di Aztlán. Di qui il termine «aztechi». Sull’altipiano ora c’è Città del Messico. Il lago è stato prosciugato durante la dominazione spagnola. I conquistadores di Hernán Cortés restarono allibiti da Tenochtitlán (oltre 200mila abitanti), tra alteri palazzi di pietra, canali e un brulicare di commerci in strada: compreso un rimedio dermatologico a base di sterco. Ma l’ammirazione è sentimento estemporaneo, passato il quale i colonizzatori posero fine alla più grande civiltà amerindia, fiorita nel 1300-400 dopo Cristo. Sala 2: l’archeologia.  dedicata ai predecessori la seconda sala: Maya, Toltec... La loro eredità fu valorizzata e custodita al punto di far considerare gli aztechi «primo popolo dedito all’archeologia». I reperti sono i più antichi. Una coppa dove è dipinto un sacerdote vestito da dio della pioggia, che impugna il coltello per un sacrificio propiziatorio di perturbazioni, risale al 450-500 e introduce all’aspetto, tristemente celebre, dell’omicidio rituale. Più recente un bassorilievo di pietra lavica, età compresa tra il 1000 e il 1300: proviene dalla piramide di Tula e raffigura un’aquila che becca un cuore, cibo degli dèi. Tula era il principale insediamento Toltec. La piramide dominava Tula. Il Templo Mayor dominerà Tenochtitlán. Sala 3: gli uomini Nella terza sala, figure umane. Tra le statue in stile naturalistico, un nudo femminile: è la Venere di Tetzcoco. Nel torace ha una cavità dove veniva posto un cuore di pietra (ma nessun riferimento alla crudeltà), ciocche di capelli veri venivano attaccati alla cute della statua, tipo parrucca. C’è poi la scultura di Nanauatzin (Il-ricoperto-di-pustole), divinità che testimonia il rapporto con un aspetto della figura umana: la deformità (lei stessa era affetta da sifilide, malattia che sarà esportata in Europa dai colonizzatori). I disabili erano accuditi dagli aztechi finché si verificava un’eclisse: e allora (pare) li uccidevano per favorire il ritorno del sole. Altra statua, un giovane con impressionanti occhi rossi: ha forse bevuto il pulque, alcolico fatto con cactus e piante allucinogene? Sala 4: la natura La quarta sala richiama il mondo animale e naturale. Tutto, per gli aztechi, era soprannaturale. Anche il naturale. E ogni divinità aveva una manifestazione zoomorfa. L’imperatore Montezuma possedeva un giardino zoologico privato. Un grosso rospo di pietra ricorda quelli del parco del Castello di Belgioioso. Simboleggia la pioggia, perché il rospo compare al tramonto nei giorni piovosi. Un cactus di pietra è del tipo usato per delimitare le proprietà agricole. Ci sono anche quattro serpenti acciambellati. Il serpente era venerato perché, cambiando pelle, si considerava foriero di rinascita e propiziava il ciclo semina-raccolto. Una pulce in pietra, alta quasi mezzo metro, presenta particolari da studio anatomico. Un cane è scolpito seduto sulle zampe posteriori, e sembra stirarsi allungando il collo. Il cane non faceva solo la guardia, guidava anche i morti nell’oltretomba. Simulacri canini venivano dunque posti accanto ai cadaveri. Il coyote era la bestia sessualmente potente per eccellenza. Il coniglio era il simbolo dell’ubriachezza (come per noi la scimmia). Dal giaguaro, predatore più temuto, prendeva nome l’élite guerriera. Sala 5: gli dèi della vita La quinta sala espone raffigurazioni degli dèi della vita: senza il loro aiuto la pioggia non cadeva, le coltivazioni non si sviluppavano, tutto andava in rovina. I sacerdoti si vestivano con paramenti che li evocavano: e non di travestimento sarebbe corretto parlare ma di trance sciamanica. La statua di Tlalóc, dio della pioggia, ha occhi esoftalmici, all’infuori cioè, e denti a zanne. Divinità importantissima, Tlalóc divide la dedica del Templo Mayor col dio supremo azteco, Huitzilpochtli (cui nel 1486 furono sacrificati settantamila prigionieri). Una grande zucca in pietra serviva a custodire le pelli delle vittime dei sacrifici che venivano scuoiate: i sacerdoti le indossavano, per venti giorni, prima della stagione delle piogge, per la germinazione della semina invocando Xipe Totec (Nostro-Signore-dello-scuoiamento). E qui sono sei statue di Xipe Totec. Sala 6: gli dèi della morte Gli dèi della morte si trovano nella sesta sala. La morte e la vita erano, per gli aztechi, facce della stessa moneta. L’una foriera dell’altra. La morte è passaggio, rigenerazione, non estinzione. Quella migliore è violenta: in battaglia, o durante un sacrificio, per gli uomini; nel parto per le donne. A chi così moriva l’aldilà era più lieve e di tipo superiore, anche come collocazione topografica. L’Ade inferiore comportava qualche afflizione, ma non punizioni, come il nostro inferno. Il primo si chiamava Topón, il secondo Mitclán. Tra i reperti della sesta sala, due sculture dei Chiuateotl, spiriti delle donne morte di parto che di notte insidiavano gli uomini spingendoli all’adulterio: una ha occhi sbarrati e denti in fuori, l’altra tiene in testa una corona di piccoli teschi (in effetti l’adulterio era punito con la pena capitale). Sala 7: religione Bellissimo un altare che ha su ogni lato un animale notturno: civetta, scorpione, pipistrello e ragno. Siamo nel fulcro del culto azteco, sala sette: preti, religioni e calendari. Gli dèi hanno creato l’umanità. In cambio, chiedono sacrifici, cibo e la loro bevanda preferita: cuore e sangue. Senza sacrifici la vita si estingue. Le vittime prescelte (onoratissime dalla sorte?) erano portate sulla sommità del Templo Mayor. E adagiate sull’altare dove veniva loro aperta la cassa toracica e tolto il cuore pulsante che, col sangue, veniva messo in contenitori detti cuauhxicalli. Le vittime si catturavano anche durante complesse battaglie rituali tra le popolazioni confinanti («Gli aztechi erano vicini terribili!» ha ironizzato un quotidiano londinese): «Battaglie floreali» venivano chiamate per i variopinti costumi indossati. Si tenevano solo in certi periodi dell’anno, mai di notte né durante la semina o il raccolto. Il calendario laico azteco contava 365 giorni, quello sacro 260, il secolo era di 52 anni. I sacerdoti offrivano il proprio sangue in cerimonia perforandosi lobi, naso e genitali con grosse spine di cactus. Un coltello sacrificale in pietra affilata ha il manico in legno che raffigura Tonatiuh, uno degli dèi del sole. A lui si facevano sacrifici per mantenere il ciclo tramonto-alba. I sacrifici potevano avere altre modalità. Per invocare Tonatiuh, per esempio, la vittima si poteva mettere al rogo. O annegare per ingraziarsi il dio dell’acqua. O trafiggere con tante frecce che gli facevano zampillare il sangue per il dio della pioggia. Dopo il sacrificio il corpo era scagliato giù dal tempio. Sala 8: Gli status symbol Il cartello «Status symbols» segna l’ingresso nella ottava sala. Ci sono ceramiche policrome con motivi geometrici (cui si ispira la pittura di Keith Haring). In tali raffinati manufatti, le classi alte bevevano cioccolata o afrodisiaco, secondo necessità. Nella società azteca, rigidamente stratificata, le persone importanti si distinguevano, oltre che nel vasellame, negli ornamenti del vestiario. I sandali erano status symbol e difatti li indossano gli dèi dell’iconografia scultorea e pittorica. I ricchi vivevano in complessi residenziali di pietra, tra oggetti finissimi. Quelli in oro non sono sfuggiti alle razzie dei conquistadores. Ma l’oro era considerato dagli aztechi il più vile dei materiali nobili, «sterco degli dèi». Anelli, pendagli, pettorali, nel prezioso metallo, sono comunque sfuggiti ai predatori e giunti fin qui. Se non sobria, la società azteca era severa. I bambini erano allevati in modo spartano: li si puniva mettendoli ad affumicare per qualche secondo su un fuoco, alimentato con legna e peperoncini piccantissimi. Sala 9: il Templo Mayor Il Templo Mayor, centro dell’universo azteco, era una piramide fatta a blocchi degradanti verso la vetta, dove si trovavano due picchi gemelli. Era ricoperto di stucco e dipinto. C’erano sculture di serpente sparse nei vari angoli, e bracieri. Alcuni dei seimila oggetti ritrovati sono custoditi nella nona sala della mostra. La fondazione risale al 1325. I due picchi erano dedicati a Huitzilopochtli, divinità del sole e del fuoco, e a Tlalóc, dio della pioggia. Sei volte il tempio fu ampliato, durante i due secoli del fulgore azteco. Si pensava che il Templo Mayor fosse stato trasformato nella cattedrale di Città del Messico e tutti lo davano per definitivamente scomparso. Nel 1978, gli operai che facevano lavori di mantenimento alla rete elettrica scoprirono una statua della dea della luna. Ripetuti sopralluoghi svelarono i resti del tempio sepolto. Il quale doveva rappresentare la ”montagna del serpente”, dove il dio del sole aveva sconfitto quello della luna. Impressionante la statua dell’uomo aquila, una delle due esistenti. Ci sono inoltre vari modellini di tempio, anche con teschi sulla sommità. Ma più impressionante di tutte è la statua di Mictlantecuhtli, dio della morte: la cassa toracica affiora sulla pelle e da essa pende il fegato, come un grosso fiore tropicale sbocciato. Di lì la vita se ne va... Gli aztechi consideravano il fegato sede dello spirito, dunque della vita, perché pieno di sangue. La testa era sede del destino e il cuore della coscienza. Le mani del dio della morte sono, naturalmente, grandi e artigliate. Tra i reperti del Templo Mayor, sei coltelli sacrificali decorati con volti umani. Elaborati, e molto belli, i bracieri teomorfi. Uno, mai esposto perché appena scoperto, rappresenta la dea della nutrizione e ha braccia con mani che impugnano ciascuna due pannocchie. Bracieri di queste dimensioni servivano a profondere per tutta Tenochtitlán fumo e profumo di incenso. Sala 10: codici e tesori Tesori e codici nella penultima sala: ma gli aztechi sapevano scrivere? La loro lingua, il nahuatl, era solo orale. Furono alfabetizzati dagli spagnoli, in cattività. I loro codici, in pelle di daino o corteccia di fico, erano fioriti di immagini, realizzati da scribi e letti dai sacerdoti. Ricordano i rotoli egizi di geroglifici ma sono a scorrimento e vanno piegati, non arrotolati. Gli spagnoli introdussero scrittura e carta. Esempio della contaminazione, il Codex Mendoza: la storia dell’impero azteco in castillano. Nella sala, tra gli altri, c’è il Codex Cospi, uno dei rarissimi preispanici ancora esistenti. Tra i tesori, uno specchio di ossidiana, cornice in legno dorato (che pur essendo circolare ricorda il quadro di Malevic Quadrato nero). Di colore nero, l’ossidiana ha potere riflettente. Gli specchi neri servivano a osservare le eclissi senza danneggiarsi la vista. E poi: scudi, un portagioie di granito, maschere, orecchini e fischietti zoomorfi. Sala 11: la decadenza Esempio di contaminazione con la cultura cristiana, nell’ultima sala, un piatto tripode con l’aquila che però non ha più una sola testa ma due come quella, bicipite, degli Asburgo. Allo stesso modo, il giaguaro diventa leone, animale prima ignoto. L’impronta azteca si fa impercettibile in una cultura ormai annientata. Città del Messico prende il posto di Tenochtitlán che cade tra il 1519 e il 1521. Come sempre, quando una civiltà vince l’altra, il nuovo padrone è alieno da ogni spirito di conservazione. Le pietre dei luoghi di culto vengono usate come materiale edile, con le statue si riempiono i canali. Intanto, gli aztechi sono sterminati dalla fatica dei lavori forzati e dalle malattie sconosciute portate dai conquistadores. Tra i manufatti che testimoniano l’èra del passaggio, paramenti da chiesa, come una mitra con ricamato, in minutissimo motivo, un ciclo religioso cristiano. E un grande crocifisso in pietra, 1600 circa, con Cristo dai tratti aztechi e però anche barbuto, che accompagna l’uscita dei visitatori dalla mostra. E degli aztechi dalla storia. Antonio Armano