Giorgio Dell’Arti, MACCHINA DEL TEMPO DICEMBRE 2004, 16 novembre 2005
Quello che si vede nell’immagine grande della pagina precedente è uno spaccato del Colosseo così com’era al tempo degli antichi romani
Quello che si vede nell’immagine grande della pagina precedente è uno spaccato del Colosseo così com’era al tempo degli antichi romani. Quello che si vede nell’immagine più piccola, a sinistra, è invece il Colosseo visto dall’alto, nel centro di Roma: una costruzione immensa, che domina una città sicuramente ricca. Siamo infatti nel primo secolo dopo Cristo, al tempo degli imperatori Vespasiano e Tito. Roma era a quell’epoca la capitale del mondo, con un milione e forse più di abitanti. Un milione di abitanti forse a noi non fa impressione. Ma bisogna pensare che tutta la Terra in quel tempo era abitata da non più di cento milioni di persone: Roma, perciò, in proporzione, equivaleva a una città odierna di 60 milioni di abitanti (le città più popolose del mondo stanno oggi in Cina e hanno 30-35 milioni di abitanti). Queste due belle illustrazioni sono tratte dal libro ”Il Colosseo. L’arena della morte” scritto dal giornalista inglese Peter Connolly e pubblicato adesso in italiano da Rti e Bbc insieme. Connolly ci racconta proprio tutto di quell’antica arena, dove combattevano bestie feroci contro bestie feroci, gladiatori contro bestie feroci e gladiatori contro gladiatori. Vi si eseguivano le condanne a morte (taglio della testa, crocifissione ecc.) e si davano in pasto i cristiani alle belve. Ogni tanto il Colosseo veniva allagato e ci si facevano delle grandi battaglie navali. Vediamo dall’immagine (e lo si vedeva anche nel film ”Il Gladiatore”) che il nostro monumento era tutto bianco. Era infatti ricoperto di marmo e travertino. Ma all’interno, invece, i corridoi e le scale erano dipinti di rosso, verde, giallo e nero. Come facciamo a saperlo? Marziale e altri scrittori antichi ci parlano di quel formidabile edificio, alto cinquanta metri e capace di ospitare cinquantamila spettatori. Al momento dell’inaugurazione, nell’80 dopo Cristo, le feste durarono per cento giorni consecutivi. Vicino al Colosseo, stava il Ludus Magnus (vedi immagini sopra), un anfiteatro più piccolo, circondato da 144 stanze, dove vivevano e si allenavano i gladiatori e dove venivano addestrati i principianti. I romani e gli organizzatori dei giochi tenevano molto, infatti, alla salute e allo stato di forma dei loro eroi sportivi. Scrive Connolly: «Ogni scuola di addestramento per gladiatori era diretta da un procuratore che veniva nominato direttamente dall’imperatore. Costui era di solito un membro dell’ordine equestre (il ceto sociale immediatamente inferiore a quello senatorio) ed era responsabile delle finanze e dell’amministrazione generale della scuola, oltre a dirigere un numeroso personale di specialisti che comprendeva istruttori, medici, massaggiatori, armaioli, guardie di sicurezza, contabili e scrivani. Ogni gladiatore apparteneva a un gruppo o a una compagnia specifica (familia gladiatoria), che a sua volta era alle dipendenze di un istruttore capo, detto lanista (parola di origine etrusca, il che rafforzerebbe l’idea che i gladiatori provenissero inizialmente da quella regione). Dai tempi del primo imperatore romano Augusto, il lanista rendeva conto direttamente al sovrano e uno dei suoi compiti principali consisteva nell’assicurarsi che la scuola fornisse sempre nuovi gladiatori adeguatamente addestrati. Si poteva paragonare a una sorta di talent scout, che andava alle aste degli schiavi e faceva la sua offerta per l’uomo più robusto e in forma che riuscisse a trovare. Le scuole gladiatorie più importanti, come quelle di Roma e Capua, avevano istruttori specializzati nelle diverse discipline del combattimento (doctores), come si può ricavare da istruzioni in cui si menziona un doctor retiarorum, un doctor secutorum, un doctor Thraecorum». Quasi tutti i gladiatori erano schiavi, ma a Pompei un graffito parla di un Publio Ostorio, uomo libero, che aveva sostenuto 51 combattimenti (e non si sa se il cinquantunesimo era stato l’ultimo). Le iscrizioni ci hanno tramandato molte storie di questi uomini: Urbicus, gladiatore di Firenze, combatté 13 volte e fu ucciso nell’arena a 32 anni, da un avversario che combatteva con la rete e il tridente (un reziario). In un incontro precedente, Urbicus aveva battuto proprio questo reziario e poi lo aveva graziato. La moglie (che aveva con lui due figlie) fece scrivere sulla lapide: «Vi raccomando di uccidere sempre chiunque abbiate sconfitto». Ma graziare o non graziare dipendeva fino a un certo punto dal gladiatore: era la folla, seduta sugli spalti, che decideva. E se girava il pollice verso il basso, il vincitore era obbligato ad ammazzare il suo avversario. Al Colosseo gli spettacoli duravano in pratica tutta la giornata. La mattina, lotta con e tra le bestie feroci. A mezzogiorno le esecuzioni. Nel pomeriggio i gladiatori. Stare seduti sui gradoni del Colosseo era parecchio scomodo e la gente si portava il cuscino da casa. C’era il palco imperiale, c’era quello dei magistrati (non è rimasta la minima traccia di nessuno dei due), c’erano cinque ordini di posti, riservati non tanto a chi pagava di più quanto a chi stava più in alto nella scala sociale. I posti migliori erano quelli al primo livello: l’arena era a un passo, si vedeva tutto da molto vicino. Forse da troppo vicino: dalla sabbia su cui si combatteva e si moriva saliva l’odore del sangue umano e animale, e proprio per questo veniva spruzzata ogni tanto, da certe condotte che erano poste sotto l’arena, dell’acqua profumata (l’operazione era detta sparsiones). Quanto agli animali feroci, c’era di tutto (provenivano dal Medio Oriente e dall’Africa): leoni, tigri, ippopotami, elefanti, rinoceronti, leopardi, linci, giraffe, scimmie, cammelli, antilopi, cavalli, asini selvatici, coccodrilli, struzzi. I tori venivano dalla Grecia, gli orsi e i bisonti dall’Europa settentrionale. Si badava a far scontrare animali che fossero in equilibrio tra loro, perché il pubblico non voleva vittorie troppo facili e amava l’incertezza dei duelli. Però ogni tanto gli stessi animali scappavano e, proprio per evitare questo spettacolo, gli organizzatori dello spettacolo li tenevano a digiuno prima del combattimento e poi li eccitavano, per inferocirli, prima di buttarli nell’arena. Ci sarebbe, naturalmente, ancora tanto da dire, al punto da poterci scrivere su un libro. Ma il libro, in realtà, c’è già, ed è questo di Peter Connolly di cui abbiamo già parlato.