La Repubblica 16/11/2005, pag.16 Filippo Ceccarelli, 16 novembre 2005
E prima dei comunisti la odiarono fascisti e dc. La Repubblica 16/11/2005. Sull´elevazione a simbolo di una bibita, la più assoluta e inesorabile testimonianza proviene direttamente dalla Storia, con la maiuscola, nel suo concreto dipanarsi di desideri e ideologie, consumi e furori
E prima dei comunisti la odiarono fascisti e dc. La Repubblica 16/11/2005. Sull´elevazione a simbolo di una bibita, la più assoluta e inesorabile testimonianza proviene direttamente dalla Storia, con la maiuscola, nel suo concreto dipanarsi di desideri e ideologie, consumi e furori. Ma sul serio. Perché nessun prodotto, al dunque, nessuna marca, nessuna bevanda sono mai riusciti a unificare nell´avversione alla Coca-Cola quasi tutte le culture politiche italiane del secolo scorso, e un po´ - come si vede in questi giorni - anche del presente. Cominciarono, sessant´anni orsono, i fascisti. Visto con gli occhi e con il palato degli sconfitti, quell´intruglio frizzante e appiccicoso era arrivato sulle baionette dei liberators e aveva corrotto l´animo italiano, come dimostrava la smodata passione che alla bevanda subito avevano riservato sciuscià e signorine. «La marchesa - si legge nelle memorie di Mario Tedeschi, intitolate appunto Fascisti dopo Mussolini (L´Arnia, 1950) - ci offrì una bibita detestabile». Nemmeno il nome, insomma. Atteggiamento perpetuatosi nello sprezzante interrogativo espresso qualche anno fa da Pino Rauti ai suoi accompagnatori davanti a una pubblicità nella Repubblica popolare cinese: «Avete fatto una lunga marcia con così tanti morti per arrivare alla Coca-Cola?». Anche nel mondo comunista, comunque, quel liquido oscuro che tra il 1948 e il 1952 i compagni francesi avevano sparso per le vie di Parigi dopo aver assaltato camion e infranto migliaia di bottigliette, rimase a lungo un´entità innominabile: "la bibita Zeta-Zeta" si trova scritto su Vie Nuove. «Aho, di questo passo finisce che qualcuno arriva pure con la Coca-Cola!»: così venne accolto dai più settari compagni romani il giovane Sandro Curzi che un giorno si era presentato in federazione con un montgomery color sabbia, tipicamente americano. Del resto, proprio durante il dibattito parlamentare sul Patto Atlantico (1949), in risposta alle continue interruzioni di un deputato democristiano di cui erano note a Montecitorio le debolezze etiliche, lo stesso Palmiro Togliatti se ne uscì con istintivo e crudele sarcasmo: «Onorevole Tonengo - così si chiamava - si auguri che assieme alla Nato non venga approvata qualche clausola segreta con cui s´imponga persino a lei di bere Coca-Cola anziché il vino dei colli dell´Astigiano!». Anche i democristiani, c´è da dire, e ancora di più le occhiute gerarchie ecclesiastiche, diffidavano: della bottiglietta che sembrava ricalcare i fianchi femminili, oltre che del suo contenuto esotico, frizzante e al limite pericoloso, come il boogie-woogie. Certo, non arrivarono mai ai toni dell´epopea fiammeggiante e colpevolizzante divampata a sinistra nel corso della guerra in Vietnam: «Per ogni Coca-Cola che tu bevi - si animava il cantastorie Trincale - un proiettile all´America hai pagato/ e se il marine la mira non fallisce/ un compagno vietnamita è assassinato...». Ma ancora nel 1953, con la motivazione che nuoceva agli interessi dei produttori di vino, la bianca Coldiretti riuscì a far tassare la bibita. Poi anche i dc si adattarono al mercato. Gli ultimi o forse i penultimi nemici furono alla fine del secolo scorso i leghisti, per via dei bombardamenti americani in Serbia. «Coca-Cola? Mai più un sorso» titolò La Padania. Era il 1999. Di lì a poco, nel più classico e commerciale empito della post-politica, la lodò Silvio Berlusconi: «La Coca-Cola è stata un grande simbolo di libertà». Altri tempi - o forse no. Filippo Ceccarelli