MACCHINA DEL TEMPO MARZO 2005, 11 novembre 2005
Cento anni fa, il mondo cambiò. Nel 1905, il sole, le stelle, la terra su cui camminiamo furono analizzati attraverso una lente che mostrava un universo finora sconosciuto
Cento anni fa, il mondo cambiò. Nel 1905, il sole, le stelle, la terra su cui camminiamo furono analizzati attraverso una lente che mostrava un universo finora sconosciuto. Non si trattò di semplice progresso tecnologico, anche se - privi di questa nuova visione del mondo - oggi non avremmo i raggi X e la tomografia assiale computerizzata (Tac), i forni a microonde e le fotocopiatrici, il laser, i telefonini e i lettori Dvd, la tivù e gli schermi a cristalli liquidi, l’energia atomica, la fotografia digitale e moltissime altre cose. Fu, al contrario, una vera rivoluzione del pensiero umano, che in un sol colpo spazzò via secoli di convincimenti, teorizzazioni, idee, pensieri ormai considerati certezze assolute. Alla fine dell’Ottocento, infatti, si pensava di esser ormai a un passo da una completa e finale descrizione del cosmo. Esisteva soltanto qualche tassello che ancora non s’inseriva del tutto, ma i fisici ci stavano lavorando alacremente. L’enigma più grosso era senza dubbio quello dell’etere. «Ai tempi si credeva che la luce e le altre radiazioni e particelle avessero bisogno di un mezzo attraverso cui viaggiare, che fu chiamato etere», afferma Amir D. Aczel, docente di matematica al Bentley College del Massachusetts ed esperto internazionale delle teorie einsteiniane. «Non che tale mezzo fosse mai stato visto, o comunque percepito, ma in qualche modo doveva esistere». L’etere avrebbe trasportato i raggi luminosi e le onde radio come l’aria trasporta i suoni. Ciò che ancora non era chiaro erano le sue caratteristiche fisiche, in quanto lo si considerava una vera e propria sostanza. Magari più rarefatto del più rarefatto dei gas, ma sempre materiale. Una volta rivelate queste particolarità, ogni pezzo del mosaico celeste sarebbe andato al posto giusto. L’etere, però, pose più problemi che soluzioni. Un’onda come quella sonora, ad esempio, trasmessa attraverso un qualsiasi materiale (aria, metallo, muratura o quant’altro) subisce affievolimenti o amplificazioni. La medesima cosa ci s’attendeva dalla luce che attraversa l’etere. Se corro nella stessa direzione di un raggio di sole, la sua velocità sarebbe dovuta apparirmi più lenta, come se fossimo trascinati dal medesimo fiume; se invece mi muovo in direzione opposta, più veloce, poiché io sto nuotando controcorrente mentre il raggio no. Invece, esperimenti dal risultato incontrovertibile dimostravano il contrario: la velocità della luce restava sempre la stessa, indipendentemente da come uno si muoveva. Nel 1905, fu un certo Albert Einstein a risolvere una volta per tutte il dilemma. Però, se qualcuno avesse chiesto agli scienziati più accreditati in quegli anni una benché minima informazione sul conto di questo signore, avrebbe ricevuto di rimando soltanto sguardi interrogativi. Albert, infatti, non insegnava in nessuna università, né compiva esperimenti in qualche laboratorio di spicco. Era, al contrario, un insospettabile giovanotto di 26 anni, perito tecnico di terza categoria all’Ufficio Brevetti di Berna, in Svizzera. Impiego dignitoso, ma modesto. Eppure, fu senza dubbio la cosa migliore che finora gli fosse capitata. Era nato il 14 marzo 1879 a Ulm, in Germania, da una coppia di ebrei non praticanti. Da subito si dimostrò bambino solitario, introverso, lento nell’apprendere: aveva superato i tre anni, e ancora non spiccicava verbo. Hermannn e Pauline, i genitori, l’osservavano preoccupati e non esitarono a rivolgersi a vari dottori per capire di quale ritardo mentale soffrisse il loro primogenito. Di certo, non si sarebbero immaginati che questo bimbetto, nel 2004, sarebbe stato definito ”il personaggio del secolo” dalla prestigiosa rivista Time. La situazione del mutismo si normalizzò da sola, ma la lotta di Einstein con le parole durò per tutta la vita. Anche la scuola dell’obbligo divenne presto un calvario. Se con impegno e volontà Albert doppiò lo scoglio delle elementari, i corsi al Ginnasio Luitpold di Monaco - ove la famiglia s’era trasferita - divennero presto un incubo. Molti anni più tardi, nel 1955, egli stesso scriverà: «Come allievo, non ero né particolarmente bravo, né particolarmente negato. Il mio maggior difetto consisteva nella scarsa memoria, soprattutto per le parole e i testi. Soltanto in matematica e in fisica ero, grazie ai miei studi personali, molto più avanti del programma scolastico, e altrettanto può dirsi per quanto concerne la filosofia». ’Grazie ai miei studi personali”: una frase rivelatrice, che tradisce il metodo su cui si fondava l’anarchico sviluppo intellettuale del ragazzino. La madre Pauline era una discreta violinista e a questo strumento lo iniziò, regalandogli l’unico amore a cui rimarrà fedele per tutta la vita. E anche se i suoi compagni di classe lo chiamavano Biedermeier - borghesuccio, che è come dire sempliciotto - questo ragazzetto possedeva una strana forma di curiosità, che stupiva e inorgogliva i parenti, malgrado a volte sorridessero della sua fantasia fin troppo sbrigliata. A cinque o sei anni, costretto a letto da una malattia, ricevette in dono dal babbo, uomo d’affari di buon cuore, una bussola magnetica. L’effetto ebbe conseguenze addirittura drammatiche: ecco un ago, separato da qualsiasi visibile forza esterna, costretto da un impulso misterioso a puntare verso nord. Quale trucco lo spingeva sempre in quella direzione? Dove si celava quest’energia che attirava a sé il minuscolo spillo della bussola? Tutto il suo mondo infantile, fatto d’ordine e di quotidianità, ne fu stravolto. Con quella che in seguito definirà ”un’attenzione senza respiro”, Albert divorò libri su libri di divulgazione scientifica. A 12 anni, ricevette dallo zio Jakob, fratello del padre, un volumetto sulla geometria euclidea: fu amore a prima vista. Insomma, la mente di Albert funzionava bene, anzi benissimo. Solo a scuola le cose precipitavano. Quella disciplina quasi militare non era per lui. Il suo unico desiderio era fuggire da una gabbia che sentiva giorno dopo giorno sempre più soffocante. L’occasione si presentò improvvisamente. Dopo alcuni anni di prosperità, la fabbrica di Hermann e Jakob Einstein, a Monaco, attraversò tempi difficili. Nel 1894 fu ceduta e le due famiglie si trasferirono a Pavia, per cercare in terra straniera maggior fortuna. Albert scalpitò per raggiungerli a Milano, dove trascorse l’anno più spensierato di tutta la sua vita. Tentò comunque di entrare nel prestigioso Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo, in Svizzera, dove avrebbe potuto frequentare la facoltà d’ingegneria. Albert aveva 16 anni: si presentò e fu bocciato. Motivo: scarse conoscenze di letteratura e di botanica. Ma il tentativo non fu un insuccesso totale. Albin Herzog, direttore del Politecnico, esortò Einstein a non perdere tutte le speranze: poteva ottenere un diploma nella scuola cantonale svizzera di Aargau, nella cittadina di Aarau. Era un istituto che oggi definiremmo sperimentale: tutt’altra aria, se confrontata al grigio ginnasio di Monaco. Per una volta, Albert era contento di frequentare le lezioni. Un giorno, mentre osservava un raggio di sole colpire il terreno, si chiese: «Chissà come apparirebbe la luce, a qualcuno che le potesse correre a fianco alla medesima velocità?». Già, bella domanda. Tipica di un sempliciotto. Eppure la questione non lo abbandonava mai. Che cosa sarebbe sembrato, quel fascio di luce, visto nella sua progressione? E che cosa avrebbe notato, davanti a sé, il velocissimo osservatore? Il buio più completo, oppure qualcos’altro? A una domanda assurda, risposte impossibili. Il destino di Albert è già tratteggiato a chiare lettere: troverà risposte impossibili a domande assurde. Ad Aarau, Albert intrecciò amicizie importanti, che condizionarono la sua esistenza futura. Viveva a casa di un suo insegnante, Jost Winteler, che lo trattava come uno di famiglia. Uno dei figli di Winteler sposerà in seguito la sorella di Albert, Maja, più giovane di due anni e mezzo. Qui incontrò Michele Besso, che rimase uno dei suoi amici più fedeli e cari: sentiremo ancora parlare di lui. A 17 anni, finalmente, si diplomò. Il pezzo di carta gli aprì le porte del Politecnico di Zurigo. Ma il ragazzo poco incline alla disciplina non era morto. Tutt’altro. Anche i banchi del Politecnico parevano troppo stretti. Albert rischiò grosso, perché gli esami non erano una passeggiata. Per sua fortuna, strinse profonda amicizia con un compagno, Marcel Grossmannn, un vero talento per la matematica. Metodico e puntiglioso, Marcel passava ad Albert i suoi precisissimi appunti, su cui studiare diventava più facile e immediato. La collaborazione tra i due non s’interruppe mai e frutterà di lì a pochi anni risultati incredibili. Ma Einstein incontrerà fra le aule del Politecnico anche un’altra persona: Mileva Mari, brillante compagna di corso che farà breccia nel cuore del futuro scienziato, diventando la sua prima moglie. Nel 1900, all’età di 21 anni, Albert Einstein si laureò. Grazie anche all’aiuto dell’amico Grossmann, Einstein riuscì a farsi assumere all’Ufficio svizzero dei Brevetti, a Berna. Nel febbraio 1902 vi andò ad abitare. Il 10 ottobre del medesimo anno morì suo padre. Nel 1903 sposò Mileva Mari. Il suo primo figlio, Hans Albert, nacque nel 1904; il secondo, Eduard, nel 1910. Intanto, le università continuavano a sbattergli le porte in faccia, i suoi lavori respinti o giudicati superficiali e poco ortodossi. Insomma, Albert cominciò a convincersi che non avrebbe mai avuto uno straccio di carriera. S’adattò al lavoro d’impiegato, ai suoi ritmi regolari e alla sua monotonia, di cui mai si lamentò. All’Ufficio trovò persino il suo vecchio amico Michele Besso, ormai ingegnere. Ripresero a conversare di tutto. Intelligente, acuto, sensibile e amorevole, per Einstein l’italiano Michele fu il catalizzatore ideale di tutte le sue idee. E la vita gli scorreva tra le dita, sempre uguale. Di certo non era il futuro che sognava, ma sarebbe andato bene ugualmente. Il dèmone che suggeriva alla sua mente domande bizzarre, però, non era ancora stato domato. Nelle pause lavorative, in tutti i momenti in cui il capufficio voltava la testa, durante le passeggiate verso casa, il cervello di Einstein lavorava a più non posso. Siamo nel 1905. Albert ha 26 anni. Il treno dell’universo sta per essere dirottato su binari imprevisti, ma ancora non lo sa. Il 30 giugno di quell’anno, sulla rivista Annalen der Physik, appare il primo di tre studi che renderanno Einstein uno dei più grandi scienziati della storia. Il titolo era: ”Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento”. Fu la prima formulazione della teoria della relatività ristretta (o speciale). Il saggio era lungo una trentina di pagine e Albert aveva impiegato cinque o sei settimane per scriverlo. Nello slancio della creazione, tre mesi dopo inviò altre tre pagine d’aggiunte. E ciò che vi si leggeva sembrava uno scherzo assurdo. Egli stesso non riusciva a capacitarsene. Così come non si capacitava di pensare che proprio a lui fosse toccato in sorte di svelare una barzelletta cosmica dalle prospettive sconvolgenti per tutta l’umanità. A quattro paragrafi dalla fine, la soluzione. I cieli non s’aprirono, gli angeli non cantarono, non ci fu neppure un rullo di tamburi. Eppure, la notissima formula E=mc2 - seppur non scritta ancora a chiare lettere - aveva fatto il suo primo ingresso nel nostro mondo. LA RELATIVIT RISTRETTA. In questo lavoro, Einstein fa importanti dichiarazioni. La prima: poiché nessuno riesce a comprendere se ci muoviamo in questo fantomatico etere oppure no, l’intera nozione è inutile o, per lo meno, inutilizzabile. La seconda: poiché riflettere sull’etere è inconcludente, pensiamo piuttosto che le leggi della scienza dovrebbero apparire identiche a ciascun osservatore, sia esso in quiete o in movimento. Un centimetro, in qualsiasi condizione lo si misuri, rimarrà sempre tale. La stessa cosa vale per un minuto. l’esperienza stessa che ci conduce a ragionare così, assieme alla fisica classica di Newton. Ne consegue che gli osservatori dovrebbero tutti misurare con esattezza la velocità della luce, non importa dove e come si muovono. Però, però... Facciamo un esempio: pensiamo a un treno che corra a 100 km l’ora e a una persona che cammina tra i vagoni a 3 km l’ora: per un osservatore che guarda l’evento dall’esterno, a che velocità andrà l’uomo sul treno? Facile: 100 km/h + 3 km/h. Uguale 103 km/h. E per un passeggero sul treno? Semplice: a 3 km/h, poiché egli non prende in considerazione il fatto di essere in un vagone in movimento. Ma se si sostituisse il corridore con un raggio di luce? Per l’osservatore esterno sarebbe 100 km/h+ 300mila km/s=300.000,0027 km/s e per un altro sul treno ”soltanto” 300mila km/s? No, perché era già stato dimostrato che, in qualunque condizione la si voglia misurare, la velocità della luce non cambia mai. una costante. E allora? Allora dovranno mutare altre cose: il tempo di percorrenza e lo spazio percorso, ad esempio, allungandosi o restringendosi per permettere alla luce di rimanere sempre uguale. Sembra quindi che le percezioni spazio-temporali dei vari individui che osservano un evento varino in conformità al loro moto individuale, tanto da far sì che la velocità della luce resti apparentemente sempre la stessa. Questi riadattamenti compensativi possono essere riportati in linguaggio matematico nei termini di un unico fattore di contrazione. Il che significa che il tempo e lo spazio non sono entità assolute (cioè delle costanti), ma variabili al variare della velocità. Più vado veloce, più lo spazio si contrae e più il tempo s’accorcia, permettendomi di ritenere sempre uguale e costante la velocità della luce. Non basta: il tempo e lo spazio, entrambi influenzati dalla velocità, diventano variabili che si combinano in un’unica entità: lo spazio-tempo. Se la faccenda finisse qui, della questione s’interesserebbero soltanto i fisici atomici che hanno a che fare con elettroni e protoni. Einstein invece va avanti e tocca altri punti nevralgici della fisica classica: il rapporto massa-energia e la conservazione delle stesse. Partiamo dall’inizio. Nelle tre pagine d’aggiunta alla sua teoria, attraverso serrati calcoli matematici, Einstein dimostrò che, se la velocità della luce appare sempre la stessa a qualsiasi velocità uno si muova, significa che nulla può andare più veloce della luce. E fin qui il discorso torna. «A un osservatore esterno», spiega l’americano David Bodanis, matematico teorico e uno dei maggiori conoscitori del grande personaggio e delle sue teorie, «l’aumento di energia di un oggetto in movimento avrebbe potuto manifestarsi con un incremento della massa. Lo stesso argomento era valido anche facendo il ragionamento inverso: in determinate condizioni, un oggetto avrebbe potuto produrre energia, utilizzando la sua stessa massa». E prosegue: «Fin dal 1890, alcuni ricercatori si trovarono di fronte a un fenomeno che avvalorava una simile teoria. Molti minerali grezzi contenenti tracce di metalli, portati dal Congo o dalla Cecoslovacchia in alcuni laboratori di Parigi e Montréal, emettevano fasci energetici di natura misteriosa. Se durante questo processo i minerali si fossero consumati, non ci sarebbe stato nulla di sorprendente, visto che si sarebbe potuto pensare a un normale fenomeno di combustione. Ma non era così. Questi metalli radioattivi traevano la loro energia annichilendo porzioni infinitesime della loro massa e le trasformavano in una forma amplificata d’emissione d’energia». E in pratica, che cosa significa? Che la massa è energia, e viceversa: ogni zolla di terra, ogni piuma, ogni granello di polvere, ogni atomo d’idrogeno, tutto insomma, è un prodigioso serbatoio d’energia intrappolata. Bastava soltanto riuscire a farla schizzar fuori dalla materia. Da questa formula partì la lunga e travagliata strada verso la fissione nucleare e l’attuale ricerca verso la fusione. «Forse tra 50 anni riusciremo a riprodurre una piccola stella anche sulla Terra», afferma Antonino Zichichi, professore emerito di Fisica Superiore all’Università di Bologna e scopritore dell’antimateria nucleare. «La fusione, almeno per ora, sappiamo farla con le bombe, non con le candele. Il Sole, ad esempio, è una candela a fusione nucleare». Einstein aveva sollevato il velo dietro cui gli dèi del creato avevano celato il loro segreto più recondito. Il fatto non poteva passare inosservato e accrebbe di parecchio la fama di Einstein: finalmente, le università cominciarono a guardarlo con occhi diversi. Nel 1907, all’età di 28 anni, Albert divenne professore aggiunto di fisica teorica all’Università di Zurigo. Nel 1911 gli fu offerta la posizione di professore di ruolo all’Università Tedesca di Praga. Ma inutile seguire i vari balletti tra un ateneo e l’altro. Mentre Einstein approfondiva i suoi studi, il mondo politico subiva scossoni sempre più forti. Era scoppiata la prima guerra mondiale. Albert, però, aveva altre preoccupazioni. Da tempo stava lavorando a una teoria che avrebbe dovuto spingere a conseguenze cosmiche quanto aveva fatto finora. Ma i problemi in gioco erano enormi e la matematica necessaria a fornire un solido impianto teoretico era troppo elevata per lo stesso Einstein. Il fedelissimo Grossmann lo affiancò e finalmente le cose cominciarono a procedere per il verso giusto. Fu Grossmann, infatti, a individuare uno strumento matematico che poteva fare al caso suo: il calcolo tensoriale, elaborato dal matematico italiano Gregorio Ricci nel 1887, talmente complicato che pochissimi erano in grado di padroneggiarlo con mano sicura. Ma Grossmann, in matematica, era un talento puro: i due, a braccetto, superarono tutte le difficoltà che la nuova, ancor più folle idea dello scienziato presentava. Nel 1913, Einstein e Grossmann pubblicarono assieme una relazione innovatrice sulle loro ricerche, nel 1914 un altro scritto. Nel 1915, Einstein giunse a una soluzione completa: videro così la luce ”I fondamenti della teoria generale della relatività”. Se la relatività ristretta aveva aperto una finestra sulle forze del mondo, la relatività generale offriva all’uomo la chiave di lettura dell’intero universo. LA RELATIVIT GENERALE. Sebbene la teoria ristretta s’adattasse bene alle leggi che governavano l’elettromagnetismo, non era compatibile con la legge di gravità scoperta da Newton. «Einstein si era reso conto che la teoria della relatività ristretta era vera in un mondo senza oggetti dotati di massa», commenta Amir D. Aczel. «Era come se esistessero due teorie, la relatività ristretta e la gravitazione newtoniana: la teoria di Newton era valida per un mondo di basse velocità, ma in un universo in cui la velocità della luce, che è una velocità limite, avesse avuto un ruolo effettivo (come nel cosmo delle particelle atomiche e dei fotoni), sarebbe stato necessario correggerla. Analogamente, la relatività ristretta - corretta fin quando la gravità è insignificante - avrebbe avuto bisogno di modifiche per esser ancora valida in un universo dominato da oggetti di gran massa. Occorreva quindi fondere le due teorie». Einstein meditò su un fatto alquanto curioso: una persona che precipita non sente il peso del suo corpo, come fosse in assenza di gravità. Quindi, c’era una qualche relazione tra campo gravitazionale e accelerazione. Ad esempio: se fossi - a mia insaputa - rinchiuso su un’astronave che accelera nello spazio, priva di qualsiasi riferimento con l’esterno e distante dalla Terra (perciò non soggetta alla sua gravità), l’accelerazione verso l’alto spingerebbe gli oggetti verso il pavimento, esattamente come agirebbe la forza di gravità di un pianeta. Non sarei capace di distinguere la differenza tra gravità e accelerazione. Forte di questa equivalenza (accelerazione=gravità), Einstein tentò di spingersi oltre. Ad esempio: immaginiamo che accelerazione e gravità siano interscambiabili. Mettiamo alla prova questa teoria e vediamo che cosa succede. Se la Terra fosse piatta, il discorso filerebbe, poiché gli oggetti cadrebbero sempre al suolo o attirati dalla gravità, o dall’accelerazione. Ma, poiché la Terra è rotonda, questo ragionamento non vale più. Pensiamoci: se la Terra attrae gli oggetti perché accelerata verso l’alto, allora questa accelerazione verso la Terra (cioè verso il basso) dovrebbe valere solo per gli abitanti di un emisfero. Quelli dell’altro vivrebbero esattamente il contrario: gli oggetti schizzerebbero in aria! Einstein doveva fare un passo ulteriore, molto complicato, che gli richiese anni di lavoro. Occorreva agire sulla geometria della realtà. Ad esempio: se lo spazio-tempo si potesse incurvare, che cosa succederebbe? Se il continuo spazio-temporale in cui ogni cosa esiste potesse essere incurvato dalla massa e dall’energia, allora un oggetto più piccolo ”scivolerebbe” lungo la curvatura dello spazio-tempo causata da un oggetto di massa più grande. come andare in bicicletta lungo una strada diritta e piana e all’improvviso trovarsi ad affrontare una discesa ripidissima: che cosa mi spinge verso il basso? La forza di gravità o l’accelerazione? Impossibile dirlo: ecco quindi unificati definitivamente i due concetti. Ma se la massa-energia piega lo spazio-tempo e accelera-attrae masse-energie inferiori, allora anche la luce sarà soggetta al medesimo fenomeno. Anche un raggio luminoso si curverà, in presenza di un oggetto di massa enorme. Ma questa conquista ha dei limiti? «La grande idea di Einstein», aggiorna Zichichi, «è che la massa è ”curvatura” dello spazio-tempo. Quando mangiamo una bistecca, in effetti mastichiamo ”concentrato di spazio-tempo”. Einstein era convinto di avere capito tutto su ciò che c’era da capire nelle forze fondamentali della natura allora note: quelle gravitazionali e quelle elettromagnetiche che generano la luce. Quando Ernest Rutherford diceva a Einstein che c’erano anche le forze nucleari, ed Enrico Fermi scopriva le forze deboli, per Einstein si trattava di ”dettagli” che non sarebbero serviti per capire come mettere insieme le due forze che sembravano destinate ad avere il dominio su tutto. Einstein era convinto che la difficoltà per unificare gravità ed elettromagnetismo fosse di natura matematica. Dimenticando Galilei, dedicò 35 anni della sua attività scientifica senza riuscire a metterle insieme. Fu la grande opera incompiuta di Einstein. proprio studiando i ”dettagli” scoperti da Rutherford e Fermi, che siamo arrivati a trovare la chiave per unificare tutte le forze fondamentali della natura». Il 29 maggio 1919 due grandi scienziati inglesi, Arthur Eddington e Frank Dyson, durante un’avventurosa spedizione attorno al mondo a caccia di un’eclisse lunare, confermarono sperimentalmente quanto Albert aveva ipotizzato: la luce della luna si ”incurvava” a causa della curvatura nello spazio-tempo provocata dal Sole. Nel dicembre dello stesso anno, Eddington scrisse a Einstein: «Tutta l’Inghilterra ha parlato della sua teoria. La notizia ha prodotto una sensazione tremenda». Lo schivo impiegatuccio stava per trasformarsi in una vera superstar popolare. Ma il 1919 è anche l’anno che segna il divorzio con Mileva: l’11 febbraio, l’ex compagna ottenne la custodia dei due figli e Einstein s’impegnò al mantenimento di tutti e tre. Anzi, promise a Mileva che - se fosse riuscito a ottenere il Premio Nobel - avrebbe devoluto a lei l’intera somma. Cosa che puntualmente fece. Ma Albert non rimase a lungo solo: nel giugno del 1919 sposò Elsa Einstein, sua cugina germana. Nel frattempo, la situazione politica tedesca andava di male in peggio. E Einstein, ebreo e pacifista a oltranza, nonostante la fama mondiale divenne presto oggetto di malevolenze. Albert si rese conto molto presto, infatti, che non gli sarebbe stato possibile rimanere passivo, mentre le sofferenze del suo popolo aumentavano. Nel 1921, gli fu conferito il Premio Nobel: non per la teoria della relatività, la cui fondatezza pareva ancora un po’ dubbia, ma per un altro importantissimo studio del 1905, in cui fece la prima comparsa il ”quanto di luce”, il fotone. Nel frattempo, lo scienziato moltiplicava i suoi sforzi per la causa ebrea e per la nascita del nuovo Stato d’Israele. Al tempo stesso, cominciò a far spola tra l’America e Berlino, altalena che terminò bruscamente nel 1933, con l’ascesa di Hitler al potere. Einstein comprese che le porte della Germania s’erano chiuse per lui e per la sua famiglia. Il 17 ottobre 1933, si trasferì definitivamente negli Stati Uniti, prendendo alloggio all’Università di Princeton, nel New Jersey. Mentre lo scienziato lavorava alla teoria della relatività generale e si profondeva in conferenze e lezioni, il resto dei fisici non rimaneva inattivo. La sua E=mc2 non aveva cessato di incuriosire e spronare. Tanto che, alla fine, un modo per utilizzarla fu trovato: spezzando gli atomi di uranio, si poteva ricavare dall’operazione una quantità d’energia sconcertante. E mortale. La Germania nazista stava premendo moltissimo sull’acceleratore: dalla sua aveva una delle più grandi menti scientifiche del secolo, Werner Heisenberg, 23 anni, pietra miliare della fisica quantistica. Nessuno era in grado di dire con certezza se la prima bomba atomica tedesca fosse davvero realizzabile. Però, le informazioni che circolavano nell’ambiente scientifico erano agghiaccianti. Il 2 agosto 1939, Einstein scrisse - assieme ad altri scienziati - una lettera accorata al presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, avvertendolo della terribile minaccia che incombeva sul mondo. La lettera è diventata famosa ma, contrariamente a quanto si crede, le alte sfere non la presero troppo sul serio. Lo scienziato scrisse quindi una seconda lettera, ancora più incalzante: finalmente, Roosevelt passò all’azione. La storia del Progetto Manhattan, degli uomini che vi lavorarono e di come fu prodotta la prima bomba atomica della storia, sganciata su Hiroshima, riempirebbe da sola un libro. Ma un particolare desta curiosità: come mai, tra gli scienziati che presero parte al progetto, non figurava il nome di Einstein? Il vero motivo si scoprirà molti anni dopo, quando fu rinvenuto un lunghissimo dossier dell’Fbi sullo scienziato. Einstein, infatti, era sospettato di essere una spia comunista! Insomma, il suo focoso pacifismo aveva insospettito anche gli americani: dal 1933 al 1955, anno della sua morte, Albert fu costantemente tenuto sotto controllo. Strana sorte, per un uomo che desiderava solo stare in pace e svolgere le proprie ricerche. Invece, il peso dei tempi calcò sulle sue spalle già curve, incupendolo sempre più. La morte della seconda moglie nel 1936 spezzò le ultime difese psicologiche. La bomba atomica sul Giappone lo terrorizzò e lo sconvolse. Nonostante non avesse mai partecipato attivamente alla creazione dell’ordigno, sentiva come obbligo morale fare tutto il possibile affinché al genere umano fossero evitati simili orrori. Non era riuscito nel suo intento, perciò si sentì per sempre in colpa. Con la medesima intransigenza, non perdonò mai ai tedeschi il massacro di milioni di ebrei. Ormai, Albert era diventato un uomo tormentato, che trovava pace solo negli studi e nel violino. Inseguiva la chimera che, ancor oggi, tormenta le menti di tutti i fisici: la scoperta di una legge universale, che unificasse in una sola formulazione tutte le forze esistenti nel cosmo. «A parte che Einstein intendeva unificare soltanto due forze, gravità ed elettromagnetismo, e non le attuali quattro», suggerisce Zichichi, «l’unificazione aveva bisogno di due novità. La base matematica delle nostre teorie non può essere il ”punto” di Euclide, ma la ”cordicella”. La teoria della ”cordicella” dovrebbe essere la strada giusta, anche perché essa esige l’esistenza della legge di simmetria - detta ”Supersimmetria” - da cui nasce il Superspazio e, di conseguenza, il Supermondo. Questa legge di simmetria mette su basi di pari dignità le ”colle” (la luce è un esempio) e i ”mattoni” (i quark e i leptoni) di cui è composto l’universo». Einstein inseguì questo sogno di unificazione vanamente. Morì a Princeton il 18 aprile 1955, circondato dai più grandi onori. Aveva 76 anni. Nella sua vita aveva compiuto scoperte così grandi e impensabili, che il suo cervello è tuttora oggetto di studi neurologici. Al di là delle sue teorie, l’uomo Einstein ancora non cessa di meravigliarci. E non è detto che, un giorno, qualcuno non riesca a scoprire, indagando tra i suoi neuroni, la chiave per carpire il mistero dell’intelligenza umana. Come disse egli stesso: «Ci sono due modi di intendere la vita. Una è pensare che niente è un miracolo. L’altra è pensare che ogni cosa è un miracolo». Albert scelse la seconda strada. E, grazie ai suoi prodigi, da cento anni l’universo e la vita non sono più quelli di un tempo.