MACCHINA DEL TEMPO OTTOBRE 2004, 21 novembre 2005
«Scappare, bisogna scappare!». Furono le ultime parole di Lev Tolstoj, ottantaduenne e in punto di morte, dopo l’ennesima fuga da casa, che si concluse alla stazione di Astapovo, in Russia, il 7 novembre 1910
«Scappare, bisogna scappare!». Furono le ultime parole di Lev Tolstoj, ottantaduenne e in punto di morte, dopo l’ennesima fuga da casa, che si concluse alla stazione di Astapovo, in Russia, il 7 novembre 1910. Lo scrittore aveva fatto della fuga il leitmotiv della sua vita: lo sapeva bene la moglie Sofi’ja, che dedicò quasi cinquant’anni al tentativo di trattenere il marito. Lo sapeva meglio lui stesso, che incise il tema in tutta la sua opera: Anna Karenina, Ivan Il’ic, Chadzi Murat, ogni suo personaggio fugge dalla consapevolezza di aver vissuto una vita insincera. Prima e dopo Tolstoj, la voglia di fuga ha accompagnato l’esistenza di artisti, scienziati e gente qualunque. L’episodio celebre più recente è quello di Bobby Fisher, il genio americano degli scacchi arrestato lo scorso agosto mentre tentava di scappare nelle Filippine: stavolta lo cercavano per reato d’opinione avendo detto, dopo l’11 settembre 2001, che godeva dell’attentato alle Twin Towers e altri se ne augurava. Ma era già sparito, senza motivo, dopo aver battuto a scacchi Boris Spasskij. Era il 1972. Vent’anni dopo la ricomparsa, per concedere una rivincita all’avversario. Personaggi e situazioni da romanzo, questi, che finiscono sui giornali. Poco o nulla si sa invece delle migliaia d’individui in fuga, ogni giorno, da qualcosa o da qualcuno (forse, invano, da se stessi). Alcuni, ad esempio gli adulterini, scappano restando all’apparenza al posto loro. Altri cambiano davvero, e di continuo, ufficio, città, magari continente. Altri ancora svaniscono nel nulla: in Italia, contando solo gli adulti, le denunce di scomparsa sono 20 mila l’anno; negli Usa la stessa cifra si raggiunge in un giorno (dati Criminalpol). Cosa spinge questa massa d’individui a cercare altrove - in un nuovo amore, un nuovo lavoro, una nuova identità – quello che ritengono di non poter trovare dove già sono? Aldo Carotenuto, docente di Psicologia della Personalità all’Università ”La Sapienza” di Roma, spiega: «Chi scompare ha ragioni serie, che bisogna rispettare. Ha capito che restare sarebbe troppo penoso». Sciocco cercare chi fugge? «Sciocco e crudele» continua Carotenuto «perché una moglie dovrebbe inseguire il marito a Zanzibar tra i poveri?». Non tutti, però, fuggono per fare del bene agli altri. Anzi. Prendiamo il caso di Luciano Liboni, il killer noto come ”lupo solitario”, ucciso dalla polizia lo scorso luglio. Il personaggio ha affascinato tanti giovani, che hanno scritto sui muri «Luciano fuggi per noi». «Il fascino di Liboni» ammette Carotenuto «dipende dalla doppia personalità. Ricco e ammirato nell’altra parte del mondo, è tornato dalla parte nostra per rubare e ammazzare. La duplicità ha sempre affascinato tutti, perché tutti farebbero rapine ma pochi accettano l’idea d’ammazzare e finire in galera. Così, per i più, la doppia vita rimane un sogno inconscio». Senza arrivare a far del male agli altri, alcuni fuggono in luoghi esotici perché convinti che solo la distanza da casa gli consentirà di ricominciare daccapo. Ma per cominciare una nuova esistenza, bisogna andare lontano? «Diceva Socrate: ”Portando dietro te stesso hai finito col viaggiare proprio con quell’individuo dal quale volevi fuggire”. Ma noi» conclude Carotenuto «non siamo Socrate». La fuga, raccontata così, sembra un valore. «Nella fuga» dice la psicoterapeuta romana Maria Assunta Consalvi «non vedo connotazioni positive. Diversa è la voglia d’esplorare il mondo. Nel primo caso la molla è la paura, nel secondo la curiosità. Un conto è cambiare per migliorare, un conto è stare sempre in movimento, non vivere l’emozione del qui e ora per cercarne altre che non troveremo mai. Va bene lasciare una città dove stiamo volentieri per sperimentare il nostro spirito d’adattamento altrove, non va bene cambiare città di continuo perché nessun luogo è adatto a farci esprimere le nostre potenzialità. Quest’ultimo caso svela un’irrequietezza che spinge a cercare senza mai trovare, un’assenza di equilibrio. L’eremita che fugge il mondo è forse equilibrato? A mio giudizio no. Invece di farsi crescere la barba dentro una caverna, potrebbe fare qualcosa di meglio. Ad esempio aiutare i derelitti, e senza nemmeno arrivare in Africa. I bambini affamati, purtroppo, li trovi pure a Roma, alla mensa dei poveri di don Orione». Ma Carotenuto non è d’accordo: «è patologico chi sta sempre con lo stesso partner, chi fa sempre lo stesso lavoro, chi non aspira a nuovi orizzonti. Detto ciò, anche la fuga può diventare patologica. Succede quando procediamo come animali braccati senza che alcuna meta sia da considerarsi ambita. Quando il movimento diventa il nostro unico credo. Chi si ferma è perduto – diceva qualcuno che, così dicendo, ha finito con lo smarrire la strada».