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 2005  novembre 18 Venerdì calendario

Il primo fu George Washington, eroe della guerra d’Indipendenza, l’ultimo George W. Bush, che s’è trovato in un’altra e forse più difficile guerra, quella al terrorismo

Il primo fu George Washington, eroe della guerra d’Indipendenza, l’ultimo George W. Bush, che s’è trovato in un’altra e forse più difficile guerra, quella al terrorismo. Da oltre 200 anni i presidenti americani si confrontano con un ruolo difficile, che incarna la sostanza stessa del potere: esseri soli al comando. Una nazione giovane, che ha fatto della libertà il suo credo e il suo feticcio, ha bisogno di una leadership forte e realistica, ma al tempo stesso visionaria, come fu per la «nuova frontiera» di JFK o per la «diplomazia del ping pong» di Nixon. L’America s’interroga sui due personaggi che oggi si contendono la Casa Bianca e prova a scegliere quello che potrà guidarla verso una nuova era di sicurezza e benessere. ”Macchina del Tempo” vi spiega come gli statunitensi scelgono quello che sarà l’uomo più potente del mondo. La prima cosa da dire è che le elezioni presidenziali sono complicate. Per un osservatore europeo il meccanismo messo in piedi dai padri fondatori è bizantino e quasi incomprensibile. La prima stranezza. Il 2 novembre si elegge il presidente: George W. Bush è il 43esimo, John F. Kerry potrebbe essere il numero 44. In realtà però i presidenti non sono stati 43, ma uno in meno: Grover Cleveland, alla Casa Bianca dal 1885 al 1889 e poi quattro anni dopo dal 1893 al 1897, viene conteggiato come 22esimo e come 24esimo. Poi, non si vota di domenica ma di martedì, più precisamente «il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre», ogni 4 anni. Sono stati i padri fondatori a scriverlo nella Costituzione (è del 1787, la più antica in vigore) e da allora è così. La domenica è il giorno del Signore e non può essere impiegato in faccende mondane come la politica; il lunedì avrebbe dovuto servire agli elettori per raggiungere i seggi, a volte assai lontani; la scheda si deposita nell’urna al martedì. L’accortezza di specificare «dopo il primo lunedì» ha sempre motivazioni religiose: se il primo novembre fosse caduto di martedì si sarebbe dovuto votare nel giorno di Ognissanti. Consideriamo poi l’esercizio del diritto di voto. Negli Usa per votare non basta essere maggiorenni: bisogna iscriversi nei registri elettorali (ci si può registrare come «democratici», «repubblicani» o «indipendenti», dichiarazione che consente di partecipare alle primarie). L’idea dei padri fondatori è che il diritto di voto è un fatto talmente importante e vitale per il funzionamento di una democrazia che si deve volerlo esercitare davvero. Questo fa sì che l’affluenza alle urne abbia raramente raggiunto il 60 per cento, ma questo oltreoceano non è considerato un problema: se ci sono pochi elettori vuol dire che agli altri va bene così. «Il presidente degli Stati Uniti sarà investito del potere esecutivo» (Costituzione, articolo 2, sezione prima). Conviene riflettere su questa frase prima d’addentrarsi nella giungla del processo elettorale: è infatti la base di quello che è stato chiamato «il mito della presidenza». Il presidente americano, per 4 anni, assomma in sé le caratteristiche dei nostri presidenti della Repubblica e del Consiglio: la Casa Bianca deve provvedere all’esecuzione delle leggi, nominare funzionari federali (compresi i giudici della Corte Suprema), comandare le forze armate, concludere trattati e ricevere rappresentanti stranieri, concedere commutazioni di pena o grazie. Il presidente detiene il potere di veto e la sua firma basta a rendere esecutivo un progetto di legge, ha il dovere d’informare periodicamente il Congresso sullo stato della nazione e in queste occasioni può suggerire atti legislativi (ma non proporre leggi). I costituenti per bilanciare questo potere stabilirono che l’approvazione del bilancio statale spetta alla Camera, la ratifica di alcune decisioni o nomine al Senato. Il presidente non può sciogliere il Congresso, mentre quest’ultimo può avviare contro di lui una procedura di impeachment (incriminazione): l’unico caso in cui il procedimento fu portato a termine fu quello contro Andrew Johnson nel 1868, che la scampò per un paio di voti (Nixon nell’agosto 1974, si dimise proprio per evitare l’incriminazione). Contrariamente a quanto si pensa, l’elezione del presidente Usa non è affatto una grandiosa manifestazione della diretta volontà popolare: in ogni momento (a partire dalle primarie fino al voto di novembre) i cittadini sono chiamati ad eleggere dei delegati che, a loro volta, s’esprimono per il candidato o, alla fine, per il presidente. Si vota a novembre, ma quella americana è la corsa elettorale più lunga del mondo: comincia un anno prima, o giù di lì, quando si tengono le primarie, cioè le consultazioni nei partiti per la scelta del candidato. Chiunque si senta in grado di fare il presidente - in genere già uomini politici: governatori, deputati, senatori - si candida e lascia che sia il popolo a scegliere. I requisiti sono solo tre: avere almeno 35 anni, essere cittadino americano per nascita, risiedere negli Stati Uniti almeno da 14 anni. Fino all’inizio del secolo scorso non andava così: erano i capi statali dei partiti a decidere i candidati alla presidenza. Fu solo in vista delle elezioni del 1904, in particolare nel Wisconsin nel 1903, che s’iniziarono a organizzare elezioni primari (ma solo nel ’68 assunsero l’attuale importanza). Il meccanismo per scegliere il candidato varia da Stato a Stato. In alcuni si tengono i caucus (consiglio ristretto): il più famoso è quello dell’Iowa che, tradizionalmente, inaugura la campagna elettorale. Si tratta di un’assemblea di attivisti di partito che sceglie i delegati da inviare alla Convention nazionale, una sorta di congresso di partito. Ci sono poi le primarie vere e proprie: elezioni pubbliche che, a seconda degli Stati, possono essere «aperte» (voto consentito non solo agli elettori del partito registrati ma anche a quelli di altri movimenti e agli indipendenti), o «chiuse», che sono la maggioranza, nelle quali votano solo gli iscritti. Ovviamente questo sistema costringe chi voglia ricevere poi l’investitura del partito a impegnarsi in una sfiancante pre-campagna elettorale, peraltro assai dispendiosa: è per questo che, almeno a partire da quella del 1968, le macchine elettorali dei candidati sono diventate sempre meno dipendenti dai partiti e sempre più occupate a raggranellare soldi per viaggi, manifesti e, soprattutto, spot tv (questo vale anche per il voto di novembre). Gli aspetti economici della corsa elettorale sono stati regolamentati con una legge del 1971 (poi emendata), che fissa tetti alle spese e ai contributi e, a certe condizioni, prevede il finanziamento federale di parte dei costi delle elezioni primarie e dell’intero costo di quelle generali: ma i soldi del governo entrano in gioco solo nelle ultime settimane di campagna. Fino all’estate - compresa - i candidati usano i soldi che sono riusciti a mettere insieme i comitati elettorali (quest’anno Bush ha incassato più di 200 milioni di dollari). Una parte importante dei contributi governativi alla campagna proviene dal fondo per le elezioni presidenziali che i contribuenti creano dichiarandosi disponibili a destinarvi un dollaro (2 se sono due coniugi) all’atto della dichiarazione annuale dei redditi. Il sistema americano non è per legge un sistema bipartitico, nell’800 i partiti furono molti e ancora oggi una parte dell’elettorato sceglie il proprio rappresentante al di fuori degli schieramenti democratico e repubblicano: basti pensare alle candidature del miliardario Ross Perot e al suo Reform Party nel 1996 o di Ralph Nader per i Verdi nel 2000. Ma da decenni a contendersi la Casa Bianca sono il partito dell’Asino (quello democratico, nato alla fine degli anni Venti dell’800) e il Grand Old Party, quello repubblicano, che ha per simbolo l’Elefante e nel 1860, a sei anni dalla sua fondazione, riuscì a portare al potere Lincoln. Sono questi due partiti che, nell’estate dell’anno elettorale, scelgono il candidato presidente durante una scintillante e un po’ inutile Convention. La corsa vera e propria alla Casa Bianca comincia solo a questo punto: i candidati percorrono il paese in lungo e in largo, tengono comizi, partecipano a feste e cene, girano spot per tv e radio, si confrontano in pubblici dibattiti. Al centro della scena anche le famiglie e, eventualmente, le amanti. Al lato sostenitori, comitati elettorali e partiti. A novembre, i cittadini vanno alle urne e eleggono i delegati che andranno a far parte del Collegio elettorale che sceglierà il presidente (ovviamente i delegati si impegnano a sostenere questo o quel candidato). Il numero di grandi elettori è stato deciso dai costituenti: «Ogni Stato nominerà, nel modo che verrà stabilito dai suoi organi legislativi, un numero di elettori (delegati) pari al numero complessivo dei senatori e dei rappresentanti che lo Stato ha diritto di mandare al Congresso». Considerando che, grosso modo, si ha un rappresentante ogni 475.000 residenti e che i membri della Camera sono oggi 435, i voti elettorali presenti alla riunione finale del Collegio assommano a 538: 100 senatori (due per Stato), 435 deputati e 3 rappresentanti del Distretto Federale di Washington. Quindi, quest’anno, la maggioranza dei grandi elettori è a quota 270. Se nessuno dovesse raggiungerla (ipotesi assai improbabile) sarà la Camera dei rappresentanti a scegliere il presidente: accadde per Thomas Jefferson nel 1800 e John Quincy Adams nel 1824. Ovviamente non tutti gli Stati hanno diritto allo stesso numero di delegati: ad esempio il Wyoming e l’Alaska ne hanno solo 3 (il minimo), la California 54. è evidente che chi aspira alla Casa Bianca si concentrerà sulla conquista degli Stati più popolosi. Questa tendenza è accentuata dal fatto che le nomine al Collegio elettorale vengono attribuite in blocco: chi conquista la maggioranza dei voti popolari in uno stato si prende tutti i Grandi elettori di quel territorio (basta avere un voto in più in California per accaparrarsene 54). Per questo un candidato può risultare sconfitto nonostante abbia ottenuto la maggioranza dei voti popolari: è accaduto tre volte, l’ultima nel 2000 ad Al Gore. Può sembrare difficile, ma il meccanismo approntato dai costituenti alla Convenzione di Philadelphia (1787) era ancora meno diretto: il presidente era scelto da parlamentari già eletti e non dal popolo (che entrò in gioco dopo il 1828 con l’elezione di Andrew Jackson). Diversa anche la nomina del vicepresidente: fino al 1804 fu il secondo classificato nella corsa elettorale, indipendemente dall’omogeneità di vedute col suo capo; dopo, l’uomo «che vive a un battito di cuore dal potere» (succede al presidente in caso di morte) fu votato con una scheda a parte e infine proposto in ticket col candidato. Non molte cose sono cambiate da quando Washington fu eletto primo presidente nel 1789, unico scelto in un anno dispari: il secondo mandato lo ottenne nel 1792 e il terzo lo rifiutò, ritenendo dannosa una lunga concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo. Così fece anche il terzo presidente, Jefferson, stabilendo una consuetudine infranta solo nel XX secolo dal democratico Franklin D. Roosevelt, rieletto per 4 mandati consecutivi. Oggi non potrebbe succedere: nel’51 il Congresso votò un emendamento secondo cui il presidente può essere rieletto per una sola volta. Il 2 novembre, fatte salve sorprese, sapremo chi sarà l’uomo più potente del mondo per i prossimi 4 anni: l’America è divisa tra Bush jr, presidente che non riesce a convincere, e Kerry, oggetto misterioso. L’unica cosa davvero sicura è la data in cui uno dei due si siederà sul trono del mondo: il 20 gennaio 2005.