MACCHINA DEL TEMPO DICEMBRE 2005, 22 novembre 2005
Il nostro aereo sorvola un imponente fronte temporalesco. Tranquilli, la tempesta di fulmini che sta martoriando la terra laggiù non può raggiungerci
Il nostro aereo sorvola un imponente fronte temporalesco. Tranquilli, la tempesta di fulmini che sta martoriando la terra laggiù non può raggiungerci... o almeno questo è ciò che credete voi! Minnesota, 6 Luglio 1989. Il dottor John Winckler dell’Università del Minnesota sta testando alcuni sensori ottici ad alta sensibilità, puntandoli verso una tremenda tempesta molto distante. Il dottor Franz arriva dopo il tramonto per calibrare gli strumenti. Pochi minuti dopo aver sostituito un connettore difettoso, sullo schermo appaiono due immensi fulmini che si propagano per decine e decine di chilometri verso la ionosfera. Immediatamente s’accorgono di aver assistito a un evento eccezionale. Di che generi di fulmini si trattava? Le ricerche dei giorni successivi portarono alla luce articoli e lavori dimenticati di illustri fisici che descrivevano il fenomeno. Già nel 1886 si leggevano descrizioni di «continui dardi di luce... (che) salgono ad altitudini considerevoli» o di «fiamme che si propagano dalla cima delle nuvole verso lo spazio». Ma senza una telecamera a elevata sensibilità quei fenomeni vennero liquidati come semplici fulmini o strani lampi di luce. Invece si trattava di ”megafulmini”. Alla base dei fulmini o dei megafulmini c’è sempre una differenza di potenziale tra due corpi che viene scaricata dal canale di elettricità. La scarica elettrica che ristabilisce l’equilibrio è solitamente composta da un fiume di elettroni che cercano di incontrare la minor resistenza elettrica possibile, avanzando a zig-zag. Raramente succede che il fulmine sia composto da ioni positivi (fulmine positivo) ed è proprio questo tipo di fulmine a essere fortemente correlato alla vita dei megafulmini scoperti da Winckler nel 1989. Gli studi con apparecchiature sempre più sensibili e test mirati tolsero finalmente il velo al misterioso mondo dei fulmini sopra le nuvole. Ma come chiamare questo fenomeno? In fisica occorre scegliere bene il nome, in quanto potrebbe richiamare meccanismi che non appartengono al fenomeno stesso. Alcuni proposero ”fulmini verso lo spazio” o ”fulmini ascensionali”, ma ancora non era chiara la loro natura, pertanto prevalse il nome di ”Sprites”, gli spiritelli che animano le opere di Shakespeare, proposto nel 1994 dal professor David Sentman dell’università dell’Alaska. Quello che inizialmente sembrava un confuso lampo rosso apparve essere formato da una miriade di canali di scarica fittamente intrecciati. Questa megascarica assume una forma ad albero, le cui radici nascono da considerevoli altezze sopra le nubi e le cui fronde si perdono nel misterioso mondo della ionosfera, lo strato dell’atmosfera dove vengono intrappolate le particelle ad alta energia che, seguendo le linee del campo magnetico, danno vita alle spettacolari aurore. Il colore predominante degli ”Sprites” è il rosso, a causa della ionizzazione dell’azoto e la sua potenza stimata va dai 5 ai 50 GW. Sì, avete letto bene: ogni ”Sprite” ha la potenza di migliaia di potentissime centrali elettriche. Gli ”Sprites” raramente nascono soli: spesso in cielo è possibile assistere a una sorta di danza, una festa pirotecnica che si sussegue per decine di chilometri in una sequenza micidiale. Quali danni può provocare uno Sprite a un aereo accidentalmente colpito? difficile dirlo con precisione. Poco dopo il disastro del Columbia, nel febbraio 2003, fece scalpore la fotografia scattata a San Francisco che mostra un grosso fulmine attraversare la scia lasciata dallo Shuttle nel suo rientro. Le statistiche dicono che ogni aereo viene colpito almeno una volta l’anno da un fulmine, ma questo entra solitamente dal muso per poi uscire dall’estremità di una semiala, con trascurabili effetti sulla struttura e nessun effetto sui passeggeri, protetti come sono dalla ”gabbia di Faraday” della fusoliera. Inoltre, questi megafulmini non sono soli. Victor Pasko, ingegnere della Penn State, negli anni Novanta riuscì a documentare un’altra forma di scarica, i blue jet (’impulsi blu”). Anch’essi si sviluppano in altezza, ma a quote inferiori a quelle raggiunge dagli sprite. Insomma, fino a poco tempo fa si credeva che il rischio cessasse comunque una volta al di sopra delle nubi, ma le ultime scoperte gettano una nuova incognita tra i calcoli degli ingegneri: gli ”Sprites”, una forza della natura talmente grande e potente da poter essere vista da centinaia di chilometri di distanza, capace di unire le nubi allo spazio, dal diametro di diversi chilometri. Un gigante del cielo al quale non eravamo assolutamente preparati.