MACCHINA DEL TEMPO NOVEMBRE 2004, 17 novembre 2005
Quando negli anni Settanta l’ecologo Norman Myers aveva lanciato l’allarme, in molti non gli avevano creduto
Quando negli anni Settanta l’ecologo Norman Myers aveva lanciato l’allarme, in molti non gli avevano creduto. E invece aveva ragione lui. Decine di specie animali, oggi più di allora, rischiano di sparire dalla faccia della Terra, e per molte non c’è stato neanche il tempo di alzare un dito. Forse saranno in pochi a piangere la dipartita del rospo dorato del Costarica o della tartaruga liuto, ma se parliamo di felini allora il discorso cambia. Perché leoni, tigri, puma, linci e altri gattoni incarnano nell’immaginario collettivo l’essenza stessa della natura selvaggia, di quella parte del pianeta che lotta per difendersi da quel pericolosissimo animale che è l’uomo. I dati parlano chiaro: i felini sono sempre meno e, se va avanti così, a metà del secolo prossimo potremo ammirarli solo in fotografia. Diamo qualche numero: dei 100mila leoni stimati 10 anni fa, ne sono rimasti appena 23mila (il dato è di settembre 2003), mentre delle 100mila tigri in circolazione all’inizio del secolo scorso, ne sono sopravvissute meno di 7mila. E la parentela non sta meglio: allo stato selvaggio, sempre a essere ottimisti, vivono 300mila leopardi, 50mila giaguari, 50mila puma, 15mila ghepardi e 7.500 leopardi delle nevi, mentre per specie come la lince pardina della Spagna meridionale è già scattato l’allarme rosso: i 200 esemplari sopravvissuti sono stati sottoposti a un programma di riproduzione in cattività, che i biologi considerano l’ultima spiaggia prima di gettare la spugna. Il problema è semplice: in un pianeta dove l’uomo detta legge e reclama sempre più terre e risorse, dove l’inquinamento non ha freni e il disboscamento è fuori controllo, per i felini c’è sempre meno spazio. E i pochi difensori della loro causa appartengono spesso a paesi dove il cibo vitale non è il primo dei problemi. In Asia e, soprattutto, in Africa, dove fame e Aids dilagano, il concetto di natura non ha valore fuori dai parchi nazionali, e leoni e tigri non sono altro che animali nocivi, pericolosi per uomini, greggi e allevamenti. Da eliminare, dunque, se non addirittura da sfruttare economicamente vendendone la carcassa a mercanti privi di scrupoli. La tigre, per esempio, è come il maiale: non si butta via niente. Si potrebbe addirittura affermare che la pelliccia non è la parte più richiesta, visto che grasso, ossa triturate e perfino denti e baffi sono elementi richiestissimi per la preparazione di prodotti della medicina tradizionale cinese e coreana (che si trovano facilmente anche in molti negozi occidentali) e fruttano migliaia di dollari (dai 70 ai 150mila dollari, a seconda delle zone e della domanda, per un solo esemplare) in paesi dove il Pil è ampiamente sotto il livello di guardia. necessario quindi un cambio di mentalità da parte delle popolazioni locali: bisogna far capire che un felino è più utile da vivo che da morto e che, soprattutto, del problema non si possono più fare carico esclusivamente le riserve naturali, cronicamente a corto di soldi. Bisogna trovare il punto di incontro tra le esigenze dell’uomo e quelle dei felini, e gli esperimenti più recenti dimostrano che l’unica strada da percorrere è quella della convivenza. Gli scienziati hanno individuato un modello di paesaggio misto nel quale i felini possano spostarsi da aree interne e protette verso zone condivise con gli uomini (piantagioni di tè in India, ranch in Kenya o, nel caso dei puma, parchi suburbani in California), dandogli più spazio per cacciare e riprodursi. Sempre tenendo presente che per i felini cacciare significa uccidere prede in natura e che solo in mancanza di queste, spesso decimate dalla caccia, nasce l’esigenza di assalire il bestiame e di avvicinarsi agli insediamenti umani, dove i fucili sono sempre pronti a completare il lavoro fallito da trappole ed esche avvelenate. «L’uomo non esita a difendere con la forza le proprie fonti di sostentamento» dice Massimiliano Rocco, responsabile specie del Wwf Italia, «visto che i felini, diminuite le prede naturali, hanno trovato molto più comodo predare gli animali domestici sovrapponendosi alle esigenze dell’uomo. Un po’ come succedeva da noi con l’orso o con il lupo». Ed è questo il vero problema, visto che la pericolosità dei felini per l’uomo è solo un luogo comune da ridimensionare, un po’ come nel caso degli squali: i rari attacchi all’uomo vengono talmente sottolineati dai media, che si rischia di creare un fenomeno basandosi su dati statisticamente irrilevanti. Per esempio, in un anno in India muoiono 30-40 persone assalite da tigri, mentre i decessi per morsi di serpente sono circa 20mila. Negli Stati Uniti i puma hanno ucciso 17 persone nell’ultimo secolo, molte meno dei morti causati dai fulmini in un solo anno. Addirittura, non risultano episodi di attacchi all’uomo da parte di giaguari, ghepardi e leopardi delle nevi. Ma qualcosa, fortunatamente, si sta muovendo, proprio nello spirito della convivenza uomo-felini a cui si accennava precedentemente. In Kenya, il Laikipia Predator Project ha rispolverato perfino le antiche tecniche dei Masai (costruire barriere di rami spinosi intorno ai recinti per respingere gli attacchi notturni dei leoni) da applicare in alcuni ranch, dove i bovini sono protetti di giorno da cani e guardiani armati. Il costo del progetto, che mette in conto l’uccisione in natura di qualche bovino, è di circa 350 dollari a leone (dieci, in questo caso specifico), cifra che si pensa di recuperare con l’arrivo di turisti a caccia di forti emozioni. In India si usa una formula diversa, ma sempre nel segno dell’integrazione: si sta cercando di collegare le nove aree riservate alle tigri dal governo di Indira Gandhi con il Project Tiger del Wwf (1973). Grazie al Terai Arc Landscape Program (2001), il computer ha individuato le zone più larghe di 3 km che separano le aree abitate dalle tigri (e che i felini non attraversano considerandole territori ostili), ipotizzando di eliminarle entro 50 anni per dar vita a un ecosistema senza soluzione di continuità dove convivano tigri, elefanti, rinoceronti e ungulati, in assenza totale di mandriani o contadini. Il programma ha stanziato incentivi per consentire alla popolazione di piantare ai margini di questa zona alberi, fieno o canneti che le tigri e le loro prede possano usare come riparo e che siano nel contempo fonte di sostentamento per gli abitanti: l’anno scorso nella foresta di Bagmara (Nepal meridionale) la popolazione ha potuto raccogliere quantitativi controllati di fieno, legname da costruzione e da ardere, guadagnando nel contempo 73mila dollari con l’arrivo di turisti attirati da tigri, elefanti e rinoceronti in libertà. Da meditare, anche se farà storcere il naso a qualcuno, la soluzione adottata dal parco di Selous, un’area più vasta della Svizzera situata nel Sud-Est della Tanzania dove vivono 110mila bufali, 50mila elefanti e 4mila leoni. Mantenere le strutture di un simile territorio (pattuglie antibracconaggio comprese) non è uno scherzo, soprattutto se solo l’1 per cento dei turisti che transitano in Tanzania decide di percorrere le piste accidentate che portano al parco. Così, per non essere costretti a chiudere, si è deciso di riaprire alla caccia grossa: da queste parti arriva gente disposta a spendere più di 80 mila dollari per sparare a un leone, e solo nel 2002 ne sono stati uccisi in questo modo 226. Un sacrificio necessario anche per sostenere un’economia locale che vive nella costante tentazione del bracconaggio. Anche paesi come Zambia, Zimbabwe e Sud Africa hanno stabilito una quota di leoni che, in base alla popolazione totale, possono essere uccisi. Un recente studio della University of Minnesota, effettuato nella Tanzania settentrionale, ha dimostrato che se i cacciatori si limitassero a uccidere i leoni maschi di almeno 5 anni con prole già cresciuta, gli effetti di lungo termine sull’intera popolazione sarebbero trascurabili. «In linea di massima il Wwf non è contrario al trophy hunting» dice Rocco, «purché sia effettuato sotto stretto controllo governativo e sia basato su una conoscenza reale dello status della popolazione, in modo da non pregiudicarne la crescita. anche indispensabile che le risorse ricavate da questo tipo di caccia siano rigorosamente reinvestite per la conservazione delle specie animali cacciate e dell’ambiente in cui vivono. Siamo invece tassativamente contrari alla caccia in riserve naturali dove vivono animali a rischio di estinzione come la tigre».