Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  novembre 23 Mercoledì calendario

Il mare è una risorsa fondamentale per la vita, ma anche un universo misterioso, in gran parte ancora sconosciuto e inaccessibile all’uomo

Il mare è una risorsa fondamentale per la vita, ma anche un universo misterioso, in gran parte ancora sconosciuto e inaccessibile all’uomo. Negli abissi dove noi non possiamo penetrare, però, arrivano i robot sottomarini: una piccola flotta di gioielli tecnologici capaci di spingersi e ”lavorare” a profondità impressionanti, con un enorme risparmio di costi (e di rischi) per gli equipaggi umani. «La robotica marina ha lo scopo di permettere all’uomo di conquistare il mare», spiega Gianmarco Veruggio, fondatore e responsabile del Robotlab, il Reparto Robotica del CNR di Genova, e uno dei massimi esperti internazionali nel settore. Le applicazioni sono le più disparate: dalla ricerca (geologia, biologia, oceanografia, fisica) al monitoraggio ambientale, dall’offshore (costruzione di condotte e cavidotti, ricerca e sfruttamento di giacimenti petroliferi o minerari) al settore della difesa (pattugliamento, avvistamento, sminamento), fino all’archeologia subacquea, per scoprire ed esplorare relitti, e all’intervento diretto in caso di incidenti. Come avvenuto, ad esempio, durante lo scorso agosto, quando il robot Scorpio della marina inglese ha salvato, a sei ore dall’esaurimento dell’ossigeno, l’equipaggio del batiscafo russo As-28, rimasto impigliato nelle profondità dell’Oceano Pacifico. Un tema particolarmente caldo è quello della prevenzione di terremoti e tsunami. «Se si vuole conoscere il mare, bisogna entrare nel mare», dice Veruggio. «Allestire e mantenere reti di stazioni sottomarine di rilevazione, che devono essere collocate a 1.000, 2.000, 4.000 metri di profondità, è un compito per i robot. Una decina o una ventina di stazioni in posizioni strategiche, che contemporaneamente misurano e registrano l’attività sismica, permetteranno di costruire un modello tridimensionale (una sorta di tomografia per mezzo di onde sismiche, ndr) della struttura interna del pianeta». I modelli così creati potrebbero portare in un prossimo futuro a prevedere i terremoti, ma già identificarne uno in tempo reale, e quindi rilevare l’insorgere di uno tsunami con un certo anticipo, potrebbe significare la salvezza di migliaia di vite. Il gusto della sfida La robotica degli abissi non ha solo evidenti ricadute e applicazioni pratiche: è anche un affascinante rovello scientifico e filosofico (come sempre, quando è coinvolta l’intelligenza artificiale), che implica un continuo superamento delle barriere tecnologiche e il confronto costante con un ambiente ostile come nessun altro. «Magari la gente pensa che la robotica più complessa sia quella spaziale», spiega Veruggio, «si sbaglia: è nettamente più facile, perché non c’è l’acqua. Lavorare nel mare crea delle sfide particolari: il fatto che non ci siano le onde elettromagnetiche (nell’acqua si propagano solo le onde acustiche, ndr) e che i robot sottomarini siano sensibili alla forza delle correnti, la rende forse la robotica più difficile, almeno se ci limitiamo a quelle operative». Tanto più che le infinite variabili del mare impediscono di elaborare modelli teorici esaurienti. «Ecco perché», continua Veruggio, «la robotica sottomarina è una disciplina che non si può studiare in teoria: va sviluppata in modo sperimentale». Questione di cavo I robot sottomarini sono normalmente di due tipologie: i ROV, noti e diffusi da decenni, e i più recenti AUV. I ROV (Remotely Operated Vehicle) sono macchine a corto raggio dotate di un’intelligenza artificiale particolarmente raffinata, progettate per svolgere compiti operativi. Sono definiti ”Working Class ROV, operai del mare”. Sono comandati via cavo da un team alloggiato nella control room all’interno della nave d’appoggio, in superficie, e hanno il compito di analizzare un’area circoscritta e, se necessario, intervenire direttamente con le braccia meccaniche: per questo motivo, conta più la precisione dei movimenti e la stabilità in acqua, piuttosto che la velocità di spostamento o l’efficienza idrodinamica. Al contrario, gli AUV (Autonomous Underwater Vehicle) sono macchine ad ampio raggio, autonome e prive di cavo, ricognitori del mare simili a siluri sviluppati per navigare a lungo consumando poca energia. Sono attrezzati con strumenti di osservazione, come sensori chimici, elettromagnetici e sonar, che permettono di disegnare una mappa (del fondale, batimetrica, tematica...) dell’area assegnata. La loro intelligenza è diversa da quella dei ROV, ma è sempre molto avanzata, perché gli AUV devono potersi muovere in un ambiente estremamente sfavorevole e buio e, soprattutto, devono riuscire a tornare a casa: il problema dell’orientamento nelle profondità marine è uno degli ostacoli maggiori che la robotica sottomarina deve affrontare. Il futuro? a forma di pesce Tuttavia, nonostante i successi conquistati sul campo, la robotica sottomarina è una scienza ancora agli albori. Qual è la strada da percorrere? «Dobbiamo fare robot che pensino come pesci: non umanoidi con la maschera e le pinne, che quindi si tuffano e poi hanno tutti i problemi dell’uomo, ma robot che siano a loro agio nell’ambiente sottomarino», spiega Veruggio. I robot devono, insomma, imparare a percepire e riconoscere il mare in cui sono immersi proprio come i pesci, orientandosi e svolgendo in modo autonomo le missioni assegnate. Si tratta «quindi, in sostanza, di tagliare il cavo. Permettere a un robot di calarsi dentro un relitto o fra le zampe di una piattaforma, e andare a svitare un bullone senza urtare ostacoli o rimanere impigliato. Questo è un cammino ancora lungo», dice Veruggio che, pensando al futuro, rivela il suo sogno: «Essere pronti per la sfida di salvare il mare, e non solo di sfruttarne le risorse». I robot saranno strumenti fondamentali, ad esempio, per intervenire nei depositi sottomarini di scorie radioattive che, tra legali e illegali, sono molto più numerosi di quanto si pensi: un’eventuale emissione in acqua di radionuclidi (le previsioni per i prossimi vent’anni non sono rosee) potrebbe causare disastri ambientali irreparabili. «La robotica marina può intervenire di fatto a salvare il mare, e quindi l’ecosistema del pianeta», conclude Veruggio.