MACCHINA DEL TEMPO NOVEMBRE 2004, 18 novembre 2005
Vampiri succhiasangue, draghi sputafuoco, cadaveri che tornano dall’aldilà per terrorizzare i vivi, giganti deformi che solo a guardarli si resta stecchiti
Vampiri succhiasangue, draghi sputafuoco, cadaveri che tornano dall’aldilà per terrorizzare i vivi, giganti deformi che solo a guardarli si resta stecchiti. Da sempre l’immaginario collettivo degli umani è popolato di spaventose creature a cui corrisponde un eroe capace di stanarle, dominarle, talvolta ucciderle. Ogni eroe ha il proprio mostro, che gli succhia tutte le energie. Ma la mente diabolica di Stephen Sommers, il regista della Mummia, per il suo ultimo film ha pensato a uno scenario ancora più terrificante. Van Helsing, un muscoloso Hugh Jackman in cappello a falda nera, cappottone e balestra, di mostri deve affrontarne addirittura tre: Dracula, Frankenstein e l’Uomo Lupo (con una breve incursione del dr. Jekyll/mr. Hyde). Per sapere che cosa ne è venuto fuori basterà leggere l’ampia scheda nella pagina successiva. Qui ci occuperemo invece del fatto che il mondo moderno, a quanto pare, di mostri ha ancora bisogno. E di mostri e misteri hanno bisogno anche i tanti «acchiappaqualcosa» che vivono non solo nei film ma anche tra noi, uomini del Terzo Millennio. Certo, non stanano draghi né morti viventi, ma tra Yeti, Big Foot e serpenti di Loch Ness hanno anche loro un bel daffare. L’antica leggenda degli sherpa: chi vede uno Yeti muore La creatura che più di tutte ha alimentato le umane fantasie è lo Yeti, misterioso gigante peloso che abiterebbe le cime più alte dell’Himalaya. Tale mostro fa parte delle credenze tibetane da secoli, ma le prime voci riguardanti la sua esistenza giunsero alle orecchie degli occidentali verso la fine del 1800, con i primi viaggi in Tibet. Da allora, gli esploratori non si sono mai stancati di cercarlo, nonostante il monito severo degli sherpa: «Chi vede uno Yeti muore». Lorenzo Rossi, esploratore e direttore del primo sito italiano di criptozoologia (www.criptozoo.com), racconta: «Nel 1899, il maggiore Waddell, nel suo libro Among The Himalayas, scriveva di aver scoperto enormi impronte sulla neve dirette verso le vette a nord-est del Sikkim. E racconta: ”Sembravano le impronte dei selvaggi uomini pelosi che si crede vivano tra le nevi eterne, come i mitici leoni bianchi, il cui ruggito può sentirsi solo durante le tempeste. La credenza in queste creature è diffusa in tutto il Tibet”». Il 22 settembre 1921 Howard Bury e la sua spedizione s’imbatterono in impronte 3 volte più grandi di quelle di un uomo a quota 7.000 metri. Il capo della spedizione le attribuì a un grosso lupo grigio, i portatori tibetani dissero che appartenevano a un meh-teh, frase traducibile più o meno con «cosa vivente simile all’uomo che non ha un’esistenza umana». Henry Newman, giornalista del Calcutta Statesman che per primo pubblicò la parola, la tradusse erroneamente con «abominevole uomo delle nevi», espressione che da allora restò sempre in voga. Qualche volta ha piedi piccoli e qualche altra giganteschi Nel 1925 Nicolas Tombazi, dell’inglese Royal Geographical Society, parlò di uno strano incontro a circa 15 km dal ghiacciaio indiano di Zemu, a 4.500 metri E lo fece con queste parole: «L’intenso bagliore della neve m’impedì di vedere qualunque cosa per i primi secondi, poi vidi l’oggetto a circa 200-300 yard (183-270 metri, ndr) sotto la valle a est del nostro accampamento. Il profilo della figura era di forma umana, camminava su due gambe e si fermava occasionalmente chinandosi su degli arbusti di rododendri nani. Era distinguibile in contrasto con il bianco della neve e non portava abiti. Durante la discesa, due ore dopo, proposi di ispezionare il punto in cui l’uomo o la bestia era stata osservata. Esaminai impronte chiaramente visibili sulla superficie della neve. Erano simili per forma a quelle di un uomo, ma lunghe 15-17 centimetri. Contai 50 impronte, ognuna a intervalli regolari di 30- 45 centimetri: erano senza dubbio di un bipede, la sequenza non aveva le caratteristiche di nessun quadrupede immaginabile». Dopo un consulto con vari esperti di etnologia, Tombazi concluse che la sagoma da lui avvistata apparteneva a un Sadhu, eremita in grado di vivere in condizioni di estrema povertà ad altitudini superiori ai 5.000 metri. Il 2 novembre 1924 il Times pubblicò un’intervista allo studioso William Knight: «Presso Gangtok, in India, mi fermai per far riposare il mio cavallo, sentii un suono e mi guardai attorno. Vidi qualcuno a 15 o 20 passi: era alto un metro e ottanta, la sua pelle giallognola era come quella dei cinesi, capelli arruffati sulla testa, piccoli peli sul volto, piedi grandi e piatti e grandissime mani. Lo sviluppo muscolare di braccia, gambe e torace era terrificante, teneva in mano quello che sembrava un arco rudimentale». L’essere misterioso ha 4 dita e vive in perfetto isolamento «La teoria dell’eremita, seppur affascinante» dice Rossi, «presenta due punti deboli. Il primo è che le impronte generalmente attribuite allo Yeti sono troppo larghe, in proporzione alla loro lunghezza, per appartenere a un uomo. Anche ammettendo che possano essere deformate dallo scioglimento della neve, rimarrebbe da chiarire come individui che vivono pacificamente, in preghiera e isolamento, possano essere all’origine dei racconti su pelosi e famelici abitatori delle vette. Gli esseri umani inoltre sono dotati di 5 dita, mentre la maggior parte delle impronte attribuite allo Yeti ne possiede solo 4. In sintesi la teoria di Tombazi potrebbe forse spiegare il suo e qualche altro avvistamento, ma non è certo una risposta completa al mistero dello Yeti». Spedizione sull’Everest: catturarlo o fotografarlo Da allora le spedizioni continuarono senza sosta, specie negli anni Cinquanta. «Nel 1954» continua Rossi «il Daily Mail finanziò una spedizione capeggiata da Sir Edmund Hillary, il primo conquistatore dell’Everest, con lo scopo di catturare, o perlomeno fotografare, uno Yeti. La spedizione tornò in patria senza avere scorto nemmeno l’ombra del mitico scorridore dei ghiacci, tuttavia raccolse una notizia clamorosa: alcuni monasteri possedevano e veneravano diversi scalpi di Yeti. I reperti migliori appartenevano al monastero di Pangboche e a quello di Khumjung: ricavati da un unico pezzo di pelle, lunghi e conici e ricoperti di capelli che nel mezzo formavano una sorta di cresta. Hillary, che in Tibet godeva di un’enorme considerazione, riuscì nell’ardita impresa di prendere in prestito lo scalpo di Khumjung per sei settimane, iniziando una lunga corsa attorno al mondo per poterlo fare esaminare a una serie d’esperti di Chicago, Londra e Parigi. Kunjo Chumbi, guardiano della sacra reliquia, accompagnò Hillary in ogni suo spostamento per assicurare la salvaguardia del prezioso reperto». Dopo non poche peripezie, venne fuori che i peli dello scalpo attribuito allo Yeti erano identici a quelli dello scalpo del serow del sud (Capricornis sumatrensis thar), una sorta di capra tibetana! E se invece fosse un orso? Reinhold Messner ci crede Attualmente una teoria identifica lo Yeti con gli orsi rossi tibetani (Ursus arctos isabellinus), una specie locale dell’orso bruno europeo (Ursus arctos). «La possibilità che lo Yeti potesse essere un orso bruno» spiega Rossi «era stata presa in considerazione da Bernard Heuvelmans nel suo Sur la piste des Betes Ignorées (1955): ”Questi orsi, che in rari casi superano i 2 metri di altezza, possono facilmente imprimere sulla neve orme lunghe anche 33 cm simili per forma a quelle umane. Come il resto dei plantigradi a volte si alza sulle zampe posteriori. Sorpreso in questa posizione non potrebbe essere all’origine delle voci sui giganti pelosi? E se qualche nativo fosse stato attaccato e divorato da un vecchio maschio adulto divenuto completamente carnivoro (come spesso accade nelle zone povere di cibo), ciò avrebbe alimentato le voci sugli orchi della neve ghiotti di carne umana”». Anche il famoso alpinista Reinhold Messner, autore di Yeti. Leggenda e verità (Feltrinelli, 15,50 euro), dopo vent’anni di ricerche sul campo, s’è convinto che lo Yeti sia un orso. E ha spiegato le ragioni che si celerebbero dietro questa leggenda: «Col tempo capii che gli abitanti delle montagne proiettavano sullo Yeti paure e desideri: quell’essere immaginario era privo di tutti i loro limiti, dipendenza dalla comunità del villaggio, scarsa robustezza del corpo, difficoltà nel respirare alle altitudini estreme del loro ambiente di vita. Al sogno seguiva però l’atterrita coscienza della propria inadeguatezza: diversamente dallo Yeti l’uomo non sapeva correre velocemente sulle morene o sulle distese di ghiaccio, non sapeva afferrare i pesci a mani nude nei torrenti glaciali, non poteva dormire all’aperto durante le tempeste di neve invernali». soltanto una scimmia che cammina a due zampe Un’altra teoria, condivisa da Lorenzo Rossi, è quella che identifica lo Yeti con una scimmia: «Verso la metà degli anni 50 Sydney W. Britton, professore di antropologia all’Università della Virginia, vide le reazioni di uno scimpanzé (Pan troglodytes), arrivato dall’Africa l’anno prima, davanti a un fenomeno totalmente nuovo: una nevicata. Dopo i primi incerti passi del primate, lo stupore si dipinse sul volto di Britton: lo scimpanzé stava camminando sulle due zampe posteriori. Lo studioso pensò che ciò potesse dimostrare come la neve avesse giocato un ruolo fondamentale nell’evoluzione della locomozione umana da quadrupede a bipede». Nel 1937 Serge Frechop del Belgium Royal Institute of Natural History era giunto alla stessa conclusione. Secondo Heuvelmans, invece, questi studi dimostrerebbero che sull’Himalaya una scimmia potrebbe aver imparato a camminare sulle zampe posteriori per ridurre al minimo il doloroso contatto col ghiaccio. Questo spiegherebbe la curiosa forma, quasi umana, dell’alluce tipica delle impronte attribuite allo Yeti, ma diversa da quella degli altri primati conosciuti. Spiega Rossi: «Oggi sappiamo che alcuni primati superiori possono assumere, se costretti, una postura eretta permanente. Recentemente il Jane Goodall Institute ha liberato dalla cattività un maschio di scimpanzé che durante gli anni di prigionia, a causa delle ridottissime dimensioni della gabbia, aveva imparato suo malgrado a camminare su due zampe. Oggi vive liberamente nella riserva kenyota ed è diventato un maschio dominante, ma il fatto più incredibile è che i giovani scimpanzé hanno cominciato a deambulare sulle sole zampe posteriori, prendendolo a modello». Il Dna che non appartiene a nessuna specie conosciuta Il Times del 2 aprile 2001 ha però raccontato di un ciuffo di peli trovato nella parte orientale del Bhutan da quattro scienziati britannici. Bryan Sykes, professore di genetica umana all’Istituto di Medicina molecolare di Oxford, uno dei maggiori luminari mondiali nel campo delle analisi del Dna, scrisse: «Abbiamo trovato del Dna nel campione, ma non sappiamo da dove provenga. Non è umano, non è di un orso né di un qualcosa che siamo anche solo lontanamente in grado di identificare. Una cosa del genere non ci era mai capitata». Il mistero dell’uomo delle nevi, insomma, non è affatto risolto. E gli acchiappayeti hanno ancora tanto (forse tutto) da scoprire...