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 2005  novembre 21 Lunedì calendario

La bordura era una magnifica aiuola fiorita di pietre blu, rosse, bianche, gialle e verdi; nel campo il colore della terra era imitato con l’oro; pietre chiare come il cristallo davano l’illusione dell’acqua; le piante erano in seta e i frutti erano formati da pietre colorate»

La bordura era una magnifica aiuola fiorita di pietre blu, rosse, bianche, gialle e verdi; nel campo il colore della terra era imitato con l’oro; pietre chiare come il cristallo davano l’illusione dell’acqua; le piante erano in seta e i frutti erano formati da pietre colorate». Così gli arabi antichi descrivevano il Bahar i Cosroe («la primavera di Cosroe»), un quadrato di venticinque metri di lato passato alla storia come il tappeto più prezioso di tutti i tempi e realizzato durante il regno di Cosroe I (531-578). Poiché gli arabi lo tagliarono in tante parti da vendere separate, è difficile stabilire se si tratti di un vero tappeto annodato a mano o se fosse invece un semplice arazzo ricamato. D’altra parte tutta la storia dei tappeti è circondata dal mistero, a partire dalla paternità dell’invenzione. Qualcuno ritiene che i primi annodatori furono gli egiziani, altri giurano sui cinesi, altri ancora sui maya. Ma su un punto sono tutti d’accordo: il tappeto nacque quando le popolazioni nomadi di qualche parte del mondo (forse in più parti del mondo contemporaneamente) pensarono di ricoprire il suolo delle loro tende con un manufatto più caldo e soffice delle semplici pelli d’animale. Uno spazio magico In Oriente il tappeto aveva una funzione pratica ma anche simbolica. Rappresentava uno spazio magico: i suoi bordi, limite della sfera del terrestre e dell’umano, si ergevano a difesa della sfera dell’universo e del divino. Ancora oggi i fedeli islamici, per pregare cinque volte al giorno, si prostrano sui tappeti, luoghi sacri che isolano e proteggono dal terreno impuro. In particolare (ma non necessariamente) sono adatti allo scopo i tappeti da preghiera, caratterizzati da una decorazione centrale, la nicchia o mihrab, che riproduce la stessa nicchia architettonica delle moschee, con la medesima funzione: orientare il fedele nella direzione della Mecca. Il mihrab rappresenta ”il portale del cielo”, l’ingresso al paradiso da raggiungere attraverso la preghiera. L’albero della vita Molto frequente nei tappeti orientali anche l’albero della vita, simbolo di fertilità ma anche collegamento tra il mondo magico (con le radici), il mondo umano (con il fusto), il mondo divino (con la chioma). Le nuvole, invece, rappresentano la protezione del divino, come le nuvole che circondano il sole. Collegato alle nubi è il motivo chintamani, anche detto «tuono e fulmini», formato da segmenti ondulati cui sono sovrapposti tre triangoli. Incerta la sua origine: forse discende da un emblema di Tamerlano, forse da un simbolo buddhista, forse dall’imitazione della pelle maculata di leopardo, usata dagli sciamani per i rituali sacri. In Persia, durante la dinastia safawide (XVI secolo), il significato del tappeto cambiò profondamente. Da oggetto legato alla vita quotidiana e al culto divenne simbolo di una classe sociale opulenta e dunque oggetto di lusso. Spesso annodato anche con fili d’oro e d’argento che formavano disegni molto elaborati, datato e firmato da grandi maestri, divenne una vera opera d’arte: i sovrani commissionavano tappeti per arredare palazzi o padiglioni all’aperto, oppure per stupire con un dono i governanti europei. La tintura dei colori era affidata, per tradizione, agli uomini, che nel corso dei secoli ottennero una serie inesauribile di tinte. Il rosso, oltre che dalla cocciniglia (un insetto che vive in India), si ricava dalla radice della robbia, arbusto spontaneo che cresce ancora oggi in molte zone dell’Iran. Le tonalità rosso-rosa si ottenevano mescolando al rosso il siero di bue, il blu si ricavava dalle foglie dell’indaco, il giallo dalle foglie di vite. Il nero, il grigio e il marrone derivavano dalle naturali tinte della lana di pecora, cammello o capra. Il drago cinese In Cina, a differenza del resto d’Oriente, i tappeti non vennero mai annodati per il culto né per l’uso domestico: semplicemente, servivano a ostentare la ricchezza del proprietario. In molti casi, attraverso la decodifica dei disegni, si ricavano informazioni sulla committenza del tappeto oppure sul destinatario del prezioso regalo. Anche in Cina i decori hanno un significato simbolico: il drago, con lunga testa e artigli simili a quelli di un leone, dal 1700 rappresenta l’imperatore e ha spesso accanto una fenice (l’imperatrice). Altro animale della mitologia cinese è il cane di Fo, simile a un leone, capace di custodire la quiete delle case e dei templi. E poi ci sono i pesci, augurio di abbondanza; il cavallo, simbolo di coraggio, e l’anatra, emblema della fedeltà coniugale. Tra le decorazioni vegetali, il bambù rappresenta longevità e perseveranza, la peonia ricchezza e rango, il loto purezza. Gli scavi archeologici hanno dimostrato la presenza di manufatti tessili in Cina dal 5000 avanti Cristo. Ma il reperto più prezioso rimane un frammento di tappeto annodato del IV millennio a.C. Re della montagna In Tibet i tappeti erano destinati a molteplici usi: come giacigli nei monasteri, nelle case e in viaggio; come tendaggi nelle dimore dei ricchi; sul dorso dei cavalli come coprisella; imbottiti con un cuscino come schienale dei sovrani e così via. Simbolo tibetano per eccellenza è la tigre, molto spesso raffigurata nei tappeti dei Lama e degli alti dignitari. La tigre o ”la variegata”, come la definì il poeta e santo Milarepa, rappresenta il coraggio, l’audacia, la dignità ma anche la purezza dello spirito: l’uomo che ne possiede l’immagine ne assorbe anche le qualità. La tigre era amata ma anche temuta, tanto che il suo stesso nome era tabù. La gente tibetana la chiamava ”Grande Insetto”, o ”Re della Montagna”. Dipinti del rinascimento Durante il Rinascimento furono importati in Europa, dalla Turchia, diversi tappeti Ushak (il nome deriva dalla regione di provenienza) di piccolo formato con grandi motivi geometrici su fondo rosso ed eleganti arabeschi dai colori forti. Molti pittori raffigurarono con la massima precisione il disegno di questi tappeti fissandoli nelle proprie tele. L’italiano Lorenzo Lotto (1480-1556) dipinse nei suoi quadri molti di questi tappeti, tanto che essi presero il nome dal pittore, perdendo quello d’origine. Un disegno geometrico con ottagoni o altre forme chiuse alternate viene invece definito Holbein, dal nome del pittore tedesco Hans Holbein (1497-1543) che raffigurò questo tipo di tappeti nei suoi dipinti. I tappeti Holbein, non molto grandi, realizzati in lana, hanno colori netti con prevalenza del blu, del giallo e del rosso. Il privilegio degli dei Il tappeto, qualunque sia la sua destinazione e provenienza, ha sempre affascinato storici, poeti e viaggiatori. Erodoto descrive la sua lavorazione in Egitto precisando che, a differenza di quanto accadeva altrove, erano gli uomini a occuparsi della fabbricazione. Senofonte, sia nell’’Anabasi” che nella ”Ciropedia”, narra quanto fosse importante il tappeto nella vita domestica degli orientali e si stupisce della bellezza di alcuni esemplari. Ateneo descrive i tappeti di Sardi, l’antica capitale della Lidia conquistata da Ciro nel 546 avanti Cristo. I tappeti di Sardi erano forse i più noti ai greci antichi perché la città fu per secoli zona di confluenza della civiltà greca e di quella orientale e importante centro di scambi commerciali. Gli stessi greci attribuivano al manufatto un valore divino. Eschilo, nell’Agamennone, fa distendere al suolo da Clitennestra preziosi tappeti per accogliere lo sposo vincitore. L’eroe esita: «Calpestarli è privilegio esclusivo degli dei».