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 2005  novembre 23 Mercoledì calendario

Sono passati trent’anni dalla fine della guerra in Vietnam, trent’anni da quando i telegiornali di tutto il mondo trasmisero le drammatiche immagini degli ultimi americani che abbandonavano in elicottero l’ambasciata di Saigon, assediata da nordvietnamiti e vietcong

Sono passati trent’anni dalla fine della guerra in Vietnam, trent’anni da quando i telegiornali di tutto il mondo trasmisero le drammatiche immagini degli ultimi americani che abbandonavano in elicottero l’ambasciata di Saigon, assediata da nordvietnamiti e vietcong. Ma come si era arrivati a questa sconfitta scioccante che concludeva una guerra impopolare, logorante e drammatica come poche altre? Bisogna tornare al ’40-’41, quando Roosevelt reagì alle mire giapponesi sull’Indocina, da cui si dominavano le vie di comunicazione verso l’Australia, il Sudest Pacifico, e il cui possesso consentiva il controllo della Thailandia, della Birmania, dell’India e dell’Oceano Indiano. La guerra in difesa del Vietnam del Sud (filo-occidentale), attaccato da quello del Nord (comunista) va quindi letta come un episodio chiave della guerra fredda: il problema degli americani era quello di stabilire in Asia un equilibrio di potere, evitando che una regione fondamentale del Sudest asiatico, già abbandonata dai francesi, finisse sotto il controllo di Cina e Russia. L’America era terrorizzata dalla Teoria del Domino: «Noi abbiamo dichiarato guerra alla tirannia e all’aggressione», spiegava il presidente Johnson. «Abbiamo un impegno verso la libertà del Vietnam e se lo abbandonassimo, si verificherebbe un effetto domino in tutti i paesi della regione, che cadrebbero in mano ai comunisti». Fu una guerra sanguinosissima che costò la vita a 58.000 americani e a ben 3 milioni e mezzo di vietnamiti, una guerra dalla quale gli americani, impreparati ad affrontare insetti, serpenti, trappole di liane, cespugli di spine, strapiombi quasi perpendicolari, boscaglia, temperatura di 40 gradi, e fiaccati dai continui attacchi di un popolo dove era impossibile distinguere un semplice contadino da un guerrigliero, uscirono militarmente sconfitti (nonostante l’impiego su vasta scala di armi chimiche) e politicamente lacerati. A distanza di trent’anni, chiediamo un bilancio di quei fatti a Massimo Teodori, storico americanista, il cui ultimo libro è Raccontare l’America-Due secoli di orgogli e pregiudizi (Oscar Mondatori-Eri, 9,40 euro). Professore, lei viveva in America durante la guerra in Vietnam. Che giudizio diede allora di quel conflitto? E oggi, dopo trent’anni, è arrivato a conclusioni differenti? «All’epoca pensavo che l’intervento in Vietnam fosse un errore dell’amministrazione americana, e oggi non ho cambiato idea. Infatti già allora io, che non sono mai stato né comunista né filocomunista ma democratico occidentale, temevo quello che poi si è puntualmente avverato, cioè che la vittoria dei vietcong, con l’eliminazione della terza posizione, quella buddista, sarebbe stata disastrosa, perché avrebbe favorito l’instaurarsi di nuove dittature al posto di quella filoccidentale, vecchia e corrotta. All’origine dell’errore ci fu l’incapacità di comprendere che l’intervento avrebbe trascinato gli Stati Uniti in una escalation imprevedibile. In realtà fu Kennedy a entrare nello scacchiere vietnamita, inviando un primo stuolo di 10 mila consiglieri a fianco degli osservatori che seguivano la situazione dopo la partenza dei francesi. Poi dal 1965, cioè nel primo anno della presidenza Johnson, la dimensione dello scontro con il blocco comunista in quello scacchiere è aumentata esponenzialmente fino ad assumere proporzioni incontrollabili. Non bisogna dimenticare che gli americani avevano già vissuto un’esperienza simile in Corea, una decina d’anni prima, dove erano riusciti a fronteggiare l’avanzata dei comunisti del Nord, ma combattendo una guerra tradizionale. In Vietnam, invece, c’era la guerriglia, la guerra di popolo su un terreno molto accidentato, novità che trasse in inganno gli americani, costringendoli in un vicolo cieco». Le testimonianze e i dettagli emersi in questi anni consentono di rivedere qualche giudizio iniziale? «I libri pubblicati da allora hanno fatto luce su aspetti prevedibili. Emerge soprattutto l’enorme gravità della violenza che veniva praticata al di fuori della guerra vera e propria, sia da parte dei vietnamiti del Nord e dei vietcong, sia da parte degli americani, che fecero un uso indiscriminato di strumenti tecnologici. Bisogna però sottolineare che se i governi degli Stati Uniti possono commettere gravi errori e avere responsabilità di ogni tipo, la società americana ha poi la forza di portare queste cose alla luce. I grandi film sulla violenza in America sono stati fatti dagli stessi americani, mentre dubito che nella società vietnamita sia stato possibile sottolineare le violenze altrettanto gravi commesse dalla loro parte. Essendo quella americana una società pluralista e democratica, contiene gli anticorpi al suo interno. sempre accaduto e continua ad accadere anche oggi, con l’Iraq». Essendo oggi il Vietnam un paese non comunista e in via di occidentalizzazione, è possibile affermare che, sui tempi lunghi, gli americani abbiano ottenuto una vittoria? «Alla base dell’intervento in Vietnam c’era la Teoria del Domino, secondo la quale abbandonare un alleato avrebbe scatenato una reazione negativa a catena in tutti gli altri scacchieri. Probabilmente il fatto di aver difeso i propri alleati e di avere ritardato per dieci anni la presa violenta del potere da parte del Vietnam del Nord, è stato un segnale che poi ha avuto il suo peso in uno scenario internazionale in piena guerra fredda, nel quale i due blocchi si confrontavano su diversi fronti. Era una politica improntata alla filosofia del ”contenimento”, che aveva avuto già tre precedenti nella guerra in Corea del Nord, nella crisi dei missili di Cuba e in quella di Berlino, tre episodi che fanno parte della stessa impostazione teorica di una confrontation in cui occorre tenere il proprio campo e non abbandonarlo alle pressioni degli avversari. Contenimento è la parola chiave di tutto quel periodo e della politica estera americana in particolare». Che effetti ha avuto il Vietnam sugli Stati Uniti? «Il Vietnam non ha rappresentato solo una sconfitta militare, ma ha avuto ripercussioni molto gravi sulla società e sulle istituzioni. Infatti al trauma della prima sconfitta sul campo dopo la Seconda guerra mondiale, si sovrappose quello del Watergate, determinando negli Stati Uniti una profonda crisi di identità, che viene superata soltanto con le due presidenze repubblicane di Reagan negli anni ’80. Si pensi che per colpa del Vietnam Johnson, il presidente più votato del ’900 e uno dei migliori per i risultati raggiunti dalla sua politica sociale sul fronte interno, rinunciò a ricandidarsi. Era la prima volta che accadeva un fatto simile. Lo stesso Nixon, che aveva ottenuto un’altissima percentuale di voti sia nel ’68 che, soprattutto, nel ’72, venne completamente delegittimato attraverso lo scandalo Watergate, impeachment che, non lo si sottolinea mai abbastanza, è stato l’unico in tutta la storia americana. Tutto questo ha determinato uno shock importante in un Paese dove i presidenti rappresentano l’identità nazionale, prima ancora di una parte politica». Le istituzioni e l’uomo della strada hanno accusato il colpo diversamente? «La società americana è rimasta traumatizzata più delle istituzioni, anche se poi c’è un rapporto molto stretto tra le due componenti. Nixon in fondo era un presidente che aveva ottenuto grandi risultati sul piano della strategia internazionale: aveva chiuso la questione del Vietnam e aveva aperto alla Cina. Ciononostante, nel ’76 i repubblicani vennero sconfitti da una figura di secondo piano come Carter, altro chiaro segnale di una profonda crisi d’identità che stava attraversando la società americana come riflesso della crisi delle istituzioni. Più che dal Vietnam, le istituzioni furono scosse dal caso Watergate, che determinò una crisi della quale il Congresso approfittò per riguadagnare potere nei confronti della presidenza. Il Vietnam, invece, fu un fenomeno di massa: quella era la prima guerra a entrare nelle case degli americani attraverso la televisione e, nel giro di dieci anni, coinvolse 2-3 milioni di giovani militari, con 60 mila morti, 300 mila invalidi e un numero ancora più alto di persone psicologicamente disturbate, con strascichi di droga, manicomi etc. Tutti, in un modo o nell’altro, erano stati coinvolti».