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 2005  novembre 13 Domenica calendario

Pavese, uno scandalo nel Pci. Libero 13/11/2005. Il primo scrittore revisionista? Cesare Pavese. E non è una provocazione, ma una costatazione

Pavese, uno scandalo nel Pci. Libero 13/11/2005. Il primo scrittore revisionista? Cesare Pavese. E non è una provocazione, ma una costatazione. Nelle pagine conclusive del romanzo ”La casa in collina” si legge: «ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Ci si sente umiliati perché si capisce che al posto del morto potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione». Parole piene di ”pietas”. Una pagina di educazione civica. I repubblichini non sono delle bestie, ma degli esseri umani: fermarsi a ”guardarli” significa rendersi con-to che anche gli ”altri”hanno un nome, un volto, delle ragioni, e capire che se in una guerra civile ci sono dei ”vincitori”, tutti sono, per diversi motivi, dei ”vinti”. Pavese scriveva queste parole nel 1947; nel 2002, un piemontese come lui -ed anche un antifascista e un revisionista come lui -, Giampaolo Pansa, le sceglierà come contrassegno de ”I figli dell’Aquila”(Sperling & Kupfer). Un romanzo che racconta la vita e la morte di un giovane combattente della RSI: il ”nemico”, l’’altro”, con le sue emozioni, le sue passioni, il suo sangue. Per chi ha fatto della Resistenza un altarino tutto santi e martiri, Pansa -responsabile tra l’altro di altri due libri revisionisti come ”Il sangue dei vinti”(2003) e ”Sconosciuto 1945”(2005) -è un dissacratore: il suo posto è tra i ”reprobi”. E dire che fino al 1990 il suo volto pensoso e malinconico era una venerabile icona progressista. Pavese? Detestava la retorica guerrafondaia del fascismo; credeva nei valori della Resistenza; serio, austero e probo, confidava nella forza redentrice del comunismo; faceva il direttore editoriale della antifascistissima Einaudi; sulle pagine dell’ ”Unità”, esaltava la cultura impegnata ecc. Un santino rosso. Certo, c’erano in lui anche degli aspetti discutibili: l’individualismo, una certa inclinazione a chiudersi nel privato, qualche atteggiamento da nichilista o da decadente, con risvolti autodistruttivi. E poi. . . E poi non aveva qualcosa di morboso quella sua attenzione nei confronti della terra e del sangue, quella curiosità verso miti e archetipi, simboli e tradizioni, insomma verso l’irrazionale ”regressivo”piuttosto che verso il razionale ”progressivo”? Comunque, con la tessera del PCI in tasca, lo strano tipo Pavese era pur sempre un compagno: e del resto, nel 1946, non aveva scritto un libro, per l’appunto intitolato ”Il compagno”, che celebrava battaglie politiche e solidarietà militanti nel segno della coscienza di classe (operaia) e del PCI? Ma nell’estate del 1990 venti di tempesta si abbattono su ”san Cesare”. ”La Stampa”, infatti, pubblica inediti fogli di diario da lui vergati tra l’estate del’42 e il dicembre del’43: ne vien fuori un intellettuale inquieto, che non sputa all’impazzata sul ”bieco Ventennio”; che si mostra sprezzante nei confronti degli antifascisti; che prova schifo per Vittorio Emanuele e Badoglio fuggiaschi; che appare decisamente più filotedesco che filoamericano; che è interessato all’opera di Nietzsche e a quella di Jünger (come un altro antifascista tutto da riscoprire, Giaime Pintor); che evita le sbrodolature moralistiche a proposito di guerre e di rivoluzioni, dicendo chiaro e tondo che esse generano violenza e intolleranza, decisionismo feroce e spietatezza. Ma questo è un militante di sinistra o piuttosto a un alfiere dell’’amor fati”e del ”Blut und Boden” (Sangue e Terra)? Gli intellettuali radical-chic (qualcuno lo ribattezza ”il piccolo Cesare”) ci restano male: ma la colpa è loro. Lo avevano letto davvero Pavese? E se lo avevano letto, lo avevano capito o si erano limitati ad accettarlo solo perché ”compagno”? Il fatto è che il presunto ”compagno”avrebbe dovuto far nascere dei sospetti in quanto spirito libero o controcorrente, per non dire reazionario, già con ”Dialoghi con Leucò”, dove, nel 1947, in pieno neorealismo dogmatico, riscopre le tradizioni mitiche e magiche, e celebra i perduti legami ancestrali tra uomo e natura; avrebbe dovuto far nascere dei sospetti il fatto che proprio in quell’anno lavorava a un romanzo ”resistenzialmente scorretto” come ”La casa in collina”; e il fatto che, sempre nel’47, impegnato nella riorganizzazione della casa editrice Einaudi, avrebbe voluto inserire nella ”Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”, da lui ideata, le opere sul mito dello studioso rumeno Mircea Eliade. Un’autorità in materia, ma anche un ”fascista”, su cui si abbatté il ”niet” dei comuni-sti einaudiani più ortodossi. Chi nel’90 si scandalizzò di fronte agli inediti pavesiani aveva letto ”La luna e i falò”, uscito nel’50, l’anno in cui lo scrittore si tolse la vita? Perché anche in questo romanzo la barbarie della guerra civile e del dopoguerra balza feroce dinanzi agli occhi: con Santina, una bella ragazza uccisa dai partigiani come spia fascista e bruciata in un falò sacrificale; e con il mezzadro Valino che, trascinato da un odio di classe che si riversa su tutto e su tutti, stermina la famiglia, dà fuoco alla casa, al fienile, alla stalla, e alla fine si impicca. E anche qui alla crudezza del presente -sangue che chiama sangue, fuoco che chiama fuoco -si contrappongono miti e riti della terra, cicli cosmici, patrimoni di memorie. Bisognava averlo letto, Pavese, per capire cosa c’era ”dietro” e ”dentro”i suoi scandalosi diari. E invece Gian Carlo Pajetta tuonò contro il vigliacco e il disertore, che non aveva fatto la Resistenza, ma, durante l’occupazione tedesca, si era rifugiato, insieme alla sorella Maria, a Serralunga di Crea, nel Monferrato; Fernanda Pivano piagnucolò: «Quello che leggo nel Taccuino non è lui, non lo riconosco; Fernando Camon sibilò: «Ho un orrendo sospetto. Pavese ha scelto di non pubblicare ”Se questo è un uomo”di Primo Levi. Che lo abbia fatto non perché non ha capito il valore dell’opera, ma per indifferenza, perché non ha ritenuto importante che certe cose fossero rese note?». Tutti questi antifascisti doc, che c’erano rimasti così male, avrebbero invece dovuto aprire un dibattito sul ”perché”i Taccuini, scoperti da trent’anni, erano venuti fuori solo allora, per decisione di Lorenzo Mondo. Il quale, a suo tempo, li aveva fatti leggere a Italo Calvino che era rimasto scioccato e aveva raccomandato «prudenza». Salvo, poi, rimuovere la faccenda. Ma perché la ”prudenza”? Perché la ”rimozione”? E perché, dopo, lo ”stupore”? Mario Bernardi Guardi