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 2005  novembre 16 Mercoledì calendario

«Non appena Dio scoppiò a ridere, apparve la luce. Rise di nuovo e fu acqua dappertutto. Alla terza risata apparve Ermes, alla quarta la generazione, alla quinta il destino, alla sesta il tempo

«Non appena Dio scoppiò a ridere, apparve la luce. Rise di nuovo e fu acqua dappertutto. Alla terza risata apparve Ermes, alla quarta la generazione, alla quinta il destino, alla sesta il tempo. Poi, prima di scoppiare a ridere per la settima volta, Dio inspirò profondamente. Ma aveva riso talmente tanto che pianse: e dalle sue lacrime nacque l’anima». Così narra l’autore anonimo di un papiro alchimistico che risale al III secolo della nostra era, il papiro di Leida. E così inizia l’ultimo libro dello storico francese Georges Minois, Storia del riso e della derisione (Dedalo edizioni, 38 euro). Minois ricorda che gli antichi avevano una concezione divina del riso: per gli dèi il riso era espressione di libertà, per i mortali ridere significava partecipare alla ricreazione del mondo. Le cose cambiarono con il cristianesimo, quando il riso abbandonò il divino per diventare strumento del Diavolo. «Gesù non ha mai riso», ammonivano i Padri della Chiesa, perché nel Nuovo Testamento non è mai scritto che Egli rida. «Molte regole monastiche, scrive Minois, prevedono punizioni contro i monaci sorpresi a ridere o scherzare. Nella regola chiamata ”dei quattro padri”, composta a Lérins verso il 400-410, si legge: «Se qualcuno viene sorpreso a ridere o a fare battute, ordiniamo che per due settimane l’uomo colpevole sia, in nome del Signore, represso in tutti i modi con la frusta dell’umiltà». Anche nel XVII secolo il riso è considerato diabolico, e infatti Satana è ridanciano e canzonatore. I trattati di medicina dell’epoca raccontano di alcuni malati che morivano per crisi di riso, ma l’autore medico inglese Thomas Sydenham (1624-1689) sosteneva che «l’arrivo di un buon clown esercita, sulla salute di una città, un’influenza benefica superiore a quella di venti asini carichi di medicinali». Nel libro A Brief Histori of Smile (Basic Books, 49,90 euro) appena uscito negli Stati Uniti, il critico d’arte americano Angus Trumble racconta che gli educatori britannici del XVIII e XIX secolo facevano una netta distinzione tra ridere e sorridere. Ad esempio George Brewer, in un compendio di buone maniere scritto nel 1815, così ammoniva gli adolescenti: «Quando ridiamo, le sopracciglia si piegano verso il naso, gli occhi si rimpiccioliscono, la bocca si spalanca mostrando i denti, gli angoli della labbra si tirano all’indietro, le guance si gonfiano fin quasi a celare gli occhi, le narici si spalancano, il volto si fa paonazzo. La risata è sempre sgraziata, e infatti ride soprattutto la plebaglia. Le persone a modo, meglio capaci di gestire le passioni, raramente si spingono oltre un sorriso». E il britannico Lord Chesterfield, nel 1748, scriveva in una lettera indirizzata al figlio: «Che cosa volgare e disdicevole codesta risata, per non parlare del rumore sgradevole e delle spaventose deformazioni che produce in volto». Scrive Trumble: «Al giorno d’oggi non facciamo caso alla differenza tra ridere e sorridere. Curiosamente, però, nel linguaggio inglese la distinzione resta, e infatti non c’è alcun legame etimologico tra il verbo to smile (sorridere) e to laugh (ridere). Diversamente, in latino subrideo è una forma del verbo rideo. Quel prefisso sub, cruciale, indica con chiarezza che il sorriso è un preliminare del riso o una risata trattenuta». Nonostante tante dotte dissertazioni, la risata resta, per certi versi, ancora misteriosa. Inanzittuto: perché ridiamo? A cosa serve ridere? Nel passato, grandi pensatori, a cominciare da Platone e Aristotele, hanno provato a rispondere a queste domande. All’inizio del ’900, il filosofo francese Henri Bergson zittì tutti sostenendo che il riso è per sua natura inconoscibile: «ridicolo pretendere di studiarlo. Chi ci prova, fa come il bambino che crede di afferrare con la mano la schiuma di un’onda del mare, meravigliandosi poi di veder scorrere tra le sue dita solo qualche goccia d’acqua». Cionostante i ricercatori continuano a scervellarsi e su molti punti non sono d’accordo. Tranne su questo: ridere è una faccenda innata. Tutti i bambini di tutte le culture ridono, fin dalle prime settimane di vita. Ma come nasce il primo sorriso? Alcuni psicologi credono che capiti per caso, come un qualunque movimento facciale: poiché viene accolto con gioia dagli adulti, il bambino tende a ripeterlo. La pensava così anche l’etologo Desmond Morris: «Tra i primati, il sorriso dell’infante umano è un fenomeno unico. I piccoli delle scimmie non sorridono: non ne hanno bisogno, perché per mantenere il contatto con la madre gli basta aggrapparsi alla sua pelliccia. Il bambino, non avendo la forza per fare altrettanto, deve in qualche modo rendersi gradito alla madre: la specie, nella sua evoluzione, ha risolto il problema con il sorriso». Non è d’accordo l’endocrinologo Emmanuele A. Jannini (e con lui altri studiosi): «Il sorriso, e ancor di più il riso, dal punto di vista neurologico e muscolare sono eventi molto complessi: quando sorridiamo mettiamo in moto tredici muscoli, quando ridiamo più di cinquanta. Impossibile che un bimbo di una settimana, ancora mezzo cieco, riesca a leggere, decodificare e riprodurre un fenomeno tanto complicato. Quindi il sorriso è un riflesso innato e il bimbo, sorridendo, non imita gli adulti né tantomeno cerca di rendersi a loro gradito». Ma perché si continua a ridere anche quando non si è più bambini? «Perché gli adulti» continua Jannini, «ragionano così: quello che fa il bambino è bello, buono, semplice e puro. Siccome lui sorride, sorridiamo pure noi. Il sorriso oltretutto, da un punto di vista etologico, è un paradosso: tra gli animali, mostrare i denti non ha nulla di amichevole, è anzi chiaro segno di ostilità. Se io mi presento davanti a una tigre sghignazzando, quella, ignara del fatto che quando rido son contento, mi sbrana». Per gli psicologi, una risata è soprattutto un modo per scaricare l’aggressività, le ansie, le frustrazioni. «Il primo uomo dotato di umorismo», ha scritto Mario Farnè nel libro Guarir dal ridere (Bollati Boringhieri), «randellava violentemente il nemico e rideva a crepapelle». Robert Provine, professore di psicologia e neuroscienze all’Università del Maryland (Usa), ha contato il numero di volte in cui qualcuno rideva ascoltando un altro parlare: «Non potevo credere a quello che sentivo» scrive «Chi parla ha il 46 per cento di probabilità in più di ridere rispetto a chi ascolta. E inoltre solo il 15 per cento delle frasi che provocano il riso sono umoristiche. Per il resto la risata serve solo a sottolineare un rapporto sociale. Si ride dicendo anche frasi banali come ”Ci vediamo dopo”». Alle stesse conclusioni è giunto il professor Johnson Steven, del Computer Science Department of Indiana University (Usa): «Il meccanismo fisico della risata» ha scritto Steven, «si genera nel midollo allungato, la regione più antica del nostro sistema nervoso centrale. Il midollo allungato controlla i nostri istinti più primitivi, per esempio il respiro, e altre funzioni basilari ben lontane dalla complessa capacità cerebrale necessaria a capire l’umorismo. Ma quale vantaggio evolutivo dà la risata, per giustificare la sua sede nella regione più primitiva del cervello umano? Considerando che ridiamo soprattutto quando siamo in compagnia, si deduce che ridere è un istinto che ci aiuta a socializzare. E deve avere un ruolo decisamente importante, visto che si è affermato nonostante la scarsità del nostro ”equipaggiamento biologico”. L’uomo, cioè, parla, mangia, respira e ride dalla stessa cavità, la bocca. E se abbiamo riso durante tutta l’evoluzione, portando via tempo prezioso al parlare o al mangiare, vuol dire che la risata è più di un piacevole accessorio per allietare la vita».