Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  novembre 15 Martedì calendario

Chi li ha scoperti li ha soprannominati Hobbit, come i personaggi della saga di Tolkien. Sono i piccoli ominidi, alti circa un metro, che in un tempo paleoantropologicamente non molto lontano (18 mila anni fa) abitavano l’isola di Flores, nell’arcipelago indonesiano

Chi li ha scoperti li ha soprannominati Hobbit, come i personaggi della saga di Tolkien. Sono i piccoli ominidi, alti circa un metro, che in un tempo paleoantropologicamente non molto lontano (18 mila anni fa) abitavano l’isola di Flores, nell’arcipelago indonesiano. E come gli Hobbit, se ne erano stati tranquilli per qualche migliaio di anni in un’isoletta fuori mano, senza alcuna ambizione di conquista, diversamente dalle altre specie del genere Homo. Adesso, però, qualcuno ha scoperto le loro tracce e si è reso conto di essersi imbattuto in qualcosa di assolutamente nuovo. La sensazionale scoperta, di cui ha dato conto Nature, è merito del team di paleontologi guidato da Peter Brown dell’Università di Armidale (Australia), insieme all’Indonesian Centre for Archaeology, e risale al settembre 2003. Nella grotta di Liang Bua sono stati ritrovati i resti di sette individui di una specie ancora sconosciuta di ominidi, incluso lo scheletro quasi integro di una femmina adulta (ribattezzata LB1), insieme a quelli di un elefante pigmeo (lo stegodonte) e di alcune lucertole giganti, oltre ad attrezzi in pietra quali amigdale, asce, raschiatoi e punte di freccia (alcuni di questi manufatti risalgono a circa 800 mila anni fa). Le ossa degli ominidi non si erano fossilizzate, ma avevano la consistenza della carta assorbente bagnata. Gli scienziati sono ancora al lavoro nel tentativo di estrarre il Dna, che dovrebbe fornire informazioni interessanti. Secondo Olga Rickards, docente di Antropologia molecolare presso il dipartimento di Biologia dell’Università di Roma Tor Vergata, l’eccezionalità della scoperta risiede nel fatto che «il nostro albero evolutivo si arricchisce di un nuovo ramo anche in un segmento temporale, attorno ai 20 mila anni fa, che pensavamo occupato da un’unica specie del genere Homo: il sapiens, cioè noi. La scomparsa dell’uomo di Neanderthal, infatti, risale a circa 30 mila anni fa». Aver individuato questo nuovo ramoscello cambia di fatto la comprensione di tutta l’ultima parte della storia evolutiva dell’uomo a livello geografico, biologico e culturale. «L’isola di Flores sembra non essere mai stata collegata alla terraferma» continua Rickards «e l’avervi trovato una forma che, vista la sua struttura anatomica e le tracce di manufatti datati fino a 800 mila anni fa, sicuramente si è evoluta a partire da una popolazione di Homo erectus, riducendosi poi di taglia a causa di fenomeni di nanismo insulare (ben conosciuti tra i mammiferi), ci fa ritenere che già l’Homo erectus, e non solo l’Homo sapiens come prima pensavamo, aveva quelle capacità culturali e tecnologiche che gli hanno permesso di attraversare grandi barriere marine». Anche Michael Moorwood, uno degli scienziati del team australiano, ipotizza che il floresiensis costruì delle rudimentali zattere di bambù che gli permisero di attraversare il braccio di mare, largo circa 20 chilometri, che lo divideva dalla terra emersa più vicina. Inoltre, se questi Hobbit si sono evoluti nell’isolamento a Flores, è plausibile immaginare che la stessa cosa possa essere accaduta in altre isole vicine (l’arcipelago indonesiano ne conta migliaia, di cui un certo numero pressoché inesplorate). L’Homo floresiensis come ultima e imprevista variante dell’Homo erectus, dunque. Ma questo pone dei problemi molto interessanti. Antonio Aimi, esperto di Antropologia museale, si chiede: «Come è stato possibile che dall’erectus, che aveva caratteristiche piuttosto diverse (tra l’altro era alto 180 centimetri e aveva un cranio con una capacità di 800-1.000 centimetri cubi) si sia sviluppato il floresiensis?  il risultato dell’effetto-isola, mai precedentemente riscontrato nell’uomo? E come è possibile che esseri con un cervello così piccolo abbiano potuto produrre utensili come quelli del Paleolitico medio-superiore e cacciare grandi animali? Forse che l’intelligenza non è in funzione del numero dei neuroni ma delle loro organizzazioni?». La ridottissima dimensione della scatola cranica (380 centimetri cubici, la misura di un pompelmo, come il remotissimo Australopithecus) è senza dubbio la caratteristica più evidente di questa specie. Rickards osserva come «il nanismo dell’Homo floresiensis è senza dubbio molto spinto ed è particolarmente evidente nelle dimensioni della testa più che del corpo. Questo dimostra che l’evoluzione ha reso possibile la nascita di una specie con cervello piccolo a partire da una con cervello grande, proprio l’opposto di quello che abbiamo sempre visto succedere nel corso dell’evoluzione degli ominidi». Da qui gli interrogativi sui processi di encefalizzazione e sul comportamento di questi nostri remoti cugini. «Il fatto che la popolazione fondatrice di Homo erectus sia arrivata a Flores» ipotizza Rickards «potrebbe indicare che già alcuni dei nostri parenti arcaici avevano comportamenti complessi e ”sapienti”, che credevamo tipici dell’Homo sapiens. Ma per quanto riguarda il comportamento dell’Homo floresiensis, al momento non si può ancora dire nulla di preciso». L’estrazione del Dna potrebbe sciogliere qualche dubbio. Rickards fa notare che la datazione dei reperti (18 mila anni) «cade nel range di sopravvivenza del materiale genetico, posto teoricamente a circa 1 milione di anni e attestato a 400 mila con il ritrovamento di Dna dal tessuto vegetale conservato nel permafrost della Siberia. L’analisi molecolare di LB1 potrebbe quindi fornire utili indicazioni su questi piccoli uomini estinti. Per esempio una loro possibile somiglianza genetica con i neanderthaliani (di cui si hanno informazioni relativamente al Dna mitocondriale) e il grado di diversità dalla nostra specie». In ogni caso, secondo gli stessi scopritori, questo ritrovamento è il colpo definitivo alla teoria dell’evoluzione multiregionale dell’Homo sapiens. Rickards è d’accordo, senza contare che «questo scenario è stato messo in seria discussione anche da una serie di ricerche paleoantropologiche e genetiche sia su popolazioni attuali della nostra specie sia su reperti neanderthaliani ed esemplari paleolitici di Homo sapiens». Comunque, questa ipotesi presuppone che la nostra specie sia andata evolvendo verso un’unica direzione a partire da una vasta popolazione che per un lungo periodo di tempo è stata caratterizzata da un forte mescolamento con conseguente flusso genico e pertanto in assenza di isolamento. «L’Homo floresiensis ci dimostra non solo che la sua evoluzione si è svolta in assenza di scambi genetici con altri ominidi, ma anche che questa nuova specie non ha affatto contribuito alla struttura genetica dell’Homo sapiens» conclude Rickards. A questo punto, forse non basta più aggiungere un altro ramo all’albero evolutivo. Secondo Aimi, infatti, «la nuova metafora del processo di ominazione non è più un albero, ma un cespuglio, e per di più un cespuglio abbastanza intricato, in cui non si vede molto bene». L’effetto ottico che disturba di più è il sovrapporsi di due piani temporali, storia e preistoria, che in genere manteniamo rigorosamente distinti attraverso scansioni cronologiche fatte a tavolino. Questi piccoli uomini, invece, con tutta la loro semplicità e perizia, erano ancora vivi 12 mila anni fa, quando il sapiens sapiens iniziava ad arare i campi, a costruire città e a scrivere. Addirittura, a Flores si tramandano leggende su piccoli uomini dai capelli e dal pelo lunghi che fino a 150 anni fa giravano nelle campagne e avevano l’abitudine di rubare il cibo; noti cone ebu gogos (le nonne che mangiano di tutto), furono sopportati finché rapirono un bambino e lo mangiarono. «Qualche floresiensis potrebbe esistere ancora oggi» azzarda l’antropologo Bert Roberts. Potrebbe trattarsi dell’orang pendek (piccola persona), una misteriosa creatura dai lineamenti scimmieschi avvistata da diversi testimoni nelle zone più remote di Sumatra, una della maggiori isole indonesiane. Forse ha ragione René Girard, il grande filosofo e antropologo francese, quando individua la scintilla dell’ominazione non nell’intelligenza, ma nella violenza simbolicamente mediata: è, secondo lui, il meccanismo del capro espiatorio, per cui il gruppo si difende dall’aggressività incontrollata che ne minaccia l’esistenza convogliandola tutta su un individuo, che viene espulso. Questi Hobbit – e chissà quanti altri gruppi di ominidi a loro simili – avevano un cervello minuscolo che non impedì loro di far fronte ai bisogni elementari (ripararsi, cacciare, riprodursi), ma forse non avevano sviluppato una strategia adatta a controllare i conflitti autodistruttivi e alla lunga soccombettero. Da questo punto di vista, gli Hobbit di Tolkien sono più svegli. In ogni caso, dopo la scoperta di Liang Bua, sta per nascere un’altra saga appassionante.