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 2005  novembre 16 Mercoledì calendario

Sono già molti i lettori che hanno voluto partecipare al concorso Come eravamo regalandoci la loro testimonianza dell’Italia che fu: una vicenda personale, un aneddoto, un episodio storico raccontati in prima persona, con la sensibilità di chi era in prima fila

Sono già molti i lettori che hanno voluto partecipare al concorso Come eravamo regalandoci la loro testimonianza dell’Italia che fu: una vicenda personale, un aneddoto, un episodio storico raccontati in prima persona, con la sensibilità di chi era in prima fila. Inauguriamo la serie dei racconti con un testimone della tragedia del Vajont. «Mi chiamo Enrico Mazzucco e sono nato nel 1946 a Cass, frazione di Erto e Casso (PN), un comune della Valle del Vajont, proprio di fronte al Toc, la montagna che precipitò nel lago sottostante quel tragico 9 ottobre 1963. Negli anni 50 io e i miei passavamo l’inverno a Cass. Poi, come gli altri, in primavera ci trasferivamo sul Toc. Attraversavamo con il bestiame il torrente Vajont e risalivamo sull’altro versante, dove ogni famiglia aveva una o più baite con una stalla per gli animali. Finché c’era scuola, noi bambini tornavamo ogni giorno al paese, gli altri pascolavano le mucche e raccoglievano foraggio e legna. I prati venivano falciati come un giardino, dal fondovalle fin sotto la vetta, poi si portava il foraggio a spalla o si trainava con le slitte. Ci nutrivamo con il latte fresco e con quello che le nostre donne barattavano al mercato di Longarone: legna, burro e formaggio in cambio di farina, sale e tabacco. Naturalmente sul Toc non avevamo né luce né acqua corrente: la pioggia veniva inghiottita dal terreno carsico, così erano state costruite delle canalette che convogliavano l’acqua dai tetti a vasche interrate vicino alle malghe. Acqua preziosa, vietata ai giochi dei bambini. «Poi, nella valle comparvero forestieri che cominciarono a fare misteriosi rile- vamenti e operai attaccati alle funi di sicurezza come scalatori. Nel ’56 si capì che la nostra povera terra sarebbe stata sommersa da un lago enorme. Io me ne resi conto quando venne costruita l’avandiga: vidi quella pozza e dissi sorridendo a un operaio: ”Sarebbe quello il tanto decantato lago?”. ”No” rispose lui, indicandomi dei palloncini. ”Quello arriverà lassù”. Guardai in alto e mi vennero i brividi. In un certo senso il disastro era cominciato prima: le famiglie che abitavano sotto Erto dovettero lasciare le loro case che sarebbero finite sommerse dall’acqua. Ricordo una donna in lacrime raccontare che la ditta costruttrice aveva offerto per andarsene l’equivalente di cinque mucche. E alla minaccia del marito di non firmare, aveva risposto sarcastica: ”D’accordo, allora sarà il lago a convincervi”. Un giorno scoprimmo verso la vetta del Toc una grande crepa che preoccupò molto mio padre. Un geometra, vista la fessura, impallidì e disse: ”Se il Toc si stacca da qui, che Dio ce la mandi buona”. E non era tutto: salendo di livello, il lago aveva infranto l’equilibrio naturale. L’acqua piovana, che abitualmente filtrava nei bassifondi del Toc, li trovava ora invasi dall’acqua del lago e risaliva verso le falde ammorbidendo gli strati di argilla e rendendo il tutto instabile. Più il lago saliva, più il Toc tremava e scaricava sassi. Ma nessuno pensava che gli operai della diga avrebbero lasciato i loro figli a Longarone davanti a un pericolo reale. Comunque comprai una valigia e me ne andai a lavorare in Val d’Aosta con altri compaesani. Il 10 ottobre il mio capo-officina arrivò in cantiere senza salutarmi. Cosa avevo fatto di male? E lui: ”Scusa, non avevo il coraggio di dirtelo: la tua diga si è rotta. L’hanno detto ieri sera alla Tv”. «Tornammo subito verso casa passando da Est, perché a Longarone arrivavano solo i soccorsi. A Cimolais trovammo il caos generale e molti dei nostri. Seppi da mio fratello che i nostri genitori erano salvi, bloccati al paese. Uno zio mi raccontò che dal Toc aveva visto scivolare la montagna nel lago e l’onda risalire sull’altro versante, tra il frastuono e le urla della gente. Negli anni seguenti cercai invano di far parlare un vecchio che aveva assistito alla scena dalla parte di Erto Casso. Mi disse solo: ”Quella notte nella valle ho visto il demonio”. «Il giorno dopo aggirammo un posto di blocco sul passo di S. Osvaldo e scendemmo a San Martino. Che spettacolo terribile! Le punte rocciose del Toc erano risalite sul versante opposto per 120 metri, molte case non c’erano più, di altre si vedevano solo le fondamenta. C’era fango ovunque. A monte della frana il lago era torbido, pieno di animali morti e travi galleggianti. Due barche dei vigili del fuoco andavano su e giù alla ricerca dei dispersi. Davanti alle scuole di Erto c’erano una decina di corpi ripescati dal lago e la guardia comunale ci chiese se riconoscevamo qualcuno. Un militare che aveva perso i genitori e due fratelli, prese le mani dei morti cercando di riconoscere quelle di sua madre. «Lì finì la nostra vita normale, perché la maggioranza votò per abbandonare il paese. Un’ordinanza governativa prometteva un contributo a chi si fosse trasferito altrove con la famiglia: 36.000 lire per il capofamiglia e 12.000 lire a testa per la moglie e i figli. Era poco: allora un paio di scarpe costavano 3.500 lire e una birra 60 lire. Per un bambino 12.000 lire potevano bastare, ma noi diciottenni avevamo sempre i soldi contati: molti miei amici persero le fidanzate che preferirono accasarsi con ragazzi che andavano a prenderle con la Seicento. Ci restava solo da ricordare il disastro del Toc e ringraziare Dio di essere vivi».