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 2005  novembre 23 Mercoledì calendario

I fotografi professionisti sanno quanto sia importante disporre di un obiettivo sempre perfettamente funzionante e trasparente per gli scatti più impegnativi

I fotografi professionisti sanno quanto sia importante disporre di un obiettivo sempre perfettamente funzionante e trasparente per gli scatti più impegnativi. Noi che fotografi non siamo, invece, pur attrezzati con un obiettivo personale che ci portiamo appresso e che ci permette di osservare il mondo, gli dedichiamo in genere poca attenzione ... almeno finché l’obiettivo non si altera, impedendo alla luce di giungere alle strutture interne dell’occhio e riducendo la nostra capacità visiva. Portando, nei casi estremi, alla cecità. La cornea, una vera e propria lente trasparente e ricurva posta davanti alla pupilla, costituisce la porzione anteriore del bulbo oculare. qui che, la mattina, le persone miopi appoggiano delicatamente le lenti a contatto prima di uscire di casa; ed è da qui che possono partire infezioni o processi degenerativi che, alla lunga, fanno perdere trasparenza alla cornea o ne deformano la struttura. A (quasi) tutto, per fortuna, c’è rimedio. E oggi il trapianto di cornea rappresenta un intervento pressoché di routine, che ogni anno permette a un po’ più di 5.500 italiani di recuperare questo bene così prezioso. Tra il centinaio di patologie, una più una meno, che alterano la curvatura e la trasparenza corneale, tuttavia, non sono molte quelle che si possono trattare efficacemente col trapianto di cornea: il cheratocono, una malattia che assottiglia e deforma la cornea; alcune infezioni batteriche che lasciano tracce superficiali, le ustioni causate da acidi o solventi e i traumi indotti da interventi chirurgici che producono, come effetto collaterale indesiderato, cicatrici in rilievo o opacizzazione del tessuto. Vado in Banca per un prelievo Dodici-tredicimila prelievi l’anno. Un livello d’idoneità corneale che varia dal 40 al 50 per cento. E dunque, conti alla mano, una media di seimila trapianti l’anno. Per fare un confronto, basti pensare che nel 2001, nel nostro Paese, sono stati eseguiti ”appena” 1191 trapianti di rene, 260 di cuore, 652 di fegato e 47 di polmone (dati Ministero della Salute). I numeri italiani della trapiantologia della cornea, dunque, parlano chiaro: raccontano dell’enorme sviluppo che sta vivendo questo settore, che ha abbandonato la sua iniziale posizione di nicchia, per diventare un punto di riferimento nel panorama delle donazioni. Sì, perché la cornea viene donata dai parenti di una persona deceduta, e innestata in un vivente che, grazie a questo gesto, potrà vedere nuovamente bene ciò che gli sta intorno. Perché, tuttavia, questo 50 per cento di tessuti non utilizzati? «L’idoneità al trapianto», spiega Diego Ponzin, direttore medico di Fondazione Banca degli Occhi del Veneto Onlus, creata nel 1987 e, dal 1993, Centro di riferimento regionale per gli innesti corneali, «viene concessa soltanto dopo aver accertato i requisiti di sicurezza e qualità del tessuto. Non sempre, infatti, il donatore è sano: attraverso indagini sierologiche, scopriamo talvolta malattie sistemiche come l’epatite B, l’epatite C o il virus dell’Aids. E anche se non tutte sono certamente trasmissibili, non corriamo mai il rischio di mettere a repentaglio la salute del ricevente. Quanto alla qualità biologica del materiale, non tutte le cornee, anche se sane, possiedono caratteristiche ottimali, da poter essere usate in un trapianto». Pur essendo relativamente semplice rispetto ad altri tessuti organici, la cornea è formata da diversi strati cellulari sovrapposti: l’epitelio più esterno (formato a sua volta da 5-7 strati) è la regione di sfaldamento, da cui si staccano le cellule ”vecchie” che vengono rimpiazzate, con lo stesso movimento di un ascensore che sale, da quelle nuove. In mezzo c’è un cuscinetto centrale chiamato stroma, formato da fibre collagene precisamente orientate che è trasparente perché contiene poca acqua; internamente, infine, c’è l’endotelio, che mantiene basso il contenuto di acqua. «Oltre all’età del donatore», precisa Ponzin, « sono proprio le cellule dell’endotelio a determinare l’idoneità del tessuto al trapianto: queste cellule non si moltiplicano e conferiscono la trasparenza alla cornea solo se sono sane e abbondanti, in numero superiore ad almeno 2000 per millimetro quadrato». Il tempo per la valutazione dei parametri di idoneità non è molto, ma sufficiente: dal momento del prelievo al suo riutilizzo clinico, una cornea può essere conservata in coltura per un mese al massimo, opportunamente nutrita e riscaldata (31-37° C). «Il chirurgo», racconta ancora Ponzin, «ritaglia dalla cornea malata un dischetto di circa 8 mm e lo sostituisce con un dischetto sano. Il paziente si riprende in 10-15 giorni, ma poi deve passare qualche mese per capire se la curvatura è ottimale e se il grado di rifrazione è quello definitivo». Sesso e gruppo sanguigno non rappresentano criteri d’esclusione, e anche il rischio di rigetto è abbastanza ridotto (1 per cento circa). La cornea, infatti, è un tessuto poco vascolarizzato, e qui il sistema immunitario è un po’ meno vigile che altrove. Occhio a quelle staminali Oltre a raccogliere ogni anno circa 2.000 cornee e a ridistribuirne la metà - non solo in Italia ma anche in Europa - la Fondazione banca degli occhi del Veneto possiede laboratori di ricerca e ambulatori per attività di diagnosi e consulenza, dove si studia il comportamento delle cellule staminali corneali, e si sperimenta il loro impiego nei trapianti autologhi (dal paziente vivo a sé stesso): dall’inizio dell’anno, il Centro ha eseguito una sessantina di ”rattoppi” corneali utilizzando proprio questo tipo di cellula. «Un millimetro quadrato di tessuto limbare corneale (il limbus è la zona di confine tra cornea e congiuntiva)», spiega Graziella Pellegrini, direttore del Laboratorio del Centro regionale di ricerca sulle cellule staminali epiteliali di Fondazione, nato in collaborazione con Regione Veneto e Ulss 12 veneziana, «fornisce sufficiente materiale di partenza per cominciare una coltura: le cellule vengono espanse in laboratorio per formare vere e proprie ”toppe” di tessuto sano, e utilizzate per curare il paziente che le ha donate. Tuttavia, non tutte quelle che preleviamo dal limbus hanno le caratteristiche volute: su 100 cellule che riusciamo a estrarre, solo 8 sono ancora indifferenziate». Indifferenziate significa che, se stimolate con opportune sostanze nutrienti, possono trasformarsi non soltanto in cellule corneali, ma addirittura - come è stato dimostrato in condizioni sperimentali (e non cliniche) sul coniglio - in cellule del tutto diverse, quali quelle del bulbo pilifero. L’ipotesi che i vari ricercatori avanzano per spiegare questo comportamento è che stimoli chimici attivino o disattivino specifici geni, inducendo la cellula a un percorso diverso da quello del tessuto di origine. «Al nostro gruppo», precisa però Pellegrini, «interessa soltanto il differenziamento in senso corneale. Per poter utilizzare le staminali su un paziente è necessario che le cellule che coltiviamo mantengano anche in vitro lo stesso tipo di rapporto reciproco che hanno in vivo. Basta infatti una piccola perturbazione (la temperatura che varia, o una carenza nutritiva) per modificare il loro comportamento». Dal prelievo bioptico di cellule staminali al trapianto del tessuto trascorrono circa due settimane (necessarie per farle crescere e analizzarle), poi, una volta trapiantate nel paziente le cellule staminali corneali si integrano nel giro di 24 ore. Dai meccanismi di differenziamento cellulari alla clinica. Ma senza tralasciare la ricerca avanzata. I laboratori di Fondazione banca degli occhi del Veneto stanno studiando diverse popolazioni cellulari dell’occhio, pensando a un loro possibile utilizzo nella terapia genica. «Alcune patologie ereditarie gravissime», chiarisce Pellegrini, «potrebbero essere corrette solo a livello genico, sostituendo il gene malato con uno sano. Nei casi più estremi, anche il fatto di riuscire a rallentare la progressione di una malattia degenerativa oculare, garantendo al paziente la vista per altri 8-10 anni, potrebbe costituire un successo. Ma la strada è ancora lunga». Ma quante sono e ”banche degli occhi”? Ben 84 negli Stati Uniti, 68 in Europa e 11 in Italia. Le Banche degli Occhi (Eye Banking) italiane sono dislocate in tutta la Penisola e lavorano con criteri selettivi maggiori che nel resto del mondo. La percentuale delle cornee dichiarate idonee nel nostro Paese è del 44 per cento circa, a fronte del 54 per cento europeo e del 56 per cento di Stati Uniti. Via la cataratta La chirurgia oftalmica del Terzo Millennio non si limita a riparare la cornea. Studia il modo di risanare anche altre strutture oculari come, ad esempio, il cristallino, la lente elastica e trasparente situata dietro la pupilla che permette la messa a fuoco degli oggetti. Nella terza età capita spesso che il cristallino si opacizzi, formando la tanto temuta cataratta. Finora la si rimuoveva per via chirurgica, praticando un’incisione e sostituendo la lente con protesi intraoculari rigide. Da qualche tempo, però, nove centri di ricerca e società di cinque Paesi dell’Unione Europea stanno lavorando al progetto Miro (Micro incision research in ophthalmology), con l’obiettivo di mettere a punto una nuova plastica per lenti oculari da usare nei casi di cataratta. «Il chirurgo oftalmico», spiega Joachim Storsberg, ingegnere chimico presso l’organizzazione di ricerca tedesca Fraunhofer Institute for Applied Polymer Research (Iap), «ha già a disposizione diversi tipi di lenti intraoculari per la cura della cataratta: in genere sono formate da una parte flessibile e da una parte rigida, e vengono inserite al posto del cristallino opaco dopo che quest’ultimo è stato distrutto con ultrasuoni e rimosso. Il progetto Miro, però, sta sviluppando lenti estremamente sottili ed elastiche, che permetteranno di ridurre l’incisione dagli attuali 3 mm a un millimetro e mezzo». La chirurgia oculare diventerà davvero microinvasiva e potrà essere praticata in ambulatorio. Quando? I ricercatori del progetto sperano entro il 2006.