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 2005  novembre 16 Mercoledì calendario

Esce il film Immortal, fiaba di dèi e di uomini che rischiano di morire tra una settimana o di campare per l’eternità (vedi box a pagina 111), e quella parola - ”immortal” - ci riporta alla mente il vecchio sogno, quello di non morire e restare eternamente giovani

Esce il film Immortal, fiaba di dèi e di uomini che rischiano di morire tra una settimana o di campare per l’eternità (vedi box a pagina 111), e quella parola - ”immortal” - ci riporta alla mente il vecchio sogno, quello di non morire e restare eternamente giovani. A settembre Aubrey de Grey, un biogerontologo di Cambridge che sembra un hippie, s’è presentato a Kensington dove c’era un convegno sulla longevità, e ha detto al microfono che la prospettiva dei nostri nipoti è quella di vivere cinquemila anni. I 350 scienziati che lo ascoltavano non hanno battuto ciglio. De Grey ci ha poi spiegato: «C’è intanto un ragionamento statistico: guardo il punto a cui è arrivata la ricerca adesso e lo stato in cui si trovava la scienza mezzo secolo fa. Mi proietto tra cinquant’anni e dico che, se oggi siamo a questo punto, non è arduo prevedere che nel 2050 potremo pensare di vivere cinquemila anni». A che punto saremmo, adesso? «Adesso i record di longevità sono intorno ai 120 anni. I 150 sono a portata di mano, si tratta di sviluppare i cosiddetti ”trattamenti di prima generazione”». Quando vivere 150 anni sarà normale, pensa che la ricerca si fermerà? Che gli uomini si accontenteranno? «No, non credo. Un’umanità per cui è normale arrivare a un secolo e mezzo di vita non lavorerà sicuramente per progredire di uno o due anni. Si lavorerà intensamente per aggiungere alla vita blocchi di decenni. Immagini questo lavoro dei ricercatori di tutto il mondo per mezzo secolo consecutivo, con l’enorme quantità di dati che ci mettono a disposizione i computer. I cinquemila anni, mi creda, sono a portata di mano. Si tratta naturalmente sempre di un’ipotesi che sarò pronto a correggere, in un senso o nell’altro, se i risultati delle ricerche future non fossero, in futuro, così incoraggianti». Per esempio? «Beh, un rallentamento delle scoperte mi potrebbe far tagliare la previsione a duemila anni. Ma qualche fatto nuovo potrebbe indurmi anche a portarli a ventimila». Secondo de Grey, il punto-chiave per il prolungamento all’infinito della vita riguarda i telomeri (vedi l’illustrazione nella pagina precedente). Il telomero è l’estremità del cromosoma, costituito da centinaia di ripetizioni della sequenza TTAGGG (sono le lettere che indicano le quattro basi che stanno nel filamento del Dna: nel telomero se ne susseguono tre, la Timina, l’Adenina e la Guanina). Ogni volta che la cellula si divide e il cromosoma viene replicato, questa sequenza si accorcia e quando l’accorciamento supera una certa soglia critica (limite di Hayflick) la cellula non può più dividersi e l’organismo muore. Ora, nei tumori è attivo un enzima - detto telomerasi - che blocca l’accorciamento dei telomeri delle cellule cancerose e le aiuta a replicarsi all’infinito. In un certo senso le cellule cancerose sono effettivamente immortali. Su questo punto della genetica le ricerche sono naturalmente assai attive. Limitiamoci a citare il caso della Geron, l’azienda californiana specializzata in biotecnologie e proprietaria - appunto - del brevetto sulla telomerasi e sulla pecora Dolly: attivando la telomerasi in un gruppo di cellule coltivate si è constatato che quelle non morivano mai più. È una storia piuttosto istruttiva: da un lato la telomerasi - che spinge il cancro a riprodursi all’infinito - è uno dei nostri nemici più pericolosi. Dall’altro porta con sé uno dei segreti più seducenti: quello dell’immortalità. È un fatto che in Occidente la vita dura sempre di più, semplicemente grazie alla diffusione dei vaccini e degli antibiotici e grazie al propagarsi dei princìpi igienici che da soli tengono lontane parecchie malattie. La durata della vita infatti dipende in uguale misura da fattori genetici e ambientali (e dal caso, naturalmente). Per quello che riguarda i fattori genetici è noto che, ovunque, le donne vivono più degli uomini. Dunque qualcosa, nel modo in cui è fatta la donna, garantisce la longevità. Intanto gli estrogeni la proteggono fino alla menopausa dalle malattie cardiovascolari. E la capacità di far figli? Deve entrarci anche questa in qualche modo, perché in tutto il mondo animale l’attività riproduttiva è collegata alla durata della vita. Il caso più clamoroso è quello dell’ape regina, che ha la stessa struttura genica dell’ape operaia, ma vive cinque anni, mentre l’operaia muore dopo due-dieci mesi (a seconda della stagione in cui è nata). Inoltre si è scoperto che in un buon numero di centenari si presentano mitocondri con certe varianti che favorirebbero la durata della vita: e i mitocondri sono trasmessi solo dalla madre. Infine, nel cromosoma X potrebbero esserci caratteristiche che favoriscono l’adattabilità. E le donne ne hanno due (quindi, vantaggio raddoppiato), mentre i maschi ne hanno uno solo. Quanto all’ambiente, la prova più strabiliante della sua influenza sulla lunghezza della vita è data dalla seguente scoperta: un topo femmina che si sviluppa nell’utero della madre tra due maschi vive di più di un topo femmina che si sviluppa nell’utero della madre tra due femmine (vedi il disegno accanto). Il perché non è chiaro, ma il fatto è provato. Dunque l’ambiente determina il momento della nostra morte in molti modi e non solo attraverso la migliore alimentazione, la migliore igiene e le migliori condizioni di vita in generale. Vi sono altri fattori connessi con la longevità, fattori che a prima vista non verrebbero in mente? Per esempio: le dimensioni del corpo c’entrano? Cioè, si potrebbe sostenere che un essere vivente grosso vive, grazie alle sue dimensioni, più a lungo di un essere vivente minuscolo? È stato studiato anche questo punto e si è visto che un rapporto c’è: in un grafico ideale, gli esseri viventi si collocano intorno a una linea obliqua e stanno sopra o sotto la linea a seconda che vivano di più o di meno di quanto le proporzioni corporee farebbero supporre. L’uomo è quello che sta più in alto (cioè, le sue dimensioni dicono che dovrebbe vivere di meno), il criceto dorato è quello che sta più in basso. Cade perfettamente sulla linea obliqua, cioè è in regola, solo il leopardo (quasi vent’anni di vita media). E la cultura c’entra in qualche modo? È temerario sostenerlo con certezza. Però, è almeno provato che la cultura (intesa soprattutto come continuo esercizio intellettuale) tiene lontana la demenza senile. Forse non prolunga la vita, ma garantisce una vecchiaia migliore. In definitiva i cinquemila anni di de Grey non sono neanche così stupefacenti. In natura vive cinquemila anni il Pino della California, e il Creosoto arriva addirittura a undicimila anni. Piuttosto: stiamo parlando di uomini che passeranno migliaia di anni a vivere da vecchi o possiamo sperare in una giovinezza lunghissima e in una vecchiaia non troppo prolungata? De Grey sostiene che potremo addirittura sceglierci l’età biologica preferita (20, 30 o 40 anni, quella che ci piace di più). E a Berkeley è sotto sperimentazione un preparato (carnitina e acido lipoico) che ringiovanisce le cellule (Bruce N. Ames, uno degli scienziati che ci lavora: «Abbiamo sperimentato questa specie di elisir su vecchie cavie e quelle si sono messe a ballare la macarena...»). Però: come sarà organizzato un mondo fatto di gente con tanti anni sulle spalle? Luciano Sterpellone, medico e storico della medicina (Dagli Dei al Dna, edizioni della A. Delfino), ha ipotizzato un’umanità con un’età media di 400 anni e ha tenuto presenti soprattutto gli studi dell’università del Wisconsin: «Dal punto di vista sociale, i 400 anni di età media sono un problema. Primo: si dovranno limitare drasticamente le nascite, perché in un mondo dove non si muore, non si può più nascere come prima. Anche così si raggiungerà rapidamente un livello di sovrappopolazione e, di conseguenza, vi saranno più inquinamento, più infezioni, più epidemie. Crisi delle fonti energetiche, crisi della vita sociale così come la conosciamo. Dovendo vivere 400 anni, non è pensabile che ci si sposi a 20. Dovendo vivere 400 anni, è difficile ammettere che ci si sposi ”per tutta la vita”. L’età del primo figlio? Direi a cent’anni. Livello di istruzione: beh, sotto le cinque lauree (con tutto quel tempo a disposizione!) si sarà giudicati ignoranti. Rapporti giovani-vecchi? Tremendi: si instaurerà una gerontocrazia che difenderà il suo posto nella società per tre secoli consecutivi. Secondo me verso i 380 anni si comincerà a perdere la memoria per mancanza di spazio: il cervello sarà zeppo di dati. Temo che il nostro nemico principale sarà la noia». E, infine, il caso. Anche ammesso che tutte le malattie siano sconfitte, potremo sempre esser messi sotto da un’automobile o ammazzati da qualche marito che non ci sopporta più. Citiamo, su questo punto, dal bel libro L’invecchiamento, scritto per Zanichelli da Robert E. Ricklefs e Caleb E. Finch: «Nessuno di noi può vivere per sempre. Anche se non invecchiassimo, i numerosi pericoli di cui la vita è costellata - incidenti fra le mura domestiche e sulle strade, malattie contagiose, crimini violenti - finirebbero comunque per troncare la nostra esistenza. Gli anni più sicuri per gli esseri umani sono grosso modo quelli della pubertà; nella fascia di età compresa fra i 10 e i 15 anni il rischio di morte tocca infatti il livello più basso: in Nord America e in Europa muore ogni anno 1 adolescente su 2.000 - un’incidenza percentuale pari allo 0,05 per cento. Subito dopo la pubertà, ossia non appena cominciamo a sperimentare il lento declino fisiologico che chiamiamo invecchiamento, nelle popolazioni di tutto il mondo e indipendentemente dal rischio di morte degli adolescenti, il tasso di mortalità comincia a salire con regolarità. All’età di cent’anni la nostra capacità di affrontare le malattie e le aggressioni dell’ambiente è talmente diminuita - e il nostro organismo si è a tal punto logorato - che il rischio di morire tocca il 50 per cento all’anno. Consideriamo per un attimo un mondo immaginario nel quale non esista il fenomeno dell’invecchiamento, nel quale cioè gli individui abbiano per tutta la vita un rischio di morte costante, attestato sul tasso dello 0,05 per cento annuo, tipico dell’adolescenza. In un mondo siffatto, le nostre probabilità di raggiungere un’età molto avanzata sarebbero immensamente maggiori. Anzi, potenzialmente saremmo quasi immortali. ”Quasi” perché quel lancio di dadi effettuato ogni anno con la probabilità di 1 su 2.000 comporterebbe comunque una graduale perdita di individui. In ogni caso, se non fosse per l’invecchiamento, il 95 per cento della popolazione festeggerebbe il centesimo compleanno e il 50 per cento raggiungerebbe l’età, apparentemente sbalorditiva, di 1.200 anni».