La Repubblica 13/11/2005, pag.25 Giuseppe Videtti, 13 novembre 2005
Springsteen si racconta "I miei trent´anni da Boss". La Repubblica 13/11/2005. Roma. Sabbia e colla sulle corde vocali, parla con la voce di un saggio, e a chi ascolta viene in mente il nonno che gli raccontava le atrocità della guerra
Springsteen si racconta "I miei trent´anni da Boss". La Repubblica 13/11/2005. Roma. Sabbia e colla sulle corde vocali, parla con la voce di un saggio, e a chi ascolta viene in mente il nonno che gli raccontava le atrocità della guerra. In entrambi i casi, distillati di saggezza antica. Bruce Springsteen chiama dalla Virginia, è il «Veteran day» e fra poche ore suonerà a Norfolk. In lontananza si ode il pubblico, impaziente di ascoltare le canzoni di "Devils and dust". Il voto parziale, anche in Virginia, roccaforte di un Bush mai stato così basso nei sondaggi, è stato un trionfo per i democratici, e Tim Kaine, che è contro la pena di morte, è di gran lunga favorito rispetto al repubblicano Kilgore, sostenitore dell´iniezione letale. «Bel risultato no?», dice il Boss scoppiando in una risata liberatoria. «Con la campagna "Vote for change" abbiamo perso, ma ora ci stiamo prendendo la rivincita». Bruce Springsteen, 56 anni, ha appena pubblicato un cofanetto per celebrare i trent´anni dall´uscita di "Born to run", il suo primo disco milionario, che contiene oltre alla versione rimissata del capolavoro, due dvd con un documentario di novanta minuti sul «making of» dell´album e un intero concerto di due ore tenuto all´Hammersmith Odeon di Londra alla fine del 1975. Il Boss sprofonda nei ricordi. «All´epoca ero un ragazzo di 24 anni, avevo pubblicato un paio di dischi ("Greetings from Asbury Park, NJ" e "The wild, the innocent and the E Street shuffle", ndr) e la casa discografica mi mise davanti a un dilemma: sei al terzo disco, con questo devi sfondare. La canzone che dà il titolo all´album mi venne quasi di getto, poi quando si trattò di completare il lavoro furono dolori. Volevo fare un disco che facesse epoca, volevo essere grande. All´inizio pensavo fosse facile: entro in studio e rigurgito d´istinto tutto il rock´n´roll che ho dentro, le mie passioni, le mie aspirazioni, i desideri e il mio insopprimibile bisogno di creare. Invece mi resi conto che era un´impresa titanica e le otto canzoni che avevamo tra le mani stentavano a prendere forma». Il Boss cominciò a lavorare come un forsennato a rifinire le sue storie, trascinando la band nella più effervescente, stressante e interminabile esperienza discografica della storia del rock. «Alla fine di ogni take, Bruce ripeteva: "un´altra volta, un´altra volta, un´altra volta" e così via fino al mattino. I musicisti erano esausti. Per tenersi sveglio Bruce masticava la stagnola del chewingum», ricorda il produttore Jon Landau. Ma per il Boss era l´inizio di un sogno e le notti insonni il necessario contorno alla sua idea di rock-bohème: «Comprai per duemila dollari la mia prima automobile, una Chevy del ’57 con una fiamma disegnata sul cofano. Era l´agosto del 1975, l´anno che cambiò la mia vita. Abitavo in una casetta a West Long Branch, a nord di Asbury. Avevo in mente i miei eroi, sguazzavo nell´epopea romantica di Roy Orbison, ma volevo costruire qualcosa di più grande, qualcosa che assomigliasse al "wall of sound" di Phil Spector. Scoprii solo più tardi che "Thunder Road" era il titolo di un film (del 1958, diretto da Arthur Ripley, dove Robert Mitchum è un veterano della guerra di Corea, ndr)». Di quella cittadina dell´America piccola, formata di case sparse, che qualsiasi visitatore avrebbe considerato uno squallido buco, Springsteen fece la sua Itaca. L´Odissea iniziò a Asbury Park; da lì l´Ulisse del New Jersey cominciò a veleggiare. «Quell´album rispondeva a tre domande fondamentali: cosa fai quando i sogni si avverano? Cosa fai quando non si avverano? Esiste l´amore? Il pubblico rispose con entusiasmo al romanticismo del disco e alla sua innocenza. Fu davvero come partire per un lungo viaggio verso l´ignoto. Ai musicisti dissi: "Sistematevi le cuffie e allacciate le cinture di sicurezza". E imbracciai la mia chitarra, quella che è sulla copertina del disco. L´ho suonata per trent´anni. La pagai 185 dollari, è una combinazione tra un´Esquire e una Telecaster». Ancora oggi i musicisti della E Street Band (Little Steven compreso) ricordano con una sorta di panico il maniacale perfezionismo e l´instancabile dedizione che il Boss mise in quelle sedute di registrazione. «Sono ancora oggi lo stesso perfezionista, ma ho un atteggiamento meno maniacale verso il lavoro», confessa Bruce. «"Born to run" richiese sforzi sovrumani perché non sapevamo che disco volevamo fare, volevo cambiare il mio modo di cantare e mi ci volle un po´ per perfezionare un nuovo stile. Oggi, dopo tanti dischi, è molto più semplice. Quando arrivo in studio ho già in mente il suono che voglio». Alla fine di tanto stress, Springsteen ascoltò la prima lacca ed ebbe voglia di buttarla nel fosso. Ci vollero tutti i papaveri della Columbia e il fido Landau a convincerlo che quel disco avrebbe stabilito nuove coordinate per la musica rock. E le classifiche diedero loro ragione, anche se il primo contatto di Bruce con la grande notorietà fu tutt´altro che elettrizzante. «Mi sentivo a mio agio sul palcoscenico, mentre facevo il mio lavoro, ma la vita privata sotto i riflettori era un incubo. La pressione della propaganda discografica mi mise ko. A Londra la misura era colma: arrivammo per il primo concerto nel Regno Unito all´Hammersmith Odeon. La città era letteralmente foderata di manifesti che dicevano "L´inghilterra è pronta per Bruce Springsteen". Ma come? pensai, io casomai che sono pronto per l´Inghilterra, chi ha pensato questo stupido e presuntuoso slogan? Non è questo che voglio, non ne ho bisogno. Ma fu un´esperienza istruttiva, capii che di quel passo sarei arrivato all´inferno». A quel punto pretese che nessuna decisione sulla sua carriera sarebbe stata presa senza il suo consenso. Non sarebbe rimasto un rocker puro se avesse demandato ogni cosa all´industria. «Io ho sempre dei problemi quando si parla della purezza del rock, perché sinceramente credo che non esista. Fin dall´inizio ho deciso che il punto di partenza, il mio tesoro più prezioso, era la mia identità. Di conseguenza quel che dovevo fare era proteggerla a ogni costo, anche da me stesso oltre che dal music business. Per riuscirci ho sempre considerato l´industria come un postino che serve per consegnare i miei dischi ai fan. E non mi sono mai staccato dalle mie radici, sarei morto se lo avessi fatto. Sono rimasto in New Jersey, con gli amici di sempre. Asbury Park ha conservato sulla mia lucidità, ha vigilato sulla mia vitalità, ha mantenuto intatta la mia identità. Questo mi ha garantito grande libertà e una vita da privilegiato in un music business che ha fatto molte vittime». Leggenda dice che nel 1976, durante una data del tour di "Born to run" a Memphis, il Boss abbia scavalcato i cancelli di Graceland per cercare di incontrare Elvis. «Il Re non è in casa, è a Lake Tahoe» (era vero), gli rispose una guardia. Bruce, per blandirla, gli disse che era un rocker famoso, che il 27 ottobre 1975 sia Time che Newsweek lo avevano messo in copertina (era vero). Ma il gorilla, insensibile, lo scortò verso l´uscita. «Altro che leggenda, è andata proprio così. Quando l´anno dopo Elvis morì, cominciai a riflettere sulla fragilità degli artisti. Anche per questo non mi cullo mai sugli allori. Lo capii anche meglio dopo il gigantesco successo di "Born in the Usa" (1984): l´artista è sempre racchiuso in una scatola e deve essere una specie di Houdini, un mago: scende incatenato in fondo al mare e poi deve avere la capacità di liberarsi e risalire. Se non ce la fa, rimane nella scatola, prigioniero di se stesso e dei suoi fan. Il segreto è creare l´opera d´arte e poi immediatamente prenderne le distanze. Ancora oggi le domande che mi faccio sono le stesse: dove sto andando? dove mi porterà questo viaggio? che canzoni scriverò domani? cosa dirò ai miei fan? Molti artisti si distruggono perché perdono di vista questi obiettivi. E allora la creatività va a farsi fottere e con essa il motivo stesso per cui noi saliamo su un palcoscenico. Non ce l´avrei fatta neanche io se, dopo "Born to run", non mi fossi guardato indietro e avessi fatto retromarcia». Giuseppe Videtti