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 2005  novembre 21 Lunedì calendario

«A Saint Benoît de Vézelay, in Francia, mi hanno anche lavato i piedi», racconta don Mauro Arizzi, un prete bergamasco che di monasteri ne ha visitati parecchi, di qua e di là delle Alpi

«A Saint Benoît de Vézelay, in Francia, mi hanno anche lavato i piedi», racconta don Mauro Arizzi, un prete bergamasco che di monasteri ne ha visitati parecchi, di qua e di là delle Alpi. Se dovesse succedere anche a voi, non stupitevi più di tanto. L’ospite è sacro non è un modo di dire per chi segue la regola di San Benedetto, il padre del monachesimo, o di uno dei molti santi che dopo di lui hanno dato vita a comunità di uomini e donne dedite alla contemplazione. L’idea di fermarsi qualche giorno in una delle innumerevoli oasi dello spirito disseminate per l’Italia è stuzzicante. Ancor più se fuori stagione, quando la ressa vacanziera è solo uno spiacevole ricordo. «Può essere l’occasione» continua don Mauro «per concedersi un periodo di silenzio e di riposo incontrando uno stile di vita diverso». La durata ideale di un soggiorno? «Da quattro giorni a una settimana. Un giorno o due non bastano per ambientarsi, mentre per tempi più lunghi bisogna essere già allenati». Conviene però chiarire una cosa. Qui si parla di luoghi di preghiera secolari, in cui la giornata è rigorosamente scandita dai tempi della liturgia e della meditazione. Chi non s’accontenta di scattare qualche foto-ricordo a un monastero e di farvi scorta di prelibatezze durante una breve gita fuoriporta, ma chiede di trascorrere qualche giorno in compagnia dei suoi abitanti, è bene che sappia cosa lo aspetta. Questo non significa che bisogna esibire la patente di devoti praticanti, tantomeno occorrerà essere incalliti frequentatori di preti e sacrestie. Spesso, anzi, un laico curioso e ben disposto potrà trovare benefici maggiori di tanti habitué del sacro incapaci ormai di sorprendersi. Non è un caso che sempre più persone decidano di spendere qualche giorno in questi luoghi. Esistono tanti tipi di monasteri. Alcuni sono più spirituali: ti permettono di andare oltre la foresteria per diventare partecipe della vita comunitaria. Altri sono invece più alberghieri: la foresteria è adatta anche a famiglie con bambini piccoli e gli ospiti sono meno legati agli orari dei monaci. Un caso tipico è il convento-santuario della Madonna di Pietralba, incorniciato dallo splendido scenario dolomitico: l’ospitalità è assicurata dalla pensione adiacente, di proprietà dei monaci ma data in gestione a una famiglia. Altre comunità, invece, hanno allestito entrambe le soluzioni. Alla Verna, ad esempio, oltre alla classica foresteria c’è un eremo per cinque o sei persone al massimo, per chi desidera ripetere in tutto la vita dei monaci. Stessa cosa a Camaldoli. Prima di partire, inoltre, è meglio informarsi sul tipo di accoglienza: spesso è unisex (ospiti maschi se il monastero è maschile, femmine se le padrone di casa sono monache), alcuni invece accettano la promiscuità. Ma cosa succede quando un visitatore bussa alla porta di un convento? Spiega don Mauro: «Il padre forestario ti mostra gli ambienti e ti inizia agli orari del monastero, organizzati intorno alla preghiera (la Liturgia delle ore) e al lavoro, secondo il motto benedettino ora et labora. Poi ti dà la chiave comune per accedere ai luoghi accessibili all’ospite». Le stanze dei visitatori sono pressoché identiche alle celle dei monaci: spartane e pulitissime, contengono un letto, lavabo, un piccolo armadio e un tavolino sopra il quale non manca mai la Bibbia. I servizi igienici sono quasi sempre in comune. Cosa mettere in valigia? «Solo vestiti e biancheria di ricambio» prosegue don Mauro «il monastero infatti assicura tutto il resto. Io ci vado spesso proprio perché non mi devo preoccupare di niente, se non di riposare e meditare». La giornata dei monaci è scandita da appuntamenti fissi, tranne qualche eccezione per la domenica e le festività. Ogni comunità ha il proprio orario, ma più o meno si assomigliano tutti. A Sant’Antimo i monaci si svegliano alle cinque e un quarto, alle sei meno un quarto sono in chiesa per le prime preghiere, che poi si protraggono fino alle otto. Una pausa per la colazione, poi la Lectio divina e la messa. Quindi ancora preghiera e il lavoro. All’una meno un quarto piccola preghiera prima del pranzo nel refettorio, poi riposo fino alla ripresa delle attività, alle quindici: studio, ancora lavoro e attività pastorale. Alle sette di sera, prima di cena, il vespro. La giornata si conclude con la preghiera serale (compieta), quindi ognuno si ritira nella propria cella. Alcune comunità, specie quelle di clausura stretta, hanno un momento di preghiera nel cuore della notte. Gli ospiti sono invitati a uniformarsi all’orario, ma sempre con molta elasticità. La preghiera è uno degli aspetti fondamentali sia nella dimensione comunitaria (la Liturgia delle ore, spesso cantata integralmente in gregoriano) sia in quella personale (la Lectio divina). Molto importanti anche i due pasti principali, il pranzo e la cena: nel refettorio (spesso è un locale splendidamente affrescato e arredato con mobilia antica) i monaci e i loro ospiti mangiano insieme. Questi ultimi vengono serviti di tutto punto perché, come spiega don Mauro «devi essere favorito nella meditazione, anche mentre mangi». Durante il pasto infatti, si svolge il rito della Lectio continua: un monaco a turno legge ad alta voce un passo del Vangelo, il brano di un padre della Chiesa (ma si usano anche autori contemporanei), un passo dell’Imitazione di Cristo e per finire uno della regola della comunità. Questa abitudine non penalizza affatto la qualità del cibo, che è quasi sempre ottima. La cucina del territorio, in fondo, i monaci l’hanno sempre praticata. In certi posti l’ospite, se vuole, può contribuire al lavoro manuale. I monaci, infatti, per quanto possibile puntano ancora sull’autosostentamento: producono vino e distillano liquori, preparano miele e cioccolata, raccolgono erbe per medicamenti naturali. Senza contare la grande cura per l’orto, che fornisce gran parte del cibo consumato. Alcuni monasteri hanno continuato l’arte del restauro di libri e di stampe antiche, le comunità claustrali femminili spesso ricamano paramenti sacri. Da ricordare, infine, il paesaggio in cui sono incastonati (venivano eretti in luoghi elevati e isolati). Insomma, di motivi per passare qualche giorno in una di queste oasi ce n’è più d’uno. Basta mettersi in cammino. E staccare il cellulare.