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 2005  novembre 13 Domenica calendario

Alain Ducasse. La Repubblica 13/11/2005. A chi lo rimprovera di essere un capitano d’industria, manager d’alta finanza (e d’alta cucina), preparatore di uomini piuttosto che di potage e patè lui risponde che a Maranello non era Enzo Ferrari a mettere i bulloni alle sue ”rosse”

Alain Ducasse. La Repubblica 13/11/2005. A chi lo rimprovera di essere un capitano d’industria, manager d’alta finanza (e d’alta cucina), preparatore di uomini piuttosto che di potage e patè lui risponde che a Maranello non era Enzo Ferrari a mettere i bulloni alle sue ”rosse”. Eppure Alain Ducasse – cinquant’anni l’anno prossimo, chef tra i più famosi al mondo e senz’ombra di dubbio il più brillante del pianeta con dieci Stelle Michelin in Europa e cinque Mobil Stars negli Usa, appuntate su una galassia, in oltre venticinque anni di attività, di trentatré indirizzi fra ristoranti, relais, hotel e scuole di formazione – di mestoli negli impasti e di coltelli nelle pieghe dei suoi sformati ne ha infilati moltissimi. Fin da bambino, quando trascorreva ore nella grande cuisine di nonna Jeanne, colpito da attrazione odorosa («i profumi di baguette e biscotti che uscivano da lì erano irresistibili all’epoca e tuttora sono per me determinanti», confida), collaborando al punto che il dolce di Natale dei suoi dodici anni fu un soffice (e profumatissimo) gateux di cioccolato firmato dal piccolo Alain e divorato dall’intera famiglia Ducasse nella fattoria di Castelsarazzin, nel sud ovest della Francia. Luogo dove il naso più fine del firmamento gastronomico si è allenato a fiutare ottimi affari e materie prime eccelse: «Per riuscire in pieno in un’impresa del gusto, il sessanta per cento deve essere la qualità degli ingredienti, il trentacinque la tecnica, il cinque il talento. La mia ricetta si basa sul principio di una cucina essenziale, comprensibile, non necessariamente cara, cercando equilibrio fra tradizione, territorio, ritmo delle stagioni ed evoluzione dei tempi. Oggi non si può mangiare come nell’Ottocento, così come non si deve chiedere salmone fresco in Asia. Quando stavo aprendo il ristorante a New York, sono andato in Alaska a conoscere i pescatori che ci avrebbero fornito il pesce. A Monaco la mia cucina guarda al Mediterraneo; a Parigi non tradisco il burro, condimento base delle genti del nord; a Beirut ho appena aperto ”Tamaris” ristorante di soli dessert dove si respirano spezie d’oriente, zucchero di canna e cedri del Libano; in Toscana, dove ho inaugurato ”T.T. Trattoria Toscana” nel nuovo hotel L’Andana, brilla il pesce del Tirreno, la carne maremmana, l’olio d’oliva (cinquanta ettari sono coltivati a uliveto con frantoio di proprietà per produrre un extravergine dop che condirà tutti i piatti dell’impero Ducasse ndr). Gli ingredienti nel piatto devono essere riconoscibili: per esempio nel menu di ”T.T.” proponiamo i pici spadellati con verdure e gamberi rossi, il risultato è un’equilibrata convivenza a tre che nel palato esplode in parti uguali». Guascone di nascita, parigino nel savoir faire, americano per concretezza e professionalità, monsieur AD (è la sua sigla da chef-imprenditore impressa su porcellane, libri, menu e quant’altro) l’Italia l’ha sempre amata da spettatore, turista, gourmet («avete le migliori materie prime del mondo»). Ma quanto ad investimenti concreti nel Belpaese da anni ripeteva: «Jamais à l’Italie», mai in Italia. Invece i primi anni del nuovo secolo vedono Ducasse partner e protagonista di un’affascinante storia toscana, scritta e realizzata insieme a Vittorio Moretti e Martino De Rosa (proprietari delle Cantine Bellavista e dell’Albereta di Gualtiero Marchesi a Erbusco) e all’architetto milanese Ettore Mocchetti che ha curato la ristrutturazione degli antichi locali che ospitano hotel e trattoria a Castiglione della Pescaia in Maremma: «Ne sono stato folgorato, la bellezza selvaggia di questa fetta di Toscana, i suoi profumi rustici e naturali, le forti tradizioni mi hanno fatto sentire in sintonia totale col luogo; e ho trovato una perfetta coincidenza di vedute anche con le persone che me lo hanno proposto. Quando un progetto parte in armonia, la perfezione è raggiungibile. O quasi». La perfezione per Alain Ducasse è una macchina da montare pezzo su pezzo, con pazienza e scrupolo certosino. «Sono un maniaco della precisione – racconta di sé – fin da quando ero bambino: forse anche per via della mia nascita, che capitò un 13 settembre sotto il segno della Vergine, e della mia storia personale. Quel che mi attrae davvero è fare qualcosa di inimitabile. Sempre. Ogni volta diverso da quello che ho realizzato prima. Possibilmente migliore. Ma ovunque e comunque unico. L’importante è non avere fretta, i progetti ambiziosi puntano su traguardi a lungo termine». Così dovrà essere il suo progetto italiano – già partito ma scrupolosamente scandito per investimenti e tappe future – nella tenuta La Badiola a L’Andana, 480 ettari di campagna maremmana ritagliati nell’antica residenza di caccia del Granduca di Toscana e destinati a diventare una delle mete-culto per i gourmet. Un perfezionista ambizioso nato sotto il meticoloso segno della vergine deve attrezzarsi per duplicare se stesso tutte le volte che serve. «Mi angoscia pensare – confessa – che una cosa bella, piacevole, importante fatta da un uomo possa finire, non avere futuro, dopo la sua morte. Per questo nel mio gruppo lavorano circa 1200 persone, tutte in sintonia con la mia testa e le mie passioni, alle quali delego molto. E per non lasciare nulla alla forza del caso o all’occasionalità del virtuosismo ho fondato una casa editrice per cui ho già scritto e sto procedendo a pubblicare I grandi libri di cucina di Alain Ducasse, opera enciclopedica e scrupolosa ”farcita” di spiegazioni, foto, ricette che dalla cuisine francese alla mediterranea vuole essere uno strumento per insegnare. Ma soprattutto per non dimenticare». Come dire: ai posteri la sentenza. Un atteggiamento che sembra in contraddizione ma va di pari passo col ”carpe diem” tutto personale di Alain Ducasse, diventato regola di vita dopo un incidente aereo, vent’anni fa, che lo vide unico superstite: «Per fare bene, crescere bene e guadagnare quotidianamente sorsi di benessere è fondamentale avere sane capacità fisiche e mentali. In poche parole, buona salute nel corpo e nella testa, ma anche nel cuore: parlo di serenità sentimentale. Io credo di avere questa salute a più facce, il che mi aiuta a tenere la fantasia accesa». Difficile vederlo col cappello da cuoco in testa compiere il rituale giro dei tavoli a fine cena, com’è prassi tra i suoi colleghi. Raro incontrarlo con la cravatta, ma di certo è facile osservarlo con penna e foglietti bianchi che si cava di tasca per appuntare e spuntare di continuo idee, suggerimenti, lampi di genio. O meglio d’ingegno: «Non esistono geni in gastronomia. Di geni ne nascono al massimo un paio al secolo, e nessuno è mai stato uno chef. Mi sento soltanto un artigiano della cucina». Capace di dirigere con i cinque i sensi sempre all’erta l’orchestra di fuochi, forchette, formalità necessarie. «Tra le cose che pretendo, i cellulari spenti in sala: ai miei ospiti dico sempre che la grande cucina è come la grande musica, bisogna lasciarsi andare alle suggestioni, alle consistenze di un pentagramma, sforzandosi di distinguere nettamente una nota dall’altra». La linea fusion dunque con lui non funziona: «Fusione è confusione. Per questo il menu che ho studiato per la mia avventura italiana, menù firmato da Christophe Martin, chef tra i migliori che ho cresciuto, è territoriale con materie prime locali, accenti ducassiani e tutti gli aromi che colorano il giardino: basilico rosso e verde, salvia, lavanda, citronella, dragoncello, timo, vino rosso». Superbamente condito anche il conto? «Chez ”T.T.” per un pasto completo, vini esclusi, si spendono mediamente 45 euro. Mangiare bene non significa necessariamente spendere tanto. Ma se offri qualcosa di veramente speciale in un’atmosfera speciale e con sfumature inedite, è normale e motivato che cresca l’addition». Come sarà nel petit restaurant d’alta cucina contemporanea che sta per inaugurare alla Badiola. «Superesclusivo, ma sempre in sintonia con la regione. come nella moda: c’è l’haute couture e il pret à porter, ad ogni occasione l’abito giusto». Quale abito calza perfettamente Ducasse? «Il mio menù ideale è una triglia di scoglio gustata al naturale, magari in riva al mare, con una fetta di pane bianco bruscato e niente più. Da assaporare con lentezza». Prudente, riflessivo, pignolo, calmo per scelta, gusto e necessità, il maestro francese con l’Italia dei sapori perduti e ritrovati, col mangiar lento di Slow Food ha molto da dividere. «Un’iniziativa come Terra Madre, l’ultima grande sfida mondiale lanciata dall’ingegnoso Carlo Petrini, è un’idea eccezionale. Unica, come piace a me: riunire cinquemila produttori di tutto il mondo non è solo un grande meeting, ma è un’occasione per ridare stima di sé a contadini, allevatori, a tutti quegli artigiani della terra, uomini e donne del pianeta che nutrono amore, passione, rispetto per il buono. Sono loro, in verità – quelli che stanno preservando le biodiversità, le differenze – che io e la mia èquipe poniamo al principio del nostro lavoro. La globalizzazione dei cibi non gratifica lo stomaco, lo riempie e basta». «L’Italia in questo senso – continua Ducasse – è fantastica, non solo per certe iniziative di Slow Food, ma per la resistenza silenziosa di migliaia di massaie che salvano la memoria e la cultura di cucine regionali, vere detentrici del sapere gastronomico. Il vostro Paese ha una cucina femmina, mammarola. Certo ci sono anche cuochi maschi eccezionali, penso a Gualtiero Marchesi che ha segnato trent’anni fa una svolta nella gastronomia italiana unendo rigore e fantasia, linea seguita tuttora da molti piccoli o grandi chef il cui comune denominatore è il rispetto del territorio in cui operano». Regionalista convinto, Alain Ducasse non approva però un certo protezionismo e nazionalismo esasperato dei suoi connazionali: «I francesi sono poco aperti e disponibili a godere delle ”cose belle” del mondo, gli italiani al contrario sanno ancora gustare e pagare bene il piacere, le sane passioni. I francesi li vedo un po’ come degli italiani tristi, anche perché non mangiano la pasta tutti i giorni. Moi meme? Un francese felice con i tagliolini nel piatto e l’Italia nel cuore. E ora anche negli affari». Francesca Alliata Bronner