MACCHINA DEL TEMPO NOVEMBRE 2004, 18 novembre 2005
Nel 2035 i robot vivranno tra di noi. Puliranno le nostre case, condurranno a passeggio i nostri cani e baderanno ai nostri bambini
Nel 2035 i robot vivranno tra di noi. Puliranno le nostre case, condurranno a passeggio i nostri cani e baderanno ai nostri bambini. Compiranno ogni genere di lavoro noioso e ripetitivo, senza lamentarsi. E, soprattutto, ci affideremo loro come a compagni, non come a elettrodomestici. Almeno, così la pensano il regista Alex Proyas e gli sceneggiatori Jeff Vintar e Akiva Goldsman, autori di Io, Robot, blockbuster cinematografico ispirato all’omonimo libro di Isaac Asimov. «Trent’anni non sono pochi, se si considera la velocità del progresso tecnologico» commenta Gianmarco Veruggio, fondatore del Robotlab al Cnr-Ian di Genova: «Mi sento ottimista: a mio avviso, convivremo coi robot molto prima del 2035». «Francamente, anch’io lo spero», interviene Fiora Pirri, del Dipartimento informatica e sistemistica all’Università La Sapienza di Roma: «Credo che, d’ora in avanti, i progressi saranno esponenziali. I robot saranno utilizzati prima nei servizi, poi nel mondo domestico, infine come veri e propri compagni». Insomma, fantascienza sì, ma fino a un certo punto. Asimov prevedeva la nascita del primo automa umanoide entro il 1995: siamo un po’ in ritardo, è vero, ma forse dipende anche da che cosa s’intende per robot. «L’abito non fa il monaco» sintetizza Giuseppe Casalino, direttore del Dipartimento di informatica, sistemistica e telematica dell’Università di Genova: «Un automa assume sembianze diverse per adattarsi all’ambiente in cui opera: non è indispensabile che abbia forme antropomorfe. Non è che il corpo umano sia la soluzione migliore per ogni tipo di situazione. Invece di soffermarmi sull’aspetto esteriore, affermerei piuttosto che un robot è una macchina in grado di compiere determinate operazioni, con processi decisionali assimilabili alle azioni umane. In pratica, non deve essere un ingranaggio che si limita a svolgere il lavoro per cui è programmato: deve poter comprendere situazioni, identificare e correggere anomalie, utilizzare esperienze. L’obiettivo, insomma, è costruire una macchina il più possibile autonoma dall’operatore umano. Indipendentemente dalle sembianze». Anche se la maggior parte degli attuali automi non ci somiglia, è indubbio che il robot umanoide ha un posto privilegiato nella fantasia popolare. Ne sanno qualcosa i giapponesi, autentici leader del settore. Quando nel 1950 raccolse i nove racconti che compongono Io, Robot, Isaac Asimov non poteva immaginare che questa nazione sarebbe diventata la patria dei suoi androidi. Eppure, è proprio nel paese del Sol Levante che oggi s’investono cifre da capogiro e si compiono gli sforzi maggiori per produrre robot a immagine e somiglianza umane. Lo testimonia anche Alberto Rovetta, del Laboratorio di Robotica del Politecnico milanese (http://robotica.mecc.polimi.it), di recente tornato da Okinawa, dove ha assistito a un’esibizione di Asimo, il robot costruito da Honda. «Il nome Asimo è senza dubbio un omaggio al grande Asimov», afferma Rovetta, «ma è anche l’acronimo di Advanced Step in Innovative MObility, che è come dire ”un passo avanti nella mobilità d’avanguardia”. E da questo punto di vista Asimo ha davvero qualcosa di prodigioso». Il programma di ricerca e sviluppo risale al 1986, ma il progetto vero e proprio ha inizio 4 anni fa. Oggi, nella sua ultima versione, il robot appare come una conquista al di là dell’immaginazione: non soltanto può camminare con una naturalezza quasi umana, ma è in grado di salire le scale ed evitare ostacoli, individuare oggetti, riconoscere ambienti, suoni e facce. Non solo: può interpretare la gestualità e la postura degli esseri umani, seguire una persona, salutarla, rispondere a una stretta di mano o a un saluto, voltarsi quando è chiamato per nome... D’altra parte, basta cliccare sul sito http://asimo.honda.com e guardare i videoclip presenti per rendersi conto che non stiamo osservando soltanto un complicato giocattolo. «Asimo è un robot radiocomandato da ben 3 operatori», osserva Casalino. «Ma i comandi sono di una sofisticazione estrema. Gli si ordina semplicemente di salire le scale e Asimo lo fa da solo. E forse non è sempre così immediato pensare che cosa davvero significhi ”salire le scale”: occorre che il robot sia in grado di valutare il cambiamento del suolo ove cammina, l’alzo dei gradini, la giusta inclinazione delle giunture e molto altro ancora. Si tratta di accordare pensiero, percezione e azione». Fiora Pirri, oltre che appartenere al Dis dell’università romana, è anche membro dell’Alcor (Autonomous Agent Laboratory for Cognitive Robotic, www.dis.uniroma1.it/~alcor), team che studia proprio questi processi cognitivi. Col loro piccolo Doro, sono riusciti a conquistare il terzo posto (dietro Giappone e Germania) alla Robocup di Lisbona (www.robocup2004.pt) nella categoria Real Robot Rescue. La Robocup, che si tiene ogni anno in una diversa città del mondo, è nota soprattutto per essere il «campionato di calcio dei robot». Ma il torneo di pallone, per quanto spettacolare, non è l’unico banco di prova. Altrettanto importante è la Real Robot Rescue, in cui gli automi devono esplorare aree disastrate e soccorrere persone ferite. « difficile rendersi conto di quante interazioni sussistano tra la percezione di un ambiente, l’identificazione di un oggetto e le azioni da compiere di conseguenza» spiega Pirri. «Ciò è in buona parte oggetto di studio della robotica cognitiva (fondata nel 1998 da Raymond Reiter), che s’occupa della parte razionale e, per così dire, emotiva del robot. Razionale, in quanto privilegia le metodologie che usano il ragionamento logico per categorizzare e interpretare ciò che l’automa sente, vede e comunica (all’operatore o ad altri robot). Emotiva, in quanto il robot usa categorie come premi e ricompense per potere apprendere da esperienze passate ad agire e interpretare ciò che vede e sente, avvalendosi inoltre del concetto di utilità per prendere decisioni». Detto così, sembrerebbe di avere davanti un animale da addestrare, piuttosto che una macchina. «In effetti, oggi gli studi nel campo progrediscono più di quanto s’immagini» prosegue Pirri. «L’obiettivo è integrare i livelli di una macchina cognitiva. Muoversi, manipolare oggetti, interpretare scene e frasi e avere coscienza di dove si trova, di cosa sta facendo e di chi è: l’identità del robot sta nella capacità di capire il mondo circostante e il modo d’operarvi». Il modello Qrio (si pronuncia «Cu-rio», come curiosity) di Sony è un altro esempio emblematico dei risultati finora raggiunti. A vederlo spento sembra un giocattolo tecnologico per bimbi appassionati di fantascienza; in funzione, è qualcosa di strabiliante. Le parole non renderebbero che una pallida idea: occorre guardarlo nei videoclip del sito a lui dedicato (www.sony.net/SonyInfo/QRIO). Il robottino non soltanto si muove, danza, salta, parla e interagisce, ma la sua padronanza del linguaggio gestuale è così perfetta da sembrare vivo. I suoi dialoghi con i bambini sono così perfetti e pieni di partecipazione che ci si chiede quanto la scienza sia ormai vicina a ottenere il supergiocattolo Teddy, l’orsetto che accompagnava il piccolo David nelle peripezie di A.I. Intelligenza Artificiale, il film di Steven Spielberg. Ma il desiderio di affrontare le sfide più ardue che l’umanizzazione pone alla robotica non si ferma qui. Altro obiettivo sono le emozioni e la mimica che le riguarda. Interessante è quindi il robot umanoide emozionale WE-4R (www.robocasa.org/italian/robocasa.htm), che vede la joint-venture tra la giapponese Waseda University e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa: il volto dell’androide reagisce agli stimoli esterni, assumendo 7 differenti espressioni facciali (gioia, rabbia, disgusto, paura, tristezza, sorpresa e neutrale) e muovendo testa, corpo e braccia. Anche gli studi sull’apparato vocale si fanno via via sempre più sofisticati. Robot Partner di Toyota (www.toyota.co.jp/en/special/robot) suona realmente alcuni strumenti a fiato. Niente musica registrata: il robot fa vibrare le labbra artificiali come un vero strumentista e muove con le dita i tasti di tromba e sassofono. Ancora più incredibile è KRT-V.3 (www.eng.kagawa-u.ac.jp/~sawada/index_e.html), una bocca robotica in grado di riprodurre suoni e parole umani senza artifici digitali. Il prodigio meccanico è opera di Hideyuki Sawada, professore della Kagawa University. Sul sito ci sono parecchi video che mostrano la bocca cantare (in giapponese), con realismo impressionante. Intelligenza, emozioni, sempre maggiore mimesi umana... Anche se il Sonny di Io, Robot non è proprio dietro l’angolo, di certo non è lontanissimo. «Per questo occorre prepararci per tempo ai nuovi cambiamenti sociali che i robot produrranno» avverte Gianmarco Veruggio. «Gli scienziati dovranno tentare di comprendere potenzialità e limiti di queste macchine intelligenti in rapporto con gli esseri biologici. Prevedo che in questo nuovo secolo l’umanità si troverà a convivere con la prima intelligenza aliena della storia, i robot, con tutti i problemi che ne conseguiranno. Forse i robot veri e propri non sono ancora nati, ma è senz’altro tempo che nasca la ”roboetica”, una scienza che studi i rapporti etici, morali e sociali che nasceranno da questa convivenza. Io e altri miei colleghi desideriamo promuovere una sempre più vasta e capillare educazione per tutti alla robotica. Coprirsi le spalle con le 3 famose Leggi di Asimov potrebbe non bastare (vedi box alla pagina precedente). Se invece si apre un dibattito basato su dati e conoscenze corrette, anche il grande pubblico potrà diventare parte attiva nel processo di creazione di una coscienza collettiva, in grado di prevenire i problemi derivanti da un uso scorretto della tecnologia».