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 2005  novembre 23 Mercoledì calendario

Quale fu l’importanza degli agenti segreti durante la Seconda guerra mondiale? Oltre le linee nemiche o nelle città occupate centinaia di spie lavoravano nell’ombra per carpire piani e strategie degli avversari che potessero influenzare l’andamento del conflitto, dai tedeschi dell’Abwehr agli italiani del Sim (Servizi informazione militari), dai francesi del Deuxième Bureau agli inglesi del Soe (Special operation executive)

Quale fu l’importanza degli agenti segreti durante la Seconda guerra mondiale? Oltre le linee nemiche o nelle città occupate centinaia di spie lavoravano nell’ombra per carpire piani e strategie degli avversari che potessero influenzare l’andamento del conflitto, dai tedeschi dell’Abwehr agli italiani del Sim (Servizi informazione militari), dai francesi del Deuxième Bureau agli inglesi del Soe (Special operation executive). Peter Tompkins, agente dell’americano Oss (Office of strategic services) e autore del libro Una spia a Roma, ci racconta come lavorò alla Resistenza antinazista in attesa dell’arrivo degli alleati nella Capitale. Quali erano le caratteristiche di un agente segreto nella Seconda guerra mondiale? «Gli storici che scrivono del generale William Donovan, eroe della Prima guerra mondiale e ideatore dell’Oss, raccontano che reclutava i suoi agenti dai ceti più disparati, scegliendo fra i tipi più stravaganti. Accoppiava personaggi insoliti con operazioni insolite. Gli ufficiali di grado superiore erano accuratamente selezionati fra gli avvocati di Wall Street. Nel dicembre ’41, tornato a Washington dopo due anni come corrispondente di guerra in Italia, Grecia e Nord Africa, mi offrii come volontario a Donovan in persona per essere paracadutato in Italia. Mi accettò, ma ci vollero due anni prima che l’Oss fosse in grado di organizzare questo tipo di operazioni in Italia». Quali erano realmente i rapporti tra l’Oss e il Soe? «Al principio della guerra erano buoni, ma peggiorarono nel 1943 con l’arrivo in Nord Africa di reclute siculo-americane. Gli ufficiali britannici del Soe, per lo più educati a Oxford, Cambridge o nell’accademia militare di Sandhurst, erano di ceto elevato e già addestrati da tre anni di guerra. Consideravano come dilettanti i nuovi arrivati dell’Oss, salvo qualcuno più distinto come il famoso attore Douglas Fairbanks Jr. Con lo sbarco in Italia, il Soe fu affiancato ai servizi segreti del sopravvissuto Sim fascista col compito di sostenere i Savoia. Alcuni di noi nell’Oss preferivano rafforzare i partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale, eminenti antifascisti come Sforza e Croce al Sud, Ferruccio Parri al Nord, per sviluppare un’imponente Resistenza democratica». Qual era il compito specifico che le era stato affidato dal generale Donovan a Roma? «Dovevo mettermi in contatto con i capi della Resistenza romana per organizzare al momento dello sbarco alleato ad Anzio un’insurrezione contro i tedeschi. Lo scopo era di prenderli tra due fuochi. Il piano era facilmente fattibile e avrebbe risparmiato cinque mesi di macello ad Anzio, se non fosse stato abortito per il timore alleato di uno sbandamento dei comunisti». Che tipo di situazione ha trovato a Roma? «Roma era grigia quanto i suoi abitanti. Mancava tutto, generi alimentari, riscaldamento, mezzi di trasporto. Si diceva che metà dei romani nascondesse l’altra metà. I nazifascisti circolavano spavaldi e spietati. Io ero in stretto contatto con i membri della Resistenza, con la giunta militare del Cln, in particolare con Franco Malfatti (nel dopoguerra segretario generale alla Farnesina) e Giuliano Vassalli (poi Ministro della Giustizia)». Lei ebbe contatti anche con personalità del Governo italiano e del Vaticano. Che aiuti ricevette? «Ebbi contatti quasi subito attraverso il tenente Borin, socialista, con ufficiali del Comando della Città Aperta del generale Chirieleison. Mi diedero permessi falsi e una macchina con autista, un militare di Salò. Il mio padrino, Sir D’Arcy Osborne, era Ministro britannico presso la Santa Sede. Gli recapitai un messaggio attraverso il Cancelliere dell’Ordine di Malta, ma mi fece sapere di stare alla larga dal Vaticano, monitorato attentamente dalle SS. Potei abbracciarlo solo il giorno dopo la liberazione di Roma, quando pranzai con lui in Vaticano, nel suo appartamentino, in compagnia del nuovo ambasciatore britannico a Roma, Sir Noel Charles. Si divertirono con i miei aneddoti sulla vita clandestina, ma quanto ai partigiani, più che ammirarli, li temevano come comunisti». Da americano, come riusciva a passare inosservato? «Potevo benissimo essere scambiato per un italiano. Parlavo ”con lingua toscana in bocca romana”, avendo avuto un’istitutrice fiorentina e avendo vissuto negli anni ’20-’30 a Roma con i miei genitori artisti, mio padre scultore, mia madre pittrice. Invece, per proteggermi cambiavo spesso nome e documenti, ovviamente falsi». Quali erano i maggiori pericoli per una spia? «I pericoli erano costanti, soprattutto perché la polizia repubblichina e la Gestapo facevano retate ovunque e di continuo. La cosa peggiore era attraversare Roma in tram con una falsa identità, di cui dovevo conoscere a memoria ogni dettaglio in caso (non raro) di fermo. Giunto a destinazione, dovevo assumere una nuova identità, anche questa tenuta a memoria. Non ha idea di quanto fosse difficile. Il più piccolo errore ti poteva fregare». Come decideva di potersi fidare di una persona? «Con l’istinto. Era impossibile fare indagini. Ma potevo distinguere un democratico da un fascista al solo fiuto». Da chi riceveva le notizie e come faceva a comunicarle al suo Comando? «Mi venivano portate da tutti i partiti e gruppi di Resistenza romani attraverso una vasta rete di agenti messi a mia disposizione dal membro socialista del Cln, Pietro Nenni, organizzati da Malfatti. I partigiani controllavano il traffico militare dei tedeschi sulle principali strade di Roma, 24 ore su 24. Le notizie venivano trasmesse al comando alleato 3-4 volte al giorno da Radio Vittoria, clandestina e gestita dal tenente di polizia Maurizio Giglio, medaglia d’oro, sepolto alle Fosse Ardeatine con venti dei nostri agenti partigiani vittime della rappresaglia nazista». Avete avuto a che fare con spie nemiche? «Il nemico più curioso fu Erich Priebke, capitano delle SS, dipendente del capo della Gestapo di Roma Kappler. Doveva dare la caccia alle spie nemiche. Durante un coprifuoco lo intrattenni per un’intera notte di baldoria in un appartamento dei Parioli, con belle ragazze, al suono della chitarra di Piero Piccioni. Un giornale del dopoguerra commentò l’evento col titolo Il topo invita a cena il gatto!». Ha mai rischiato la vita? «Ogni minuto: come quando la Gestapo arrestò il tenente della Polizia dell’Africa Italiana (clandestino socialista) che mi aveva arruolato come caporale. Dovetti disertare dalla caserma al Foro Mussolini, ma andò bene. Il tenente non parlò ed ebbe la fortuna di trovarsi sul camion abbandonato dalle SS in via Tasso la notte del 4 giugno. I passeggeri del secondo mezzo finirono fucilati a La Storta. Con lui si salvarono Peppino Gracceva, comandante della Resistenza armata socialista a Roma, e Arrigo Paladini, che gestiva Radio Vittoria dopo la morte di Giglio. Seviziati da Priebke per confessare il mio nascondiglio nel Ghetto, non avevano fiatato». Senza le intelligence, la Seconda guerra mondiale sarebbe finita diversamente? «L’influenza maggiore sull’esito della guerra l’ebbero la macchina Enigma e Ultra, il sistema di decifrazione dei messaggi nazisti che permise a Churchill di scoprire i piani più delicati di Hitler. Ma alla testa di ponte di Anzio i messaggi di Ultra giungevano troppo tardi per agire, mentre quelli di Radio Vittoria arrivavano subito. Così alcuni storici, come Carlo D’Este, hanno finalmente riconosciuto alle informazioni trasmesse via radio dai partigiani romani il merito del salvataggio della testa di ponte di Anzio. Se gli alleati fossero stati ricacciati in mare, lo sbarco in Normandia quattro mesi dopo sarebbe stato ben più problematico e psicologicamente più pericoloso».