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 2002  dicembre 28 Sabato calendario

Lo strano caso del dottor Isotta e di mister Esposito, il Giornale, 28/12/2002 Il vero nome di Paolo Isotta potrebbe essere Gennaro Esposito

Lo strano caso del dottor Isotta e di mister Esposito, il Giornale, 28/12/2002 Il vero nome di Paolo Isotta potrebbe essere Gennaro Esposito. Intendiamoci, non ci sono prove ma solo indizi, per quanto molteplici e concordi. Che dietro alla raffinata firma wagneriana del critico, anzi del criticone musicale del ”Corriere della Sera”, si nasconda la più popolare, per non dire la più folcloristica, delle identità napoletane, è un sospetto che nasce da almeno tre segnali. Il primo è la superstizione. Isotta/Esposito è uomo sensibilissimo al tema della iettatura, che il luogocomunismo collega da sempre alla città di Napoli. Pare che stia scrivendo un saggio sull’argomento, atteso con ansia dai giocatori del lotto. In sua presenza è meglio non citare il concittadino Luciano De Crescenzo, disprezzato in quanto divulgatore facilotto e autore di una battuta neoilluminista che a un oscurantista come Isotta suona pericolosa: «La superstizione porta sfortuna a chi ci crede». Assolutamente proibito fare il nome di Mario Praz, l’elegante saggista attorno al quale i non eleganti hanno costruito una fama di iettatore patentato. Visto che non è presente e sperando che non ci legga osiamo dire che fra il nostro eroe e l’autore di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica ci sono palesi punti di contatto. Anzi, ci inoltriamo ad affermare che per quel suo gusto della divagazione erudita, per quel suo rigore marezzato di eccentricità, Paolo Isotta è il Praz della critica musicale italiana. Secondo segnale: le piazzate. Pur autodefinendosi figlio e nipote e pronipote di medio-borghesi napoletani, in certe sue uscite pubbliche denuncia una stretta parentela con le donne strepitanti che secondo la nota oleografia affollano i vicoli dei quartieri spagnoli. Quest’estate, alla prima del Rigoletto allestito da Sgarbi a Busseto, gridò all’indirizzo della direttrice d’orchestra la seguente frase: «Ti vorrei chiavare tutta la notte». Nel teatro era presente Lina Sotis che dovette scusarsi, a nome del ”Corriere”, con un pubblico a dir poco esterrefatto. Terzo segnale: i proverbi in vernacolo. Nel bel mezzo di una delle sue dottissime dissertazioni infarcite di maiuscole, locuzioni latine, nomi di baritoni dell’Ottocento, cognomi di direttori d’orchestra lituani, aggettivi desueti che costringono a continue consultazioni del vocabolario, capita che piazzi un proverbio in napoletano stretto, quasi sempre di natura oscena, di quelli che potrebbe capire solo un anziano venditore ambulante di Forcella (tipologia di commerciante che segue la critica musicale del ”Corsera” piuttosto di rado). Un Pessoa sotto il Vesuvio Insomma, se lo chiamano Gennaro Esposito non può proprio lamentarsi, si vede che se l’è cercata. Lui stesso ha confessato in una minibiografia dettata al ”Foglio”: «Paolo Isotta non esiste. è un personaggio immaginario». Questa volta bisogna prenderlo sul serio, la conferma viene dagli elenchi telefonici: Isotta è un raro cognome veronese a cui non sono intestate utenze né a Napoli né in nessun’altra località meridionale. Resta incerto se il musicologo Esposito, per il proprio nome d’arte, si sia ispirato alla Isotta Fraschini, automobile elegante degli anni Venti («elegante» e «anni Venti» possono ben descrivere la sua prosa) oppure al Tristano e Isotta di Wagner, logorroico, sfiancante melodramma di amore e morte (anche qui circolano un paio di aggettivi che cascano a fagiuolo). Scrive Roberto Cotroneo che, nel 1982, l’uomo che a questo punto non si sa più come chiamare pubblicò un libro intitolato Mia madre l’oca (sic) firmandolo Giulio Barattieri. Fosse vero avremmo di fronte un Pessoa della musicologia vesuviana, affratellato con lo scrittore portoghese non solo dalla mania degli pseudonimi ma anche da un idem sentire reazionario: borbonico l’uno, sebastianista l’altro. E chissà perché Barattieri... Sarà da intendersi nell’accezione dantesca di «dedito al peculato» o per quella altrettanto obsoleta di «baro, truffatore, imbroglione»? Può darsi perfino che c’entri (seppure con grafia un po’ diversa) il generale Barattieri, disastrosamente sconfitto ad Adua. Perché Isotta ama atteggiarsi a uomo finito, a «ultimo superstite di tremila anni di civiltà europea prima che l’età della tecnica e la democrazia avessero la meglio», secondo la definizione di Pietrangelo Buttafuoco. Come un personaggio così curioso, e di nessun potere se non verbale, sia divenuto l’imperdonabile per eccellenza della sinistra musicale italiana è da ascriversi alla lunghezza della coda di paglia di quella mefitica congrega. Nono, non attaccare Giusto due anni fa Isotta scrisse un articolo contro il defunto Luigi Nono, musicista cacofonico ma soprattutto bisuocero (di Nanni Moretti e Massimo Cacciari). Mal gliene incolse, si vide arrivare nei denti un manifesto firmato da qualche dozzina di prefiche culturali che dopo aver applaudito titoli come La fabbrica illuminata, Non consumiamo Marx, Al gran sole carico d’amore auspicavano la reclusione in manicomio del critico colpevole di lesa maestà. Ci si misero in tanti, da Edoardo Sanguineti a Franco Piperno, e già che c’erano lo incolparono anche di elitismo, di citazionismo, di passatismo toponomastico (si ostina infatti a chiamare Lutezia la città che tutti da molti secoli chiamano Parigi). Le rimostranze sono quasi sempre di natura ideologica, possedendo Isotta titoli ineccepibili: studi musicali al Conservatorio di Napoli con uno dei più grandi insegnanti di pianoforte del Novecento, Vincenzo Vitale, studi paralleli di Filosofia e Diritto romano, buone e precoci lettura (Mann, Joyce e Flaubert già al tempo dei calzoni corti), e poi venticinque anni di insegnamento, dieci libri su argomenti storico-musicali... Molti nemici vip Le prefiche firmatarie non l’avevano pensata male, per liberarsi di un uomo così indubbiamente competente l’unica era buttarla sullo psichiatrico (ma non era stata la sinistra a volere la chiusura dei manicomi?). Isotta a queste levate di scudi è abituato. Nel lontano ’79 riuscì a resistere a un pronunciamento ben più pericoloso, visti i tempi e i firmatari. Anche quella volta trattavasi di manifesto reclamante la sua cacciata dal «Corrierone», ma dietro non c’erano poeti sfiatati capi potoppini ridottisi a fare gli assessori comunali. Quell’anno aveva contro la Cultura tutta, ovvero (si cerchi di non ridere) Gae Aulenti, i fratelli Taviani, Luca Ronconi e Maurizio Pollini (che insieme ad Abbado è uno delle sue pluridecennali bestie nere, anzi rosse). A onor del vero i suoi nemici non sono solo di sinistra. Non conosciamo le preferenze politiche di Renato Bruson ma si suppongono squisitamente musicali le motivazioni per cui il corpulento baritono si avventò un giorno contro il critico, tentando di strozzarlo. Stava per soccombere ma fu salvato da un paio di nerboruti attrezzisti. Anche lui, quando il divario fisico non è eccessivo, sa essere svelto di mano (e di piede). Un giorno, a Capri, prese a calci il giornalista dell’’Espresso” che aveva osato scrivere una recensione non del tutto positiva del suo ultimo libro. In quell’occasione non fu certo il nobile Isotta ad agire da guappo, la colpa è senza dubbio da ascrivere al plebeo Esposito. Dottor Jekyll e mister Hyde, più o meno. Resta incredibile la violenza che si nasconde dietro le quinte della musica classica, che ai profani evoca solo sentimenti sublimi e rarefatti. Ma è lo stesso critico a mettere in guardia: «Quel mondo di mezze calzette che è l’ambiente lirico, percorso da rancori e passioni, narcisismi e crudeltà, pettegolezzi...». Un tipo maiuscolo Da piccolo avrebbe voluto fare il direttore d’orchestra ma poi, sfumata anche l’ipotesi di diventare un grande pianista, si rassegnò a seguire il Fato che lo voleva Imperdonabile per la Sinistra e Incomprensibile per la Totalità (in questa frase sono piovute molte maiuscole sotto l’influsso del maestro, anzi Maestro, che ne mette due ogni tre parole, anche quando scrive della Mamma, anche se quella Mamma non è la sua). Va detto che da qualche tempo il mito della sua incomprensibilità si è incrinato. Da quando cioè Franco Cordero si è messo a scrivere fittissime lenzuolate su ”Repubblica” dove le uniche parole decifrabili sono «Berlusconi» e «carcere». Isotta soffre, si sente defraudato, non concepisce che qualcuno possa scrivere ancora più complicato di lui. Soprattutto teme che qualche malaccorto possa crederlo incamminato sulla strada della divulgazione. Bisogna rassicurarlo: i suoi articoli sul ”Corsera” restano un grande esempio di prosa esoterica, tenebrosa per forma e contenuto. Se uno non ha letto l’opera omnia degli espressionisti della Magna Grecia, dei Vittorio Imbriani, dei Petruccelli della Gattina, continua a trovare la sintassi isottiana impenetrabile come una foresta equatoriale affrontata senza machete. Se uno non ha studiato a fondo il suo antico saggio su Rossini e il suo recente Mahler e la rappresentazione materialistica del dolore seguita a non capire buona parte dei riferimenti. Isotta è sempre lui, quello che scrive i pezzi ancora a mano perché aborre qualsiasi innovazione successiva alla penna d’oca, quello che senza fazzoletto bianco spumeggiante fuori dal taschino non esce nemmeno di casa, quello che al suo cane bassotto parla solo in tedesco. è sempre lui fino a quando un incauto non lo contraddice e allora sono guai, si trasforma, perde l’aplomb da signorino napoletano dei quartieri alti e comincia a gridare oscenità irripetibili. Ma quello non è più lui, quello è Gennaro Esposito. Camillo Langone