MACCHINA DEL TEMPO OTTOBRE 2004, 21 novembre 2005
Spaghetti in salsa di squalo, linguine ai filetti di squalo, trancio di squalo alla griglia e rondelle di squalo al gratin
Spaghetti in salsa di squalo, linguine ai filetti di squalo, trancio di squalo alla griglia e rondelle di squalo al gratin. Queste ricette vi danno i brividi? Eppure chissà quante volte le avete gustate, senza saperlo, al ristorante o addirittura in casa, cucinate con le vostre mani. Secondo i dati Fao, infatti, con 12 mila tonnellate l’anno, l’Italia è uno dei maggiori importatori europei di carne di squalo. Considerando che nessun ristorante segnala tra le specialità del giorno piatti a base di pescecane, gli animalisti sono convinti che queste bestie rischiano l’estinzione perché sempre più spesso finiscono sulle nostre tavole col falso nome di specie più pregiate: tonno, palombo e pesce spada. Marco Affronte, responsabile scientifico della Fondazione Cetacea di Riccione, spiega: «La carne di squalo è commestibile, magra, proteica e senza spine. In realtà non è molto saporita ma un bravo cuoco sa come renderla appetibile. Alla fine, insomma, il consumatore è truffato e contento». Difficile riconoscere un pescecane anche se a far la spesa è un’esperta massaia: «Alcuni esemplari degli squali commerciabili vengono privati della testa, della pelle e delle interiora, tagliati in grandi fette e spacciati per pesce spada» continua Affronte. «Qualunque cuoca cade nel tranello, a meno che non impari a farsi furba. Se il pesce è venduto con la pelle, è bene tenere a mente che la pelle di squalo è ruvida, quella di pesce spada è liscia. Non solo: lo squalo non presenta alcuna parte ossea mentre nello spada la vertebra centrale è un osso». Nelle nostre padelle finiscono soprattutto verdesche, gattucci, spineroli o smerigli: «Gli squali si impigliano nelle reti italiane per caso» spiega Affronte «ma i pescatori, invece di ributtarli a mare, pensano di guadagnarci qualcosa spacciandoli per tonni». Gli italiani, comunque, non sono gli unici inconsapevoli consumatori di carne di squalo. Molto del bacalhau (baccalà) che si mangia alle Azzorre e nelle ex colonie africane del Portogallo è carne di squalo. E in Inghilterra è carne di squalo pure il pesce dei fish and chips. Ma i maggiori consumatori sono i cinesi, che da duemila anni trangugiano avidamente la zuppa di pinne di pescecane, giudicata anche un potente afrodisiaco. Tra una zuppa di pinne e un risotto all’aroma di squalo, insomma, stiamo facendo una strage. E i pescicani, presenti sulla Terra con successo da circa 400 milioni di anni, rischiano di scomparire. Ad esempio nel Mare del Nord lo smeriglio (Lamna nasus) fu quasi completamente sterminato in soli sette anni: lo sfruttamento intensivo iniziò nel 1961 (circa 1.800 tonnellate di pescato); nel 1964 si ebbe l’impennata (8.000 tonnellate); nel 1968 la parabola si era conclusa: le catture erano ormai ridotte a poche centinaia di animali. La pesca fu abbandonata ma ancor oggi, dopo 40 anni, la popolazione non si è ripresa. Stessa sorte rischiano in California lo squalo volpe, in Irlanda lo squalo elefante, in Nicaragua lo squalo grigio. In tutto il mondo, sempre secondo stime della Fao, vengono pescate oltre 700 mila tonnellate di carne di squalo. E la maggior parte viene ributtata in mare. Il motivo? La famosa zuppa cinese, che di recente ha avuto una grande diffusione nell’intero Oriente e nel resto del mondo: viene preparata utilizzando solo le pinne e quelle di maggiore valore sono la prima dorsale, le pettorali e il lobo inferiore della caudale. La pinna contribuisce a dare alla zuppa una consistenza gelatinosa, ma è di sapore pressoché nullo. Di conseguenza vengono aggiunti altri ingredienti come pollo e granchio. In origine tale delicatezza culinaria era riservata ai ricchi. Oggi, con i moderni mezzi di pesca su larga scala (ad esempio a strascico o coi palangari, vedi box sopra), la materia prima può essere ottenuta in quantità immense. I prezzi sono ancora elevatissimi: in un ristorante di Hong Kong si spendono dai 10 ai 100 dollari a seconda della quantità e del tipo di pinne utilizzate. Ma ormai, grazie al miglior tenore di vita dei cinesi, la zuppa appare anche sulle tavole degli impiegati. «Il fatto che le pinne valgano molto più del resto del corpo» spiega Affronte «ha portato al cosiddetto finning, anche detto ”spinnamento”: si pesca uno squalo, gli si asportano le pinne (che equivalgono al 5 per cento dell’intero corpo) e si getta in mare il resto della bestia. Il pescecane, così menomato, muore dopo lenta agonia». Per evitare ulteriori massacri la Fondazione Cetacea di Riccione ha aderito alla campagna ”Anti-Finning” promossa dal Club Squalo Anch’io dell’Acquario di Cattolica: «Il finning» spiegano gli organizzatori «è un vero e proprio insulto alla miseria e dipende dalla povertà e dall’ignoranza. Ciò che conta non è solo la sorte crudele degli squali, ma anche quella delle persone povere che distruggono le loro risorse alimentari». Per questo il Club interviene nel Centro Educativo del quartiere degradato di Novos Alagados a Salvador de Bahia (Brasile), uno dei Paesi dove si pratica questo tipo di pesca. Oltre a insegnare il rispetto dell’ambiente, il Centro fornisce a tutti la possibilità di imparare un lavoro dignitoso.