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 2005  novembre 18 Venerdì calendario

Ma è l’economia che detta l’agenda del presidente. Qual è l’arma che i presidenti usano per essere eletti e poi per cambiare la faccia (e la storia) del Paese? La risposta è semplice: la politica economica

Ma è l’economia che detta l’agenda del presidente. Qual è l’arma che i presidenti usano per essere eletti e poi per cambiare la faccia (e la storia) del Paese? La risposta è semplice: la politica economica. Come dimostra la vicenda di tre grandi della Casa Bianca, Roosevelt, Kennedy e Reagan. Il nome di Franklin Delano Roosevelt (presidente dal 1933 al 1945) è ancora oggi strettamente legato al New Deal (Nuovo Corso), l’ambizioso e rivoluzionario programma per far uscire gli Stati Uniti dalla Grande Depressione. Nel marzo del 1933 c’erano 13 milioni di disoccupati, di cui un milione solo a New York, e quasi tutte le banche erano chiuse. Roosevelt, dopo un discorso memorabile, varò leggi economiche straordinarie per ridare fiducia ai cittadini. Nei primi 100 giorni il presidente attuò le cosiddette «misure di emergenza». Di fatto, applicando la teoria del grande economista Keynes, fautore del sostegno pubblico nell’economia, Roosevelt inventò nuovi sbocchi occupazionali sovvenzionati direttamente dallo Stato, come l’arruolamento nell’esercito di migliaia di giovani pagati con un salario minimo per lavori di sistemazione delle foreste, per opere di prevenzione degli incendi e delle frane. Nello stesso tempo varò un vasto programma di grandi opere pubbliche per eliminare la disoccupazione, aumentare i redditi da lavoro e rilanciare i consumi. Non poteva però non esserci il risvolto della medaglia: da un lato il problema del mancato appoggio da parte della classe industriale e delle banche a causa dei timori sugli effetti dei suoi esperimenti (maggiori tasse sulla ricchezza, nuovi controlli sulle banche); dall’altro lato, il problema del finanziamento dell’enorme costo dei provvedimenti assistenziali. Lo Stato, infatti, non poteva certo far pagare il costo dei nuovi assunti e delle opere pubbliche alle imprese in crisi né ai cittadini attraverso maggiori tasse. Roosevelt mise in conto tutto al bilancio federale. S’indebitò con l’idea che in seguito, dopo la ripresa, avrebbe potuto incassare nuove tasse da un’economia tornata ricca, e con esse colmare il disavanzo. La storia conferma che il New Deal di Roosevelt salvò gli Stati Uniti da una catastrofe economica e sociale senza precedenti; tuttavia anche nel dopoguerra non sono mancate critiche, almeno per quanto riguarda il sostegno alla produzione, come provano i dati, sempre molto elevati, della disoccupazione. Critiche che si ripetono anche con l’esperienza di John Fitzgerald Kennedy, la cui presidenza segna l’avvento di una grande svolta economica. Kennedy prende in mano le redini dell’economia nel novembre del 1961 con un programma che ricalca in buona parte i principi enunciati circa trent’anni prima da Roosevelt. Lancia il Kennedy round, un programma di sostegno all’economia attraverso l’aumento del deficit di bilancio (di nuovo secondo la teoria di Keynes). Una buona parte del suo programma, a parte le sfide tecnologiche e scientifiche con il lancio del programma Apollo, si basa su misure sociali volte a ridurre la miseria (sviluppo del sistema statale di assistenza sanitaria, lotta contro la povertà, sovvenzione per le abitazioni, l’educazione e l’alimentazione). Anche questo programma, come quello di Roosevelt, porta a un forte aumento del deficit. Con Ronald Reagan, insediato nel gennaio del 1981, repubblicano di ispirazione liberista e fautore della riduzione del ruolo dello Stato nell’economia, si cambia musica. La Reaganomics è sicuramente il più importante tentativo di cambiare il corso della politica economica americana dai tempi del New Deal. Il suo programma aveva quattro obiettivi principali: ridurre la crescita della spesa pubblica; ridurre le aliquote marginali delle imposte; ridurre la regolamentazione e ridurre l’inflazione. Durante il suo mandato Reagan fece uscire gli Stati Uniti dalla stagflazione economica in cui si trovavano dal 1973. Egli riuscì a stimolare la crescita economica attraverso la riduzione della spesa pubblica e l’aumento degli incentivi alle imprese per gli investimenti, ridusse le aliquote marginali di imposizione, aumentò l’occupazione, fece calare l’inflazione e rafforzò le spese per la difesa nazionale. Insomma, l’equazione è: repubblicani liberisti, democratici un pò socialisti in economia. Ma oggi, la variabile chiave che l’inquilino della Casa Bianca dovrà tenere in gran conto è proprio lo stato dei conti pubblici dopo l’esplosione del debito nel triennio 2001-2003. Gli economisti sono molto allarmati e invitano al rigore fiscale e alla riduzione del disavanzo. Vedremo.