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 2005  novembre 23 Mercoledì calendario

ABU OMAR

(Hassan Mustafa Osama Nasr) Egitto 18 marzo 1963. Imam • «[...] fu sequestrato il 17 febbraio del 2003 da una squadra di agenti Cia, che lo prelevò a Milano, in via Guerzoni, intorno a mezzogiorno, e lo trasferì in Egitto, al Cairo, via Ramstein, dove fu preso in consegna dalle forze speciali egiziane. Secondo l’inchiesta del procuratore aggiunto della Procura di Milano, Armando Spataro, il coordinatore dell’operazione fu Robert Seldon Lady, referente Cia del consolato americano a Milano. Fu lui a recarsi al Cairo per sovraintendere ai primi “interrogatori” dell’imam. Quello che segue è il racconto della detenzione egiziana di Abu Omar, come l’ha raccontata a sua moglie, Nabila Abd El Halim Ghali, nel giugno del 2005. Ostaggio dei servizi: “Ho incontrato la prima volta mio marito il 15 ottobre 2004, un anno e mezzo dopo la sua scomparsa, in una caserma di polizia di Alessandria d’Egitto. Tale caserma si chiamava Moharmbik. In quella circostanza ero in compagnia di mio figlio e di mia suocera. Abu Omar era detenuto in conseguenza della legislazione egiziana d’emergenza sul terrorismo; infatti, in quel periodo era stato temporaneamente rilasciato, sebbene restasse in custodia delle forze di polizia. Vi era stato un provvedimento del giudice egiziano conseguente ad un processo, al termine del quale lui era stato rilasciato ma, come le leggi che permettono, il ministro o la polizia egiziana avevano emesso un altro provvedimento sicché lui era in quel periodo trattenuto contro la sua volontà. Per quello che ho saputo da mio marito, la stessa cosa era avvenuta a luglio del 2004”. Il sequestro: “Quella mattina, il 17 febbraio del 2003, Abu Omar uscendo dalla propria abitazione per recarsi in moschea, si accorse di essere seguito da un furgone di colore bianco davanti al quale viaggiava un’autovettura Fiat di piccola cilindrata di colore rosso, forse una 127, guidata da un uomo dai tratti somatici occidentali, con i capelli tendenti al biondo. Abu Omar veniva accostato dall’autovettura rossa, dalla quale discendeva l’uomo che si presentò a lui, parlando in italiano, come un appartenente alla polizia, chiedendogli nel contempo di esibire i documenti. Mentre consegnava il proprio documento di soggiorno, il suo interlocutore effettuava una telefonata tramite un telefono cellulare e quindi chiedeva a mio marito di seguirlo verso il furgone bianco che si era fermato poco indietro. Fu improvvisamente aggredito da due persone uscite al furgone stesso. Queste lo caricarono a forza nel retro del mezzo, che ripartì immediatamente. Mio marito oppose resistenza: fu usata violenza contro di lui. Nelle fasi concitate del sequestro venne immobilizzato con del nastro adesivo intorno alle mani ed ai piedi, ed anche alla bocca per impedirgli di gridare. Una volta caricato sul furgone e durante il tragitto, mio marito si sentì male anche a causa dello spavento, al punto che ebbe un fenomeno di incontinenza, urinandosi addosso. Anche il battito divenne irregolare, al punto che i sequestratori, che gli avevano fatto una puntura, si preoccuparono e si diedero da fare per rianimarlo, liberandogli il collo e le braccia per farlo meglio respirare. Pur con occhi bendati e con mani e braccia legate, mio marito non riprese conoscenza. Il viaggio con il furgone durò sicuramente alcune ore, anche se non ricordo con precisione quante. Con il furgone fu portato in un aeroporto (non so quale e dove ubicato) dove gli furono fatti cambiare i vestiti che indossava. Fu poi portato sotto un piccolo aereo sul quale fu fatto imbarcare. Ricordo bene che parlò di aereo di piccole dimensioni: ben rammentava la scaletta con pochi gradini per l’accesso del velivolo. Arrivato in Egitto fu preso in consegna da persone egiziane o che parlavano l’arabo con spiccato accento egiziano, le quali lo portarono in auto negli uffici dei servizi segreti al Cairo. Qui ebbe un incontro con due persone, una delle quali gli sembrò essere il ministro dell’Interno egiziano. Costoro gli proposero di collaborare con le autorità egiziane promettendogli che, in tal caso, lo avrebbero immediatamente riportato in Italia e lasciato libero. Abu Omar rifiutò questa proposta ed i suoi due interlocutori lo insultarono e se ne andarono. Da quel momento egli rimase per 7 mesi all’interno dello stesso palazzo, in una cella di isolamento in cui, potendo incontrare solo il guardiano, venne torturato e ‘interrogato’. Mi disse che in quella cella aveva modo di sentire i lamenti di altri torturati”. Le torture: “Abu Omar fu torturato ininterrottamente per sette mesi: mi raccontò che veniva legato con le braccia aperte come se fosse in croce e picchiato; altre volte veniva steso per terra, immobilizzato, e gli venivano applicati degli elettrodi che gli trasmettevano scosse sui genitali ed in altre parti del corpo. Dopo 14 mesi di detenzione fu momentaneamente rilasciato. Gli proposero di andare in Tribunale e di firmare una dichiarazione in cui avrebbe dovuto affermare di essere entrato spontaneamente in Egitto e che, in quel periodo di permanenza, non aveva subito alcuna violenza. In cambio sarebbe stato rilasciato. Ma Abu Omar in un primo momento rifiutò tanto che fu sottoposto a nuove torture, finché si decise ad accettare ed a firmare il documento in cui la data di ingresso in Egitto veniva posticipata di 7 mesi rispetto all’effettivo arrivo del 18 febbraio. Venne rilasciato la sera del 19 aprile 2004 e portato dai familiari ad Alessandria con l’accordo di non parlare a nessuno di ciò che era accaduto. Il 20 aprile 2004, infatti, mi telefonò e non mi disse nulla di preciso su quello che gli era accaduto, ma dopo qualche altro giorno telefonò a Mohamed Reda e gli parlò del sequestro subito e di altri particolari. Come ho poi saputo, il telefono di mio marito era sotto controllo, sicché la polizia egiziana, dopo 23 giorni, lo riarrestò e da allora, come ho già dichiarato, non è stato più rimesso in libertà nonostante si siano succeduti provvedimenti di rilascio dell’autorità giudiziaria egiziana. Durante le torture e gli interrogatori subiti in Egitto, quando lui domandava che cosa aveva atto per subire quanto gli accadeva, i suoi interlocutori rispondevano che non erano gli egiziani ad avercela con lui e che tutto era conseguenza di ciò che era stato fatto agli americani» (“La Stampa” 10/7/2006).