MACCHINA DEL TEMPO DICEMBRE 2005, 23 novembre 2005
La ferita della guerra in Vietnam ha attraversato tutto il cinema americano dagli anni ’70 fino a oggi
La ferita della guerra in Vietnam ha attraversato tutto il cinema americano dagli anni ’70 fino a oggi. Escluso il film bellicista di John Wayne Berretti verdi (1968), osteggiato dai pacifisti di tutto il mondo, il resto della filmografia sul Vietnam, con intensità e sfumature differenti, è sempre stato critico verso il conflitto e ha sottolineato quanto la guerra e le sue conseguenze siano alienanti e insensate. Sembra quasi che attraverso il cinema l’America dei padri si proponga di riscattare il tradimento perpetrato ai danni dei suoi ideali più profondi. Durante il conflitto, il cinema Usa preferì astenersi dal trattare direttamente un tema così scottante e controverso. Ci volle qualche anno dalla fine della guerra perché Hollywood metabolizzasse quell’evento traumatico, e i frutti cominciarono ad arrivare abbondanti a partire dalla fine degli anni ’70. Parliamo del generazionale Un mercoledì da leoni di John Milius (1978), del tormentato Il cacciatore (Michael Cimino, 1978), della visione femminile di Tornando a casa (Hal Ashby, 1978), del cupo Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), del musical pacifista Hair (Milos Forman, 1979). Accanto al filone più muscolare di Rambo 2, Fratelli nella notte, della serie Missing in Action, troviamo roventi atti d’accusa contro il militarismo e gli orrori del conflitto, tra i quali spiccano le opere antimilitariste di Oliver Stone (Platoon, 1986, e Nato il 4 luglio, 1989) e l’inquietante capolavoro di Stanley Kubrick Full Metal Jacket (1987). Senza dimenticarci dei recenti We Were Soldiers (Randall Wallace, 2002), o di The Fog of War (Errol Morris, 2004), film-documentario vincitore dell’Oscar, in cui l’allora segretario della difesa Robert McNamara rievoca la guerra del Vietnam vista dalla stanza dei bottoni.