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 2005  novembre 19 Sabato calendario

«Sono colpevole: ho anticipato i tempi». Corriere della Sera 19/11/2005. «La politica di oggi mi annoia

«Sono colpevole: ho anticipato i tempi». Corriere della Sera 19/11/2005. «La politica di oggi mi annoia. Riesco a guardarla poco in tv, mi fermo sulle trasmissioni di Ferrara e Lerner, poi torno a immergermi nei libri. La politica di una volta era una fede, una missione, avevamo la verità in tasca, volevamo cambiare il mondo, credevamo di poter cancellare la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, proprio come – pensavamo in buona fede – era avvenuto in Urss. Guardavamo al comunismo realizzato come a un sogno, a quei Paesi come a un paradiso terrestre. Avevo diciott’anni, la tessera del partito clandestino, la voglia di lottare. Prestissimo, dopo la guerra, a Ferrara, diventai responsabile dei giovani. Riunioni di sette ore per non dire nulla, dovevamo stare seduti per assistere al rito. Non faceva per me. Cominciavano le prime delusioni, la rottura con la Jugoslavia, Tito che dalla sera alla mattina diventava un nemico, non capivo e nessuno spiegava. Nel giro di pochi mesi, lascio. Ho conservato la tessera del Pci fino al 1956. Dopo Budapest non ce l’ho fatta più. Ma perché lei mi sta tirando fuori tutto questo? Non mi sono mai esposto in vita mia, sono stato sempre fuori dal giro dei cinematografari, sognavo di fare il regista con uno pseudonimo, speravo di essere dimenticato e ora mi trovo qui a raccontare le amarezze, le ferite, i drammi che la politica mi ha fatto vivere. Lo sa che tutti i miei film sono risultati sgraditi al potere culturale? Ho parlato di guerra civile fra italiani, di errori/orrori del comunismo, di stragi compiute in Sicilia dai garibaldini, ho cercato di mostrare la grandezza morale di Matteotti, al di là del suo omicidio. Andavo a cercare gli episodi meno conosciuti, cercavo di mettere in luce l’altra faccia dell’eroismo ufficiale. Ho pagato molto, per questa scelta. Sono l’unico autore fuori da tutte le rassegne, dai premi, lontano dai nastri d’argento, i miei film non sono mai previsti nelle serie vendute dai quotidiani. Ma non mi sento una vittima, anzi. Avrei dovuto fare lo storico, era quella la mia vera passione». Il regista che voleva essere dimenticato è un signore molto bello, ha gli occhi azzurri, un sorriso dolce e disarmante, è alto e ha un portamento elegante. Incontro Florestano Vancini in un bar dell’Hotel de Russie, a piazza del Popolo. Mi accoglie e sento che preferirebbe scappare, evitare di parlare di sé: «Avrei voluto disdire l’appuntamento – confessa – ma poi ha prevalso l’educazione. E allora, eccomi qui: nato a Ferrara il 24 agosto 1926, nel 1966 fui praticamente cancellato per avere raccontato, in un film che si chiamava Le stagioni del nostro amore, le cose che ci dicevamo, Bollò come «una buffonata» il film «Le stagioni del nostro amore» sui dubbi della sinistra noi autori di sinistra, la sera a cena. Un errore imperdonabile: avrei dovuto girarci intorno, usare metafore. Dino De Laurentiis mi invitò: "Togli la politica, è una bella storia d’amore". E invece scelsi come protagonista un giornalista comunista, deluso dal crollo dei suoi ideali. Goffredo Fofi definì il film «una buffonata». L’Unità mise la recensione, ultima di dodici, poche righe dopo un film di Franco e Ciccio. Gli altri, tutti, mi avvolsero in un silenzio assordante. Soltanto 7-8 anni fa, mi telefonò Furio Scarpelli, lo sceneggiatore che ha firmato con il povero Age tanti film di successo, per dirmi che la notte in tv l’aveva visto e gli era piaciuto. Ho apprezzato quel gesto, ma poi gli ho chiesto: dunque, allora non l’avevi visto? Ho capito dopo tanti anni che nessuno di loro era andato a vederlo». «Loro» sono i compagni di avventura, quelli con cui aveva condiviso la gavetta, i documentari, le cene da Otello alla Concordia in via della Croce e i pasti di mezzogiorno alla trattoria Menghi, «dove ci scannavamo per discutere di comunismo, Ungheria, libertà, socialismo. Loro, colleghi e amici, pensarono che fossi passato al nemico, che avessi tradito, mettendo in scena i nostri dubbi, i nostri tormenti. Mi ha fatto piacere che Piero Fassino, invece, avesse raccontato di essere stato sconvolto da quel film. "Fu come una folgorazione", disse. Ci siamo parlati, lui mi ha spiegato che vide il film quando aveva sedici anni, due mesi dopo la morte di suo padre, che era stato un socialista. Mi confessò che la notte non aveva dormito e l’indomani a scuola aveva preso un tre, l’unico della sua carriera di liceale». Vancini era arrivato a Roma da Ferrara all’inizio dei Cinquanta: «Dopo una lunga corrispondenza con il ferrarese Antonioni, iniziai con lui e con Citto Maselli, sono stato aiuto regista di Valerio Contribuì alla sceneggiatura di «Bronte», che narra una pagina nera del Risorgimento Zurlini e Mario Soldati». Figlio del portalettere di Boara, a 5 km da Ferrara, andava in bici in città per frequentare le medie. «Ero l’unico a continuare gli studi dopo le elementari, gli altri andavano in campagna o "a mestiere", a imparare a fare i meccanici. A Ferrara, mia madre mi portava all’Opera a sentire Beniamino Gigli, alla sera ascoltavamo i concerti Martini e Rossi trasmessi alla radio. Leggevamo Il Corriere Padano fondato da Italo Balbo e diretto da Nello Quilici, padre di Fulco: era un grande giornale e aveva un’ottima terza pagina. Dopo avere visto Ombre rosse e La grande illusione, iniziai a comprare Cinema, la rivista ideata da Vittorio Mussolini dove scrivevano De Santis, Lizzani, Antonioni. L’unico che davvero, in quegli anni, si era tenuto lontano dal fascismo è stato il grande scrittore ferrarese Giorgio Bassani. Fin dal 1938, era uno dei nomi noti all’Ovra, la polizia segreta del Duce. Nel 1943, a causa dell’armistizio, l’anno scolastico iniziò con un mese di ritardo, il 15 novembre. Era il mio primo giorno di scuola: come sempre attraversai Ferrara in bicicletta, quando vidi i morti, tutti borghesi e antifascisti, in piazza. Erano undici: quattro e quattro ai lati delle mura davanti alla farmacia, due sulle mura e uno più lontano, da solo, doveva essere un passante fucilato per caso insieme agli altri. Una strage che ha segnato per sempre la mia vita. Tutti in città sapevano che erano stati gli italiani, i fascisti, a compiere quella orrenda vendetta: conoscevo i morti, pensai che avrei dovuto raccontare, prima o poi, la verità su quella vicenda. Bassani scrisse una novella e allora mi decisi a cercare un produttore. Ma Goffredo Lombardo mi negò i soldi: "Fai vedere gli italiani che si sparano fra loro, chi altro lo sa? Non è meglio usare i tedeschi?". In quegli anni, la Resistenza si raccontava così: italiani tutti patrioti e tedeschi tutti oppressori. Per produrre La lunga notte del ’43 mi aiutò Mauro Bolognini, mandò il copione a Tonino Cervi e a Sandro Iacoboni». Il film è premiato alla mostra di Venezia nel 1960, l’estate in cui crolla il governo Tambroni: «Alle prime proiezioni, la polizia aveva mandato le camionette, c’era un clima pesante. La Dc stava per voltare pagina, mollare il Msi per incamminarsi verso il centrosinistra». Con Vancini parliamo per ore, andiamo dal Rinascimento che ha ispirato il suo ultimo lavoro, E ridendo l’uccise, un film in costume che denuncia la distanza fra la vita degli Estensi e quella della povera gente, alla nascita delle leghe contadine nel ferrarese: «Contro i lavoratori che finalmente si organizzavano, gli agrari scatenarono il fascismo. Solo chi ha visto le condizioni bestiali in cui lavorava la nostra gente sa cosa fu la repressione che partì dal 1919 contro quelli che, guidati proprio da Matteotti, rivendicavano diritti minimi». La repressione dei moti popolari è anche il tema del capolavoro di Vancini, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, del 1972. La storia del paesino che si ribella all’arrivo dei garibaldini guidati da Nino Bixio, raccontata in codice in una novella di Verga, La libertà, venne bollata da Leonardo Sciascia, come «uno scheletro nell’armadio» del Risorgimento. Scritto proprio insieme a Sciascia («un polentone padano come me aveva bisogno della sua sicilianità») il film svela un segreto nascosto dai resoconti ufficiali e mostra l’altra faccia dei «liberatori». Rovistando nelle pagine nascoste del passato, fra mille racconti che meriterebbero una seconda puntata, il regista delle delusioni politiche si è finalmente arreso all’intervista. Ricevo, al commiato, un gran sorriso e un invito: mercoledì 30 novembre, alla casa del cinema di villa Borghese, verrà proiettata una copia, restaurata, di Bronte. Barbara Palombelli