MACCHINA DEL TEMPO NOVEMBRE 2004, 17 novembre 2005
Se i Romani si fossero messi a dieta, forse Attila sarebbe rimasto un oscuro re barbaro. Alcuni sostengono che in Senato tutti avessero la mente avvelenata dal piombo, perché mangiavano salse e vini cotti in vasi di questo metallo
Se i Romani si fossero messi a dieta, forse Attila sarebbe rimasto un oscuro re barbaro. Alcuni sostengono che in Senato tutti avessero la mente avvelenata dal piombo, perché mangiavano salse e vini cotti in vasi di questo metallo. Lo si è scoperto solo leggendo i ricettari dei cuochi del tempo. Se un tale napoletano, contagiato dalla peste, non avesse mandato una ciocca di capelli alla fidanzata che viveva a Capri, forse l’infezione non si sarebbe diffusa sull’isola. Chi lo sostiene ha trovato la lettera d’amore che accompagnava il souvenir. Gli storici ormai frugano dentro i cassetti delle nostre case, rileggono il diario di un Mario Rossi, le lettere d’amore della nonna, le foto del matrimonio. Stabilire quando hanno iniziato a rivolgere il loro sguardo non solo agli scaffali delle biblioteche è difficile, però uno studioso francese, Marc Bloch, ha chiarito: «Il bravo storico è come l’orco delle fiabe: sa che dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Dunque la storia non è il passato. lo studio degli uomini nel tempo. Di tutti gli uomini. La storia siamo noi, e quanto facciamo sarà oggetto di studi tra 100 o 1.000 anni. Navighiamo nella vita e il libro di bordo sono i diari, le foto, i filmini amatoriali, gli oggetti di cui ci circondiamo. questo che lasceremo, e ciò permetterà a chi studia di ricostruire le nostre esistenze: messe in relazione con i documenti, e con ciò che hanno lasciato gli altri compagni di viaggio, riproporrà un’immagine definita del nostro tempo. Ogni individuo, più che a suo padre, assomiglia agli anni nei quali vive, alla società che lo circonda. Ovviamente per i ricercatori questo è chiaro, ma allo stesso tempo, per loro, la ricostruzione dei fatti è particolarmente complessa. Innanzitutto lo storico, per definizione, arriva sempre in ritardo. Non è mai testimone di ciò che studia, ma se lo deve sempre far raccontare. A volte dai testimoni, altre leggendo le cronache scritte da qualcuno a cui ciò che era successo era stato narrato da una terza persona e così via. Lo storico sa di essere alla fine di un lungo passaparola nel quale ”bianco”, di bocca in bocca, può diventare ”nero”. Sa anche che essere sinceri non significa non mentire. Il professor Luigi Goglia, docente di Storia contemporanea alla Terza Università di Roma, spiega: «Diari, memoriali, quand’è possibile testimonianze, magari raccolte a distanza di decenni. Dobbiamo essere capaci di esaminare tutto quello che ci arriva dall’epoca che stiamo studiando. Però dobbiamo valutarlo: ogni fonte ha una natura, una verità e una grammatica. I diari, per esempio, hanno il sapore e i guasti dell’immediatezza. Chi scrive è sincero, e i fatti nella sua memoria non si sono ancora distorti. Sono però setacciati dal suo stato d’animo, sulle pagine pesano contingenze imponderabili come una malattia, lo scoramento, oppure l’euforia. I memoriali sono più ponderati, una qualità e un limite al tempo stesso. L’autore ha modo di decantare le emozioni, ma anche di mostrarsi migliore di quello che è. Quella di presentarsi con ”il vestito della festa” è una piccola vanità a cui in pochi sanno resistere. La ponderazione poi spinge a conformare i fatti alla luce di quanto è avvenuto in seguito». Persino dei testimoni oculari Goglia ha imparato a diffidare: «Mi ricordo che quando feci delle ricerche sul colonialismo italiano in Africa, tutti i vecchi che intervistai dissero d’essere stati ascari dell’esercito italiano (soldati indigeni delle vecchie truppe coloniali, ndr) e di avere avuto ruoli di comando. Non lo fecero per ingannarmi, ma per accontentarmi. Pensarono forse che avevo fatto un lungo e costoso viaggio per incontrarli, e così ritennero più cortese spacciarsi per ciò che cercavo, anche se era una bugia». Per comprendere la realtà è indispensabile conoscere le cause che l’hanno generata e quindi, per scrivere la storia, si usa anche quanto viene rivelato in discipline come sociologia, antropologia, economia. Spingersi in profondità, per scoprire come i grandi fatti abbiano influenzato la vita quotidiana della gente, si può fare solo leggendo le sue lettere e i giornali dell’epoca, o conoscendo gli oggetti di cui si circondava. Dal 1845, per esempio, gli irlandesi emigrarono in massa verso gli Usa a causa d’un parassita che aveva distrutto i raccolti di patate, affamando la popolazione. Nel 1945, il Giappone s’arrese perché era stato attaccato con le atomiche, che forse gli Stati Uniti non avrebbero avuto se Enrico Fermi, per colpa delle leggi razziali fasciste, non fosse stato costretto a emigrare. Eccetera. Ad analizzare la storia sotto questa più ampia prospettiva è stata per prima la rivista francese ”Les Annales” verso la fine degli anni Venti. Venne fondata da Marc Bloch e Lucien Febvre, secondo cui la storia non s’occupa solo di battaglie, guerre o rivoluzioni, ma di tutti gli aspetti dell’esistenza umana: alla storia dei grandi eventi s’iniziò a contrapporre la storia più sotterranea, fatta di vita vissuta e usanze della gente. Anche le più intime, se in queste si ritrova il grande avvenimento. Secondo Pietro Scoppola, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, il successo di questo diverso modo di concepire la ricerca storica è dovuto, tra le altre cose, «a un fatto esterno agli studi storici, ovvero al cambiamento della società stessa, che è diventata di massa: le grandi masse sono divenute costantemente attive sul grande scenario della realtà storica, a partire dalla Prima guerra mondiale. Fino a quella guerra, infatti, durante l’Ottocento (con qualche eccezione) i conflitti venivano combattuti da poche decine di migliaia di militari di professione o comunque assoldati. Con la Grande guerra avvenne che interi popoli, decine e decine di milioni di uomini fossero coinvolti tramite la leva obbligatoria in un evento tragico come la guerra di trincea. Da allora divenne impossibile non prestare attenzione, a livello storico, alle masse: ci si doveva chiedere come avevano vissuto fino ad allora, che cosa era accaduto nelle campagne quando gli uomini se ne erano andati in trincea lasciando le donne sole e che cosa accadde loro quando tornarono dal fronte». In questo senso, possono essere di grande aiuto allo storico diversi materiali privati, dai diari alle lettere private fino alle memorie, frammenti di vita quotidiana che possono raccontare un’epoca. Il primo ad aver avuto l’idea di raccogliere metodicamente questo tipo di materiale fu, nel 1984, Saverio Tutino, scrittore, partigiano e storico inviato di ”Repubblica”: «Un giorno con gli amici al bar ci siamo detti che in questo Paese c’era un mortorio, ci voleva qualcosa di più. E abbiamo concepito la banca della memoria per la conservazione delle testimonianze autobiografiche». L’iniziativa piacque subito all’amministrazione di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, che appoggiò l’idea dell’Archivio diaristico nazionale e, per incentivare l’afflusso di testi, organizzò il Premio Pieve per diari, memorie ed epistolari (ogni settembre in paese si festeggia la premiazione e la futura pubblicazione dei diari più belli): con un avviso su ”Linus” e uno su ”Repubblica” , in due mesi arrivarono 120 diari. A distanza di vent’anni, l’intuizione di Tutino ha fruttato quasi 5 mila testi, tra memorie e autobiografie (2.826), diari (1.166), espistolari (368), libri di famiglia e giornali di classe (126). Questi scritti possono essere considerati una fonte per le indagini storiche? Possono contribuire alla ricostruzione degli eventi e riempire i vuoti lasciati dai ricercatori? Secondo il giornalista «rappresentano una lente di avvicinamento alla realtà. Parlando di sé, si racconta il mondo come lo si vede con i propri occhi». Una visione troppo particolaristica della storia, si potrebbe obiettare, poco utile per la comprensione degli eventi in generale. Oppure, come disse il deputato del Pci Giancarlo Pajetta, «raccogliendo i diari si può raccontare la storia scritta dal basso». Con tutti i limiti del caso, come precisa lo stesso Tutino: «Gli scritti autobiografici serviranno per ricostruire la memoria storica, per conservare i ricordi di ogni individuo. un modo per rileggere la storia con l’occhio di chi l’ha vissuta in prima persona. Ma questa lettura non cambia la storia, non c’è un diario che dica una verità assoluta. solo un approfondimento personale. Abbiamo avuto dei dilemmi sul valore dell’archivio. Lo storico Mario Isnenghi sosteneva che l’autobiografia era poco più che un ”bruscolino” nel mare degli studi storici. In seguito ha riconosciuto il bisogno d’interesse e rispetto per la soggettività». Consapevoli o meno, quindi, le vicende raccontate nei diari entrano nella storia, fanno storia da scoprire, da comporre e da armonizzare con quella dei manuali. Ecco perché nella prossima primavera la Einaudi porterà nelle librerie un’antologia di diari per raccontare l’Italia in dieci volumi, ognuno dei quali dedicato a una precisa epoca del nostro Paese e ricostruito da un singolo autore (i nomi sono ancora top secret), probabilmente uno storico o un giornalista del settore: quest’ultimo avrà il compito di comporre il collage tra i diversi diari, ripescando in ognuno il singolo evento storico generale raccontato dallo scrittore. Tra questi, ci sarà l’epopea picaresca di un siciliano semianalfabeta, Vincenzo Rabito, nato nel 1899 a Chiaramonte Gulfi (Ragusa) e morto nel 1982, vincitore postumo del Premio Pieve nel 2000 per un diario scritto in mille fittissime pagine, con il punto e virgola a dividere una parola dall’altra. Una finestra tutta particolare sulla grande storia, in cui eventi come il Primo conflitto mondiale sono vissuti in modo disincantato e un po’ cinico: «Abbiamo; vinto; la; guerra; ma; abbiamo; perso; il; manciare». Nel solco dell’archivio diaristico di Pieve sono nate diverse iniziative, altrettanto interessanti: oltre alla libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (www.lua.it), dietro la quale c’è sempre la mano di Tutino e dove Duccio Demetrio insegna a raccontare se stessi, ci sono parecchi centri di raccolta del vissuto quotidiano. Tra questi, il Museo virtuale della memoria collettiva della Lombardia, Muvi (www.url.it/muvi/), dove ci sono storie, foto e filmati di persone qualsiasi che hanno vissuto gli eventi più grandi della storia dello scorso secolo. A Isola Dovarese, Cremona, c’è la Banca della memoria(www.rccr.cremona.it/materne_elementari_vescovato/memoria/prima_memoria.htm), nata per raccogliere e valorizzare testimonianze, storie di vita, oggetti, miti immaginari e tutto ciò che può raccontare l’evoluzione storica di un’intera comunità. L’Istituto Ernesto De Martino (www.iedm.it), invece, si è specializzato nella raccolta di materiale sulla storia del movimento operaio: nell’archivio spicca il vasto settore sonoro con oltre 6.000 nastri magnetici per un totale di circa 15.000 ore di registrazione, che comprendono canti popolari, sociali e di protesta, danze, riti, manifestazioni sindacali e politiche registrate dal vivo, oltre a foto, filmati, manifesti originali, volantini, opuscoli a stampa e a ciclostile. Con lo stesso scopo, nel 2001 è nata a Bologna l’associazione Home Movies (www.homemovies.it), su iniziativa di Paolo Simoni, studioso di storia della società italiana, e Mirko Santi, appassionato di cinema sperimentale, due trentenni che hanno iniziato ad attingere dall’immenso patrimonio delle riprese amatoriali: l’obiettivo dichiarato è la «creazione dell’Archivio filmico della memoria familiare». Paolo Simoni racconta che «la raccolta di questi filmati avviene attraverso la donazione o il deposito da parte degli stessi autori di pellicole in diverso formato, dagli 8 mm ai Super8, tutte riversate su digitale per evitarne la perdita»: in questo modo il gruppo di ricerca, costituito da una quindicina di persone tra documentaristi, ricercatori e docenti universitari, ha già raccolto pellicole amatoriali per 150 ore, a partire dagli anni Venti del secolo scorso. Nell’archivio è possibile così ritrovare la storia collettiva del nostro Paese, i riti comuni del nostro passato: vacanze, viaggi, matrimoni, battesimi, feste, sagre e Carnevali, tutto filtrato dagli occhi del singolo cineamatore, ma comunque valido per la ricerca storica perché «evocativo», come spiega Simoni: «Di fatto questi film diventano qualcosa di condiviso, raccontano modelli di vita passati. Sono uno strumento per capire da dove veniamo e anche per ricostruire gli spazi in cui abbiamo vissuto». Tra le tante pellicole, quelle del signor Sinigaglia, che dall’inizio degli anni Trenta raccontano, anno dopo anno, le vicende della sua famiglia: dalle vacanze al Lido di Venezia, dove piccoli e grandi passano davanti alla telecamera facendo il saluto romano, all’attività di famiglia, al viaggio dello zio sul Danubio. Unica interruzione, la guerra, quando la famiglia, di origine ebraica, fugge in Svizzera con tre spie inglesi spacciate per parenti: i filmati riprendono dopo il ’45, e tra gli eventi documentati in 8 mm c’è anche l’incontro con uno dei tre inglesi, tornato in Italia per ringraziare i Sinigaglia. La Home Movies ha inaugurato il settore emigrazione, soprattutto con materiale inviato ai propri cari da italiani partiti per gli Stati Uniti o per l’Argentina in cerca di fortuna: testimonianze importanti di quello che eravamo agli inizi (e non solo) del secolo scorso. Storie minori in grado d’arricchire la storia maggiore. Un altro appassionato di storie minori è senza dubbio Ascanio Celestini, autore e attore teatrale, legato al vasto patrimonio della tradizione orale, dove la storia dei manuali viene vissuta in prima persona e poi raccontata. Con il monologo Radio Clandestina, ad esempio, Celestini fa rivivere attraverso oltre duecento testimonianze orali il clima delle tragiche giornate del 23 e 24 marzo del ’44, tra l’attentato partigiano di via Rasella e l’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine (335 vittime), avvalendosi del libro L’ordine è già stato eseguito di Sandro Portelli (Donzelli Editore, 18 euro): il complesso di questi racconti personali riesce a fornire un quadro complessivo di un evento realmente accaduto. Un esempio chiaro di come la storia dei singoli possa arricchire la storia universale scritta nei manuali. lo stesso Ascanio Celestini a confermare i pregi e i limiti di questa fonte: «Le prospettive individuali sono fondamentali per conoscere la storia nel suo complesso, ma al tempo stesso non la esauriscono. Esprimono un punto di vista parziale di ciò che è stato visto e vissuto». Il racconto orale, quindi, non fa altro che «allargare il campo d’indagine della storia. Quest’ultima così risulta estremamente complessa, a volte perfino casuale. Quando sposto lo sguardo dal grande evento alla prospettiva del singolo, dal generale al particolare, posso arrivare a dire che la storia non è ricostruibile nella sua interezza, o almeno è ricostruibile soltanto fino a un certo punto». Quest’ultima considerazione di Celestini si complica se consideriamo le recenti innovazioni tecnologiche: è ben chiaro il modo con cui studiare la storia degli antenati, ma abbiamo difficoltà a immaginare come verrà studiata la nostra. I mezzi con cui ci esprimiamo stanno infatti cambiando proprio in questi anni, e questo impone una rivoluzione nei metodi di ricerca. I problemi, infatti, sono molti. Il documento, su carta, pergamena o su una tavoletta di pietra è destinato ad attraversare i secoli. Ma dalla nostra vita stanno sparendo quelli che gli addetti ai lavori chiamano «supporti». Le informazioni continuano ad aumentare, ma durano sempre meno, perché tendono a scomparire gli oggetti sui quali venivano registrate: la musica non è incisa su dischi, ma è compressa in file elettronici. Lo stesso discorso vale per fotografie digitali, filmati, documenti, tutti ridotti a volatili stringhe di numeri binari. da ottimisti pensare che attraverseranno i millenni, come capita invece ai marmi incisi nell’antica Roma. «Un ulteriore problema» spiega Enrico Menduni, docente di Storia delle comunicazioni di massa all’Università di Siena, «è l’organizzazione delle biblioteche e degli archivi. Sono strutturati per conservare solo carta: se cerco alla Biblioteca nazionale, trovo probabilmente la copia delle istruzioni del mio frullatore, non un importante discorso di Mussolini alla radio. Dunque, mentre si raccoglie tutto ciò che viene pubblicato, le trasmissioni radio-televisive potrebbero in gran parte non lasciare traccia. Io stesso ho calcolato che registrando su Cd i programmi di tutte le radio libere italiane, in un solo anno si riempirebbe di dischi un enorme palazzo. Quindi è un problema anche pratico». Ma il nostro futuro è in bilico tra due estremi. Da una parte c’è il rischio dell’oblio che le informazioni digitali portano in dote. Dall’altra si teme la copia elettronica della nostra esistenza, che ci priverebbe del ”diritto alla rimozione”. La Microsoft, infatti, ha lanciato il progetto Mylifebits, apparecchietto grande come un ciondolo che registra e fotografa ogni istante della nostra vita, per poi scaricarlo nell’hard disk di un computer, realizzando in pratica una copia (scolorita) della nostra memoria da portare sempre al collo. Se si dimentica un numero telefonico, una faccia, una lite, basterà andare alla console, digitare la parola chiave e ritrovare ciò che avevamo scordato. Resta solo da capire se la foto e la descrizione della torta di mele della zia saranno mai uguali alla memoria del suo profumo.