MACCHINA DEL TEMPO OTTOBRE 2004, 21 novembre 2005
I sintomi ci sono tutti: il corpo manda segnali inequivocabili, la malattia avanza inesorabilmente. Le certezze degli ipocondriaci non cedono neanche di fronte all’evidenza dei più scrupolosi esami diagnostici
I sintomi ci sono tutti: il corpo manda segnali inequivocabili, la malattia avanza inesorabilmente. Le certezze degli ipocondriaci non cedono neanche di fronte all’evidenza dei più scrupolosi esami diagnostici. Se l’esito è negativo, ossia non vi è traccia della patologia temuta, il paziente non si arrende, richiede ulteriori accertamenti, consulta nuovi specialisti, legge, studia, si informa, nell’affannosa ricerca della causa fisica (perché una causa ci deve essere) del suo male. «Oltre il 20 per cento delle persone nel mondo è affetta da disturbi fobici. Il 10 per cento soffre di patofobie e un quinto di queste di ipocondria», dice Giorgio Nardone, direttore del Centro di Terapia Strategica di Arezzo e docente di Tecnica di Psicoterapia all’Università di Siena, che spiega cos’è la differenza tra patofobici e ipocondriaci: «Entrambi i soggetti sono ossessionati dalle proprie condizioni di salute, ma mentre il patofobico si fissa su un’unica malattia, l’ipocondriaco legge i segnali che provengono dall’organismo come sintomo di varie patologie». In Italia i malati immaginari sono circa 8 milioni e spendono 500 milioni di euro l’anno tra medicine, esami e visite specialistiche. Cifre poco rassicuranti per il senatore Antonio Gentile, membro della Commissione Finanze del Senato, che ha ritenuto di dover informare il Parlamento degli allarmanti risultati della ricerca sui costi dell’ipocondria nel nostro Paese. Ma che fare per arginare il fenomeno? Come si fa a guarire dalla paura di essere gravemente malati? Una proposta viene lanciata da una recente ricerca pubblicata sul ”Journal of the American Medical Association”: abbandonare le cure mediche a base di farmaci e affidarsi alla psicoterapia. Su 187 pazienti divisi in due gruppi, uno dei quali sottoposto a sei sessioni da 90 minuti di terapia cognitiva del comportamento per oltre sei settimane, gli scienziati guidati da Arthur Barsky del Brigham Women’s Hospital and Harvard Medical School di Boston, hanno constatato nei pazienti curati con la psicoterapia un netto miglioramento rispetto a quelli curati con tradizionali terapie mediche. «Per noi non è una grande novità», dice Giorgio Nardone: «è da 15 anni che utilizziamo protocolli specifici per affrontare disturbi fobici e ossessivi. Con la terapia strategica si ottengono buoni risultati in tempi brevi. Non si va infatti alla ricerca della causa remota della sindrome da cui si è affetti, ma si cerca di spezzare il meccanismo patologico che si è innescato». Insomma dall’ipocondria non si esce con le pillole. «Anzi», prosegue Nardone, «il 95 per cento dei pazienti che si rivolge al nostro centro vi arriva dopo aver seguito inutilmente varie terapie farmacologiche a base di ansiolitici e antidepressivi. I primi riescono a ridurre l’ansia, ma non eliminano il problema alla radice e inoltre danno dipendenza; i secondi invece possono provocare fastidiosi effetti collaterali. I tempi per liberarsi dai farmaci sono piuttosto lunghi. Bisogna calcolare almeno un anno». Con lo sguardo continuamente rivolto a se stesso, l’’ipocondriaco tipo” affligge amici e parenti con l’elencazione minuziosa di tutti i suoi disturbi, controlla continuamente le sue condizioni di salute, sia ricorrendo ai medici sia con banali sistemi ”fai da te”. C’è chi a intervalli più o meno regolari si misura la temperatura, chi la pressione, chi si sottopone a test neurologici improvvisati per verificare la funzionalità dei propri movimenti, della memoria o del linguaggio, per scongiurare danni cerebrali irreversibili. «A tutti costoro», dice il professor Nardone, «noi proponiamo alcuni esercizi che ricalcano proprio le ossessive abitudini dei pazienti. è la cosiddetta tecnica ”di spegnere il fuoco aggiungendo la legna”. Per esempio suggeriamo di mettersi tre volte al giorno davanti a uno specchio e sottoporre il proprio organismo a un check-up completo, annotando tutti i sintomi che si avvertono. Oppure di ascoltare i battiti cardiaci, prima ogni minuto, poi ogni cinque, poi ogni ora e così via, procedendo a un monitoraggio continuo del cuore, in modo tale da prendere confidenza con l’organo ”nemico”. è un sistema che permette di alimentare in maniera volontaria la paura. Dopo circa tre-quattro mesi nell’88 per cento dei casi il paziente non teme più un fenomeno che sa di poter innescare a suo piacimento». All’origine della paura di essere malati, il più delle volte, non ci sono eventi scatenanti. Né traumi, né lutti improvvisi, né gravi incidenti. Il processo si avvia lentamente e cresce alimentandosi in un circolo vizioso. Eppure ipocondriaci non si diventa per caso. «Il disturbo ha una sua precisa funzionalità», dice Valeria Verrastro dell’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie di Roma. «Sta a noi psicologi capire quale essa sia. In passato si era rivolta al nostro istituto una ragazza di 21 anni che presentava un’ossessiva preoccupazione di contrarre malattie indotte dalla scarsa igiene dell’ambiente, per cui si lavava le mani in continuazione fino ad arrivare a scarnificarle. Ebbene dopo qualche seduta di terapia è venuto fuori che in questo modo lei poteva evitare di avere rapporti sessuali con il marito a cui evidentemente voleva far scontare qualche colpa. In più riduceva al minimo i contatti coi parenti, ritenuti responsabili di averla obbligata a sposarsi troppo giovane». Per i greci antichi l’ipocondria («sotto le coste») consisteva in una condizione di malessere associata a disturbi digestivi e dolori addominali generati dagli organi dell’ipocondrium, la zona sotto la cassa toracica. A distanza di 2.500 anni la parola greca compare nel Dsm (Diagnostic and statistical manual of Mental Disorders) con la seguente definizione: «Una non realistica interpretazione di segni o sensazioni fisiche che vengono considerati anomali fino a giungere alla preoccupazione, paura o convinzione di avere una malattia». «Le definizioni però lasciano il tempo che trovano», dice Luigi Solano, docente di psicosomatica all’Università La Sapienza di Roma. «La descrizione da manuale con tanto di diagnosi e terapia consigliata rischia di far cadere il problema in una eccessiva medicalizzazione. In questo modo scompaiono le persone e il loro contesto psicosociale. Sarebbe invece auspicabile promuovere un approccio individualizzato che affronti caso per caso le ragioni del disturbo, la situazione familiare, lavorativa e affettiva delle singole persone». Ma se non è una malattia, allora di che si tratta? Spiega Solano: «L’organismo, secondo la teoria del codice multiplo di Wilma Bucci, funziona con 3 sistemi: verbale, simbolico (non verbale) e subsimbolico. In condizioni ideali i 3 sistemi sono connessi e funzionano in armonia. Quando per qualche motivo viene a mancare la connessione l’individuo percepisce segnali che non è in grado di comprendere, a cui però cerca di dare delle risposte. è qui che può nascere l’ipocondria». Toccherà allo psicoterapeuta tentare di risolvere il corto circuito. «Vale ancora una volta l’imperativo socratico ”conosci te stesso”», sostiene il professor Solano. «Un invito che tutti i medici dovrebbero saper rivolgere ai propri pazienti. Per questo abbiamo pensato di far svolgere ad alcuni dei nostri studenti il tirocinio nelle Asl, a fianco dei medici di base. Perché dietro ogni disturbo fisico c’è sempre la controparte psicologica che il più delle volte viene ignorata. Si pensi a quanti esami inutili vengono prescritti solo per far stare più tranquilli i pazienti. Ebbene lo psicologo potrebbe affrontare il problema con altri strumenti, sicuramente meno dispendiosi. Una più stretta collaborazione tra medicina e psicologia sarebbe auspicabile». Se ne sono accorti anche i ricercatori di Boston che concludono il loro studio con un rimprovero ai medici americani: troppi esami e troppi farmaci! L’ipocondria non si risolve con un’ecografia epato-biliare.