Varie, 17 novembre 2005
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Salcedo Doris
• Bogotà (Colombia) 1958. Artista • «[...] vive e lavora in Colombia; la scelta di essere stanziale, in controtendenza rispetto a numerosi suoi colleghi, è una scelta che lei stessa definisce politica, proprio come la sua arte. I suoi lavori sono accumuli di sedie, assemblaggi di tavoli e armadi, altre parti di mobilio coperti e ”chiusi” con il cemento, abiti e oggetti usati che spesso provengono da luoghi in cui sono state esercitate e subite gravi violenze. La ricerca artistica di Doris Salcedo è dunque il faticoso e lento tentativo di non rimuovere gli avvenimenti che accompagnano la cronaca quotidiana del paese nel quale vive e dove decine di migliaia di persone vengono rapite, torturate, uccise da mercanti di droga o terroristi. Nelle sue mani gli oggetti, sui quali spesso sono evidenti tracce d’uso, vengono trasformati in muti testimoni, ingombranti omaggi ad esistenze tragicamente spezzate, memorie, pesanti e silenziose, di chi li ha posseduti. Doris Salcedo non ci racconta mai una violenza subita, ma la memoria di quell’atto, quello che rimane, il dopo. Le sue installazioni nascono da quello che le hanno raccontato e indicato i sopravvissuti, i testimoni, quelli che rimangono. I materiali che utilizza nei suoi lavori provengono da case e luoghi nei quali si è abbattuta la violenza e raccontano la storia di chi l’ha subita: ”Il segno del dolore è così profondamente iscritto nelle esperienze delle famiglie delle vittime che quello che io produco è solo la trasposizione, quasi letterale, di questi sentimenti in uno spazio reale. La testimonianza deve essere portata in uno spazio collettivo per rendere pubblica una violenza privata”. Assemblare oggetti, già carichi dei significati che hanno acquisito nello scorrere della vita quotidiana, crea opere che assumono la forma di un confine, un muro liscio e impossibile da varcare. Un confine fisico e uno stato mentale che l’artista ripropone con sedie accatastate o muri di mattoni proprio come in Abyss: la grande installazione realizzata per la personale al Castello di Rivoli. Un muro che è la forma, vera e tangibile, dell’esperienza del limite, del chiudere, del contenere uno spazio; una sorta di orizzonte visivo imposto allo sguardo. Le situazioni che l’artista crea con le sue installazioni sono spesso luoghi della claustrofobia, ghetti, territori delimitati e angusti dai quali non è possibile fuggire ma dai quali si riesce ad intravedere il fuori, l’altra parte. L’arte per Doris Salcedo è dunque un relazione complessa, conflittuale e tragica tra l’esperienza privata, e violata, e la dimensione pubblica ed espositiva. in questo stato di disagio, in questo spazio intermedio e precario che nascono interrogativi che sono utilizzati dall’artista come strumenti ”politici”; la forma stessa dei lavori pare riproporre lo sforzo e la fatica a mantenere costante, nel tempo, questo processo di non rimozione: ”Lavoro con gesti ad absurdum… finchè acquistano un carattere inumano…”: muri insormontabili, porte cementante, sedie appese, accumuli di oggetti ci ricordano quanto l’arte - prima di tutto la sua arte - possa essere solo testimone, ”io sono solo un testimone, devo stare per testimoniare, se no qual è la mia ragione d’essere?”» (Lisa Parola, ”La Stampa” 17/11/2005).