MACCHINA DEL TEMPO DICEMBRE 2004, 16 novembre 2005
L’acquavite di vinacce è stata, per secoli, il liquore dei poveri, prodotto dagli scarti della vinificazione
L’acquavite di vinacce è stata, per secoli, il liquore dei poveri, prodotto dagli scarti della vinificazione. Ai nobili e ai ricchi andava il vino e, di conseguenza, il distillato che se ne ricavava: il brandy (o il cognac o l’armagnac, se si era in Francia o se lì lo si acquistava). Ma anche il distillato dei contadini aveva i suoi estimatori. Senza dubbio lo conobbe Leonardo mentre faceva i suoi esperimenti nell’arte della distillazione. Tanto che inventò anche una specie di grappa aromatizzata. Così scrisse, infatti: «Di questo Aloe si conosce la bontà quando esso si risolve nell’acquavite». Che fosse di vino o di vinacce, difficile saperlo. Ma era certo di vinacce il distillato che Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), si faceva spedire dalla langarola Grinzane, in provincia di Cuneo. L’accorto statista, infatti, amava accertarsi di persona della qualità della grappa (’branda”, in piemontese) prodotta dai suoi contadini. Anche una grande attrice come Greta Garbo (1905-1990) amava la versione tedesca della grappa, che alternava a troppe sigarette. Ma l’alcol, da sempre, pare andar d’accordo con i letterati. Conosceva bene la grappa il poeta burlesco e satirico Francesco Berni (1497-1535), che spesso la cita nelle sue strofe: «Io vi scongiuro se mai venite / chiamato a medicar quest’oste nostro, / dategli a ber a pasto acqua di vite». O il poeta e librettista Giuseppe Giacosa (1847 -1906), che di certo avrà condiviso tale passione con l’amico Giacomo Puccini («Bevve qualche sorso d’acquavite e gli parve tornare in forze»). Impossibile dimenticare l’autore de Il mulino del Po, Riccardo Bacchelli (1891-1985), cantore di povera gente e, giocoforza, della grappa: «Acquaviti di limpidezza adamantina; secche, tutte spirito, con l’aspretta grazia dell’autentica vinaccia indolente nel sentore». Giovane, invecchiata, affinata, aromatizzata, di monovitigno, torbata... pochi distillati vantano così tanti attributi come la grappa, tra tutte le acquaviti la più nostra e la più italiana, non soltanto per legge e produzione, ma soprattutto per cuore e anima. Anche se non tutti sono d’accordo sull’etimologia di questo antico superalcolico, è bello pensare che racchiuda la propria storia tra le sillabe: grappa da ”graspo”, ossia il raspo del grappolo d’uva, la parte verde che resta una volta tolti gli acini. Filologia e origini s’incontrano e si confortano a vicenda, poiché proprio dai residui dell’uva spremuta per la vinificazione (le vinacce) nasce la grappa. Anche Niccolò Tommaseo, nel suo Dizionario della Lingua Italiana, sostiene questa tesi: «Spirito di graspo. spirito di vino estratto dai graspi separati dal mosto...». Così, mentre il nobile vino segue strade tutte sue, dai residui abbandonati nel tino sorge, già nell’XI e nel XII secolo, qualcosa di più popolare e umile, nato per non gettare nulla e sfruttare fino in fondo i doni della natura. Ma i tempi cambiano e mutano gusti e costumi: oggi, grazie a produttori lungimiranti e a mastri distillatori, la nostra grappa ha riscattato il passato. Non che un tale prodotto si crei soltanto da noi: in Portogallo, ad esempio, un analogo distillato si chiama bagaceira; in Francia prende il nome di marc; in Germania si chiama Tresterbrand. L’Italia, però, con 40 milioni di bottiglie riempite ogni anno, vanta un primato innegabile, costruito sulla ricerca della qualità e sul rispetto della tradizione. Tradizione sì, ma quale? Perché le regioni nostrane che ancora battagliano tra loro per aggiudicarsi i natali dell’acquavite sono almeno quattro: Piemonte, Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli. Anche le poche denominazioni geografiche ottenute dall’Unione Europea paiono additare le terre che hanno visto gli albori della grappa. Sono sette, per la precisione: grappa di Barolo, piemontese, lombarda, trentina, dell’Alto Adige, veneta e friulana. Ma si tratta solo di grandi famiglie. Molto di più vale il nome del distillatore o dell’azienda, che ha saputo improntare il prodotto con marchio inconfondibile. Le vinacce. Anche nella grappa, la materia prima e la cura nella lavorazione definiscono il risultato. Il cognac, l’armagnac e il brandy nascono tutti dalla distillazione del vino; il whisky da quella dei cereali, il calvados dalle mele e così via. Solo la grappa nasce dai residui della vinificazione: raspi (20-29 per cento), bucce (46-65 per cento), vinaccioli (17-30 per cento), oltre a rimasugli di polpa, mosto e vino. Pur dando il nome all’acquavite, i raspi non contribuiscono al sapore, così molti distillatori preferiscono scartarli. Da ogni ettolitro di mosto si ricavano da 15 a 20 kg di vinacce. Da 100 kg di vinacce si distillano da 6 a 15 litri di grappa a 40°, secondo la qualità delle vinacce e del loro tenore alcolico. Le vinacce migliori sono quelle fresche, umide, sottoposte a una torchiatura leggera e quindi ricche di vino e mosto (4°-5° per le vinacce rosse, 2°-4° per le bianche). Le vinacce rosse, che nel corso della lavorazione del vino restano a contatto col mosto durante tutta la fermentazione, sono povere di zuccheri e ricche d’alcol, pronte per essere distillate. Al contrario quelle bianche, separate presto dal mosto, sono ricche di zuccheri ma povere di alcol: è il distillatore che deve lasciarle fermentare prima di procedere oltre. La distillazione. Alla base della produzione della grappa, vi è la distillazione, processo che sfrutta la diversa temperatura d’ebollizione dei vari liquidi, in modo da estrarre dal mosto d’acqua e vinacce soltanto alcol e sostanze aromatiche ”buone”. Nella sua forma più semplice, l’alambicco è composto da una caldaia (riscaldata in vari modi, oggi soprattutto a bagnomaria o a vapore), un cappello che la chiude ermeticamente e un lungo condotto (’collo di cigno”) che trasporta i vapori a una serpentina raffreddata ad acqua, in cui i vapori stessi si condensano. Il punto di riferimento è la temperatura d’ebollizione dell’alcol etilico (78,4 °C). L’arte del distillatore si vede in questo delicato intervento: togliere tutto quanto esce dall’alambicco prima di raggiungere i 78,4 °C e tutto quanto scaturisce oltre i 100 °C. La grappa vera e buona nasce tra i 78,4 e i 100 °C: questo è il cuore, che bisogna preservare. La cura deve esser continua, soprattutto quando si utilizza il metodo tradizionale di distillazione (discontinuo), il migliore per la produzione di acquaviti eccellenti. Nella caldaia di rame s’inserisce una quantità prefissata di vinacce e acqua (di solito al 50 per cento), poi si effettua la «cotta». Quando s’inizia a riscaldare la miscela, si sviluppano i vapori delle sostanze più volatili (che hanno cioè una temperatura d’ebollizione inferiore) come alcol metilico, aldeide acetica, acetato di etile. La loro condensazione dà origine alla testa del distillato, che viene scartata. A partire dai 78,4 °C e sino ai 100 °C si sviluppa il cuore della grappa, composto da alcol etilico e sostanze volatili buone, responsabili del gusto e dell’aroma. Sopra i 100 °C c’è la coda, ricca d’impurità e olio amilico, spesso caratterizzata da sapore e odore sgradevoli. Ciò che succede in seguito dipende dal distillatore: può vendere la grappa giovane, oppure lasciarla riposare nelle botti. Ma, giovane o vecchia che sia, la grappa resterà sempre nostra, italiana fino all’ultima goccia. Unica e inimitabile.